29 dicembre 2014

«Psicoanalisi della vita quotidiana. Conversazione con Antonio Alberto Semi» di Doriano Fasoli













Antonio Alberto Semi è membro ordinario con funzioni di training della Società psicoanalitica italiana ed è stato direttore della Rivista di Psicoanalisi. Tra i suoi lavori, ricordiamo La coscienza in psicoanalisi (2003) e Il metodo delle libere associazioni (2011), editi da Raffaello Cortina, così come il suo libro più recente, dal quale prende le mosse la presente conversazione.

Doriano Fasoli: Come è nata l’idea di quest’ultimo suo lavoro, Psicoanalisi della vita quotidiana?

Antonio Alberto Semi: Questa è una domanda difficile per uno psicoanalista. Come nascono le idee? Da dove vengono? Come si formano? Ma non voglio sfuggire, voglio solo dire che la risposta è inevitabilmente incompleta. Se sto a come me la ricordo io, l'idea è nata a poco a poco, forse proprio dalla difficoltà di mettere a fuoco un qualcosa che mi accorgevo girare per la testa e che ritornava in mille modi, ma, anche, in modi apparentemente scollegati. Mi accorgevo che scrivevo degli articoli quasi per fissare degli appunti per un futuro lavoro, che però restava sempre lì. Intendo dire che c'era qualcosa dentro di me che lottava contro la prospettiva, effettivamente poco allegra, di mettere a fuoco un concetto inquietante: quello della attuale intollerabilità della soggettività, con tutto quel che essa implica sul piano della diversità, della singolarità e, però, anche dell'eguaglianza; siamo davvero tutti diversi uno dall'altro. E naturalmente c'era anche la resistenza ad accorgermi quanto la cultura, Kultur, attuale mi condizionasse. Uno pensa sempre di pensare con la propria testa, e invece… Così ho pensato, in definitiva, di costruire un libro che mostrasse almeno in parte questo lavorio.

Può spiegare perché, come suona il sottotitolo, «L’umanità è in pericolo»?

Il sottotitolo è molto etnocentrico. Ma per ragioni di sintesi non poteva essere altrimenti. Quello che intendevo indicare è il pericolo che il progetto nobile della nostra cultura, dal Rinascimento in poi, subisca o stia subendo una brusca svolta regressiva. Come del resto capita nella storia: lo sappiamo purtroppo bene. Ovvio, poi, che si trattava solo di una parte delle tendenze della nostra cultura, ma Dio solo sa quanto importante. In fondo, per dirla in termini antropomorfici, l'Europa ha puntato tutto sull'individuo, sul suo sviluppo, sulle sue potenzialità e, soprattutto, sulla sua capacità di sviluppare la soggettività. Da un affare di pochi, questo è diventato un affare di molti; e poi perfino (la Rivoluzione francese) un diritto di tutti. Con alti e bassi, con crisi spaventose, ma con anche vertici meravigliosi, siamo giunti fino a vedere, ahinoi, la cosiddetta crisi del soggetto e, soprattutto, la rivolta sociale e politica contro il progetto di sviluppo della soggettività. La Shoah è stata il suggello di questa reazione, con la negazione dell'esistenza dell'individuo-soggetto e lo schiacciamento dell'individuo su un'identità di gruppo. I tedeschi mandavano al lager «gli ebrei», non il Tizio o il Caio: che questi avessero una loro storia o vicenda personale era del tutto irrilevante.

Beh, quel che mi chiedo io – e non solo io, naturalmente – è se la reazione anti-soggetto non abbia continuato a svilupparsi in Occidente, benché sotto altre forme. Il tutto è complicato dal fatto per cui lo sviluppo dell'Occidente (e ora anche del resto del mondo) è legato moltissimo allo sviluppo delle capacità psichiche dell'individuo. Se nel Medio Evo le capacità di pensare anche in termini astratti potevano essere limitate o richieste specificamente ai pochi monaci e intellettuali, a qualche mercante, perfino a qualche nobile, oggi è necessario che le capacità di ragionamento e di problem solving siano estese a moltissimi e i ‘moduli’ di ragionamento che passano attraverso i mezzi di comunicazione sono spesso molto complessi ed elaborati. In questo senso, un cognitivismo piatto può essere solo uno strumento conformista della tendenza culturale in atto. Sennonché, il problema che si pone alle forze della repressione è subito questo: come fare a sviluppare le capacità di pensiero e a inibire contemporaneamente lo sviluppo della soggettività, la quale rompe le regole, non si conforma, non si adatta, crea sì qualcosa di nuovo, ma a spese del ‘già noto’ e del ‘già dato’? Il pericolo non è che il computer la vinca sull'essere umano, ma che l'essere umano divenga un computer, pena l'esclusione. Il grande assente, in questa dinamica repressiva, è il desiderio. Perché il desiderio è sempre anche, perlomeno, sessuale; e rompe, come tale, gli schemi, le regole. Se poi si pensa che oggi, contrariamente ai tempi di Freud, l'individuo sta diventando pleonastico anche dal punto di vista riproduttivo…

9 dicembre 2014

«Il senso equoreo», un racconto di Romana Petri

Romana Petri

 

Qui, nessuno obbliga nessuno a fare nulla. Solo che casa mia è piena di libri. È per via del lavoro che faccio. E le biblioteche vengono sistemate con un ordine preciso, anche se ognuno ha il suo. Voglio dire che puoi decidere in molti modi, in ogni caso se la Letteratura sta da una parte, la Saggistica starà da un'altra, e così per i libri d’Arte, quelli di Storia, di Musica. A quel punto devi decidere se catalogare tutto per ordine alfabetico e per Paese. Io lo faccio per Paese e gli scaffali della letteratura americana sono proprio a portata di mano di un bambino. Cominciano dal terzo a sinistra e proseguono giù, fino a terra. Calcolando che gli scaffali sono quattro per fila, la letteratura americana, a casa mia, occupa dodici scaffali.

Una volta, mia moglie ed io ce lo siamo detti:

Prima o poi dovremo rimetterci le mani.

Quando?, ho domandato io.

Quando i bambini cominceranno a crescere. Non vorrai mica lasciare qualsiasi cosa alla loro portata, vero?

I libri come le medicine?, ho chiesto io facendo dello spirito.

Piantala, Giuseppe, ha risposto lei. Hai capito benissimo quello che voglio dire. Sì, in un certo senso i libri proprio come le medicine. Almeno fino a una certa età.

E poi il discorso è finito lì, ce ne siamo dimenticati. Il nostro figlio maggiore è arrivato all’età di 11 anni e tutti i libri sono rimasti al posto loro. Non lo so nemmeno se è stata casualità. In fondo, sono un tipo rigoroso, non certo di quelli che accumulano. Ho avuto sempre la passione di far fuori i libri non necessari. Non necessari per me. È una questione di spazi. Le biblioteche non mi sono mai piaciute affollate. Con il mestiere che faccio, poi, se lasciassi ai libri che arrivano l’agio di fare i comodacci loro, di piazzarsi in casa mia ad libitum… Nisba, qui da me, i libri hanno lo sfratto facile. Si chiama "quel numero" (con mia moglie diciamo così) e arriva un omino, si carica i cartoni che abbiamo messo davanti alla porta di casa, e certi volumi se ne vanno, escono di scena, vanno a fare i libri a metà prezzo da qualche altra parte.

14 novembre 2014

«Dialogo con Mario Bortolotto» di Doriano Fasoli

 

 

 

 

L'amato Duke Ellington e la passione giovanile per il jazz; il suono di Arturo Benedetti Michelangeli, «d'una bellezza unica e sconvolgente»; il Don Giovanni mozartiano e la «deliziosa» lettura che ne ha dato Giovanni Macchia («credo che lui e Mario Praz, il famoso anglista dell'Università di Roma, scomparso abbastanza di recente, siano innegabilmente gli ultimi esempi di cultura universale»); ‘Cesarino’ Brandi, amante della buona cucina quanto della buona prosa; Simone Weil e Bruno Walter; Musil e Conrad, tra gli scrittori prediletti; l'ineguagliabile senso della forma di Cristina Campo e le pagine memorabili da lei dedicate a Chopin ne Il flauto e il tappeto: è il mondo di Mario Bortolotto, che ha consegnato alla letteratura musicale – quale critico e storico, raffinatissimo – studi eccellenti, tra cui ricordiamo: Introduzione al Lied romantico (pubblicato presso Ricordi nel '62 e ristampato, in versione riveduta e ampliata, da Adelphi, nel 1984); Fase seconda (Einaudi, 1969), testo ‘militante’, di riflessione sull'avanguardia musicale degli anni Sessanta; Consacrazione della casa (Adelphi, 1982), indagine sul teatro lirico articolata in una costellazione di undici saggi.

«In Italia ritengo ci siano almeno sei o sette compositori nuovi, gente molto giovane che ha certamente qualcosa da dire. A parte che abbiamo sempre quegli autor fra i sessanta e i settant'anni, a tutt'oggi considerati fra i più interessanti che ci siano al mondo. Basti il nome di Franco Donatoni,» dice Bortolotto, che vive a Roma ed ha appena pubblicato (ancora per Adelphi) un libro sulle origini francesi del Novecento musicale, Dopo una battaglia (vincitore della prima edizione del Premio Amici di Santa Cecilia: Un libro per la musica).

Doriano Fasoli: E allora come spiega che in Italia un programma di musica contemporanea fa la sala vuota? È un fatto da attribuire semplicemente ad una cattiva organizzazione? E perché un articolo riguardante i musicisti italiani viventi non si scrive praticamente più (neppure le riviste specializzate ne parlano ormai tanto spesso), mentre ad esempio in Francia, dove c'è un pubblico estremamente attento e comprensivo che segue addirittura entusiasticamente le vicende della musica in fieri, basta un concerto di Boulez per far scatenare la stampa, che arriva a dedicargli intere colonne…

Mario Bortolotto: Perché il nostro è un paese tremendamente paesano, di un provincialismo inveterato, insofferente a qualsiasi novità. Lo si vede tranquillamente. Una signora di Parigi che si rispetti mai si sognerebbe di perdere (se non altro per snobismo, per un pizzico di vanità sociale) una prima di un compositore importante. In Italia ne ignorerebbero perfino l'esistenza, perché è il teatro di terz'ordine che piace, l'opera. Le signore di Milano non si lascerebbero sfuggire tutt'al più un Rigoletto, ma di un pezzo di Aldo Clementi, di Berio o Donatoni non gliene importa proprio nulla.

Altrove dunque si riscontra quasi sempre una maggiore efficienza organizzativa: le sembra lodevole, ad esempio, l'esperienza dell'Ircam diretto da Boulez (al Centre Pompidou di Parigi), con quella sua salle modulable, dove durante un'esecuzione si può ottenere la modificazione del suono attraverso una modifica della scala, alle cui pareti tutti quei pannelli che si muovono permettono, appunto, di cambiare l'acustica?

L'Ircam è stata una proposta straordinaria: lì infatti si fanno delle ricerche sul suolo, delle ricerche elettroacustiche e questo dà sicuramente i suoi vantaggi. Ma si pensi anche a un paese come la Spagna, fino a venti anni fa praticamente inesistente (o quasi) sulla mappa della musica nuova: oggi, invece, può vantare un'organizzazione di primissimo ordine. Ha un festival, che si svolge ogni anno ad Alicante (nel sud della Spagna), dove partecipano studiosi, osservatori, critici di tutto il mondo e dove si eseguono regolarmente le composizioni delle nuovissime leve. Tenga presente che anche a Madrid, in un centro d'arte che si chiama Reina Sofía (sotto il patrocinio della regina Sofia) ogni settimana si fa un concerto di musica contemporanea. Io ricevo puntualmente i programmi e posso constatare che si tengono sempre molto informati, mentre in Italia l'informazione comincia ad essere scarsissima e di alcune cose è addirittura nulla. Nel passato, almeno per un certo periodo, anche il nostro paese si è mostrato più vigile: le Biennali di Venezia ad esempio funzionavano meravigliosamente; i festival di musica nuova di Palermo sono stati per alcuni anni un punto di riferimento obbligato. Poi tutto si è andato via via sfilacciando; e oggi è già tanto se Venezia riesce a fare una settimana di qualcosa riempiendola con composizioni del passato, con retrospettive… L'anno scorso si è svolto un festival interamente dedicato a Nono, compositore indubbiamente rispettabile, ma morto. Preferiremmo sentire i vivi.

27 ottobre 2014

«Franz Kafka. Conversazione con Claude David» di Doriano Fasoli

 

 

 

 

 

Claude David vive e lavora a Parigi (dove lo abbiamo incontrato). Decano della germanistica francese, autore di numerosi saggi sul romanzo sentimentale nella letteratura tedesca del XVIII secolo – Goethe, Schiller, Kleist, Rilke, Kraus, – è, tra l'altro, il curatore delle Opere complete di Franz Kafka ne La Pléiade di Gallimard. In Italia è uscita la sua biografia dello scrittore: Franz Kafka (Einaudi, Torino 1992).

Doriano Fasoli: Professor David, in che cosa consiste la novità del suo contributo su Kafka rispetto alle numerosi pubblicazioni già esistenti sullo scrittore ceco?

Claude David: A me sembra che, nonostante la quantità di libri scritti su Kafka, ce n'era uno che mancava, e vale a dire una biografia pura e semplice. Esisteva la biografia di Max Brod, vi erano un gran numero di interpretazioni: mancava solamente un racconto della vita di Kafka, il più spoglio possibile. Non so se lei ne è al corrente, ma ho pubblicato tutte le opere di Kafka in quattro volumi ne La Pléiade e ho fatto tutte le interpretazioni immaginabili; ma in questo libro ho voluto attenermi unicamente alla biografia, che forse non contiene granché, perché Kafka ha vissuto una vita senza molte storie, che però è apparsa ugualmente interessante.

Qual è, secondo lei, l'attualità di Kafka?

È difficile a dirsi, perché dipende da ciò che intende per l'oggi. Ormai sono decine di anni che Kafka viene considerato come la figura centrale del ventesimo secolo. Mi sembra, in effetti, che egli abbia inventato una formula letteraria che da allora si è imposta a tutti. Una grande semplificazione della letteratura è stato il suo apporto fondamentale. Vediamo che la sua lingua è molto semplice, molto spoglia, se paragonata a quella di Thomas Mann o di Rilke. Kafka va direttamente alla cosa, dice delle cose complesse ma nel modo più essenziale. È questo stile scarno nella letteratura che ha fatto sì che non si possa scrivere più diversamente. Nell'introduzione alle Opere complete ho scritto che nel ventesimo secolo vi sono state due grandi tendenze: una è stata Proust, l'altra Kafka. Bisognava scegliere tra le due: Proust è la raffinatezza, la sfumatura; Kafka, al contrario, è l'incamminamento verso le questioni fondamentali.

14 ottobre 2014

«Nota su un altro Nobel francese per la letteratura» di Nicola d'Ugo






Sono lieto quando assegnano un nuovo Premio Nobel per la letteratura. Viene messo in risalto un autore importante. I Premi Nobel sono tutti autori straordinari, inclusi Deledda, Quasimodo e Fo, anche se possono sembrare meno significativi di Pascoli, d'Annunzio, Ungaretti, Moravia, Pasolini e Calvino. Quindi Patrick Modiano è senz'altro uno scrittore straordinario che leggerò volentieri.

Il limite del Nobel non è mai la qualità dell'autore prescelto, è che l'Accademia Svedese che lo assegna vede la letteratura come qualcosa fatto quasi solo da maschi europei. Su 111 Nobel letterari, solo 30 non sono europei, e solo 13 donne lo hanno ricevuto. E poi sono fissati coi francesi: secondo loro più del 10% degli autori meritevoli spuntan fuori dalla Francia come dall'albero della cuccagna. Guardano col fumo negli occhi i russi, snobbano gli italiani e gli americani, sono xenofobi del Medio ed Estremo Oriente, quasi quanto sono misogini. Il Nobel non viene dato al più grande scrittore del mondo, ma a un autore eccezionale, questo sì. Chi si aspetta altro si aspetta troppo da un premio.

Il Nobel ha un carattere didattico, esemplificativo, di segnalazione di certi livelli elevati della letteratura, di certa profondità di pensiero e partecipazione alle problematiche umane. È un premio frutto del secondo Ottocento, quindi di un modo di concepire la letteratura in senso classico, partecipato, pienamente impegnato nell'attività di miglioramento delle condizioni di vita dell'uomo contemporaneo. Il Nobel ha una ricaduta anche sul mercato, ma non si basa su regole di mercato, le quali non gli interessano affatto: anzi, essere troppo pubblicizzati può essere un motivo di bocciatura, in quanto l'Accademia Svedese potrebbe ritenere inopportuno premiare un autore osannato acriticamente o anche solo accostato a un promotore sgradito.

Ciò detto, non credo che l'eccellenza minima di un destinatario del Nobel sia mai stata raggiunta da altri premi letterari, Pulitzer e Man Booker inclusi. L'opera dell'Accademia Svedese è notevole e meritoria, anche se, con le loro idiosincrasie e simpatie, alla fine non hanno sfondato il muro del suono, per cui Ibsen, Tolstoj, Twain, Rilke, Woolf, Joyce, Achmatova, Huidobro e Brecht se li sono visti volare sopra la testa. Ognuno ha i propri limiti. Ma i limiti del Nobel, ancora dimolto perfettibile, sono limiti che partono da vette elevatissime. Leggere un qualsiasi Premio Nobel di ottanta novanta anni fa dà l'idea della fresca e sapiente classicità delle loro scelte.



30 settembre 2014

«‘Leylā e Majnūn’. Conversazione con Giovanna Calasso» di Doriano Fasoli

 

 

 

 


È stata pubblicata, presso Adelphi, la storia di Leylā e Majnūn, raccontata nel 1188 da Neẓāmī di Ganjè. A parlarci di questo poeta mistico persiano («gioielliere della parola,» com'egli stesso si definì), nato nell'Azerbaigian nel 1141 e morto nel 1204, nonché di Leylā e Majnūn, poema romanesco a rime baciate (maṣnavī), terzo dei «Cinque Tesori», mai tradotto prima in italiano e da lei curato, è Giovanna Calasso, docente di civiltà islamica all'Università La Sapienza di Roma, la quale già collaborò con Alessandro Bausani, professore presso lo stesso ateneo, a corredare delle note Le sette principesse (Rizzoli, 1982), anch'esso di Neẓāmī.

Doriano Fasoli: Quale importanza riveste la figura di Neẓāmī nell'ambito della letteratura persiana?

Giovanna Calasso: Neẓāmī, che vive fra la seconda metà del XII gli inizi del XIII secolo nella citta di Ganjè, in Azerbaigian, è una figura di straordinaria importanza nella letteraura persiana. Con Neẓāmī il romanzo si introduce prepotentemente nell'epica con una felicità di risultati che rimane unica in questa letteratura. Le sue opere, i «Cinque Tesori», possono appunto definirsi, se si eccettua la prima di soggetto sapienziale, dei romanzi in versi, perché al tempo in cui Neẓāmī scrive narrare significa anche quasi esclusivamente narrare in versi, la prosa letteraria avendo ancora un uso molto limitato e circoscritto ad altri generi. La sua opera è importante anche da un punto di vista linguistico. Neẓāmī poeta di cultura cittadina, rappresentante della cosiddetta borghesia selgiuchide, viene considerato come l'autore che ha introdotto nell'epica, sottraendola al suo tendenziale purismo linguistico iranico, la lingua viva, ricca di lessico arabo, già da tempo penetrata nella lirica persiana.

Qual è la peculiarità della sua scrittura?

Quella che ci appare come la maggiore peculiarità della sua scrittura è il suo linguaggio delle immagini. La sua opera è da questo punto di vista di un fulgore straordinario. Non è che, in questo, Neẓāmī sia del tutto un innovatore: anche se ai nostri occhi possono apparire originali tutte le sue immagini, il codice linguistico in cui si esprime, il sistema di corrispondenze su cui fonda le sue metafore sono cosa già in parte definiti nella letteratura persiana del suo tempo. Il suo genio sta soprattutto nella combinazione delle immagini, talvolta ardita fino ad essere perfino oscura, e, globalmente, in quella straordinaria gioia dell'occhio che fa emergere dalla sua scrittura: come se l'occhio percepisse le forme stesse di tutte le cose in modo inauditamente esaltato, per citare le parole di Ritter, uno dei pochi studiosi che fino ad oggi si sono occupati di studiare il suo stile.

21 giugno 2014

«La mente e il gesto. Conversazione con Giuseppe Ponzio, architetto e artista», di Doriano Fasoli

 

È da giovanissimo che Giuseppe Ponzio, in una terra che ne segna la nascita (una ex colonia italiana) ma che la drammaticità storica ne ha reso confusa l’appartenenza, si pone l’istanza fondamentale di come sia possibile tradurre in un oggetto lo spazio e il tempo. Il vissuto esistenziale e la formazione di una identità culturale ricca di sovrapposizioni ed intersecazioni, di confini e dispersioni, sono il territorio sul quale si dispiegano le costanti strutturali del suo lavoro. Sovrapposizioni o svolgimenti divengono il paradigma formale nelle opere di Ponzio, dove i segni traggono origine dalla fascinazione visiva e calligrafica per gli alfabeti, quello latino e quello amarico (sillabico) dell’adolescenza, e per gli ideogrammi cinesi della maturità.

Come presentare spazio e tempo è la domanda, come si diceva, che segna un percorso artistico costellato e al tempo stesso confortato da alcuni punti fissi, che personalità e movimenti artistici del Novecento (dal suprematismo russo al minimalismo americano) hanno avuto il potere di illuminare. L’amore per l’architettura (e la seguente formazione accademica) non è bastato ad arginare la pressione costante per la sperimentazione di altri mondi e modi espressivi. La pratica professionale si è poi intrecciata fortunatamente e forse non a caso, con quella artistica, attenuando nel tempo la conflittualità latente, – in alcuni momenti lacerante, – fra le due attività, sino a individuare e maturare una possibile sintesi.

Sintesi duttile sempre pronta a ricomporsi, facilitata anche dal realizzarsi, forse in modo ideologicamente ingenuo, dello sconfinamento auspicato, ma reso oggi drammaticamente ineluttabile, degli ambiti disciplinari (pittura, scultura e architettura) che la storia recente celebra. Di tutto ciò l’operare di Giuseppe Ponzio si fa discreto. Il suo linguaggio sembra in ultima analisi sfociare in un silenzio mistico, quel silenzio che è pienezza di ogni espressione e che conserva nel suo profondo spirito le tracce di un antico garbo. Il complesso dei segni preliminari per lo sviluppo di un progetto, volto a definire spazi e funzioni, si è mano a mano sovrapposto – e viceversa – a grafemi dalle potenzialità alfabetiche o a tracciati colti in modo automatico attingendo fra mente e gesto da un territorio arcaico, sempre presente, che spinge e si interroga su matrici e genealogie dell’universo oggettivizzante, perno di tutta la cultura occidentale.

L’avvertire come quest’ultima, saturante ogni residualità resistente, sia sempre pronta a collassare sui propri miti (razionalità e tecnica) e intravvedere, attraverso le crepe che necessariamente questo procedere totalizzante produce, corrispondenze fra i presupposti di alcune avanguardie artistiche novecentesche ed estetiche estremorientali (non esplicitate abbastanza da una storia corrente) hanno reso possibile una ricerca che pone come prioritaria ed eticamente necessaria l’esperienza, che non può essere altro che silenziosa, dello spazio e del tempo estranea, per quanto possibile, alla sedimentazione storica di un pensiero astratto e aprioristico.

9 giugno 2014

«‘Tra Shakti e Maya’ . Conversazione con Sabina Vannucci», di Doriano Fasoli

Sabina Vannucci è un architetto. È nata a Roma, la città in cui vive. Ha molto viaggiato. Nel corso della sua attività professionale ha illustrato libri scientifici, didattici e per ragazzi, ha fatto progettazione d'interni, si è occupata di piani di sviluppo sostenibile e ha facilitato processi di progettazione partecipata con diverse comunità locali italiane. Nel 2004 ha pubblicato con Raymond Lorenzo per l'Apat (oggi Ispra) il manuale Agenda 21 locale 2003. Dall'Agenda all'azione, e diversi contributi a rapporti di educazione ambientale, contabilità ambientale e strumenti di pianificazione ambientale del Comune di Roma. Ha insegnato e fatto formazione nelle discipline dell'arte, dell'architettura e dello sviluppo sostenibile. In un processo di ricerca della propria autenticità e con l'intento di aprire alternative per affrontare una crisi economica che rende difficile la professione, in tempi recenti ha recuperato le sue attività giovanili approfondendone lo studio e integrandole con l'uso dei nuovi media digitali e con la scrittura e la sperimentazione di forme diverse di arte visiva: fotografia, digital art, grafica, pittura, video making. I suoi lavori sono stati esposti in occasione di mostre personali a Roma e di collettive come «Detenzioni» 2012 e 2013 a Torino e «Per Appiam» 2014 a Roma.
Tra Shakti e Maya, che ha vinto la prima edizione del Premio Letterario Verbavolant a Castelnuovo di Porto, è il suo primo libro di poesie, edito da Terre Sommerse nel 2013.

Doriano Fasoli: Vannucci, quando hai scoperto la tua vena creativa?

Sabina Vannucci: Della prima poesia ricordo con tenerezza il momento in cui ho cercato con urgenza carta e penna. Avevo circa dieci anni, su una terrazza affacciata sul lago di Bled, una notte in Slovenia. Provavo emozioni. Le parole che mi attraversavano la mente erano semplici, ma il loro suono aveva l'andamento dello sciabordio del lago: la cosa mi colpì e così decisi di scriverle. Da allora ho continuato a scrivere poesie fino ai venticinque anni circa. Ho un quaderno, scritto a mano con la biro, in cui si vedono evolvere sia la scrittura sia la calligrafia. Poi basta.
Nei vent'anni successivi, nulla. Avevo continuato a scrivere molto, molti 'scritti da cassetto', ma poesie, mai più. Ho ripreso quando, durante un periodo molto duro della mia vita, ho fatto un confronto estremo con me stessa, un confronto che non ammetteva fughe e mi sono detta: «Ma a te cosa ti piace davvero più di tutto?» E sono riaffiorate cose dimenticate. Così dopo anni tecnici, di architettura, ho ripreso anche ciò che avevo fatto languire, ovvero la poesia, il disegno e la pittura. Ho ripreso a scrivere poesie come una furia, bloccandomi sul motorino a metà di un percorso, o in metropolitana. Anche nei momenti più assurdi, se c'è bisogno, tuttora mi fermo e scrivo.

Quando le scrivi hai presente un pubblico?

Mai. Ho scoperto l'esistenza di una possibile relazione con un pubblico quando mi son tornati indietro i primi riscontri, che in effetti mi hanno stupito. Non avevo considerato l'eventualità di muovere emozioni anche in altre persone. Il primo libro – ne ho finito un'altro, che è attualmente in cerca di pubblicazione – l'ho cominciato a scrivere come un'alternativa al percorso analitico, che avevo dovuto interrompere. È stata una psicoanalisi autarchica. Cercavo la mia verità e questa, in genere, è una cosa che si fa in privato. Però, una delle sorprese più preziose e piacevoli per me, ora, è sentire le interpretazioni che vengono fatte delle mie poesie, mi raccontano cose nuove, che io stessa non vedo. Amo quando ciò che scrivo arriva al cuore di qualcuno cambiando, a quel punto, forma e essenza. Amo quel momento in cui la poesia non è più mia, ma diventa di chi la legge.

2 giugno 2014

«Crisi editoriale e crisi letteraria», di Nicola d'Ugo







Credo che il problema della crisi editoriale di cui si parla non sia tanto individuabile nei libri in quanto tali, ma nel crollo del romanzo come modalità espressiva, il quale ha perlopiù smesso di parlare di temi seri, ossia militanti e ideologicamente forti, qual esso era per i grandi narratori dell’Ottocento (Stendhal, Byron, Balzac, Puškin, Hugo, Dickens, Dostoevskij, Flaubert, Tolstoj, Zola, France, d’Annunzio, ecc. ecc.). Oggi il suo ruolo lo hanno preso la televisione e il cinema, senza colpo ferire. Ma tranne Zamjatin, Tanizaki, Platonov, Orwell, Sartre, Moravia, Camus, Solženicyn, Pasolini, García Márquez, Ōe, Smiley, Murakami e altri che hanno continuato a pensare il romanzo e la saggistica con finalità militanti ottocentesche pur in nuova e originale veste, gli scrittori si sono perlopiù adagiati a fare contratti coi grossi gruppi editoriali, perdendo la propria autonomia necessaria e fondamentale e utile per affiancarsi ai soli autori impegnati umanamente. Il che gli si è rivoltato contro in termini di pubblicità, per cui ogni cosa che essi scrivono, anche seria e impegnata, finisce per esser pubblicizzata come forma di intrattenimento.

Questo andamento editoriale antistorico, che fa della letteratura intrattenimento e dell’intrattenimento letteratura, come tutte le forzature mercantili non funziona più. Gli uomini amano quella forma espressiva che si chiama letteratura, da che mondo è mondo, e per gli intrattenimenti cambiano ad libitum prendendo questo e quello a seconda delle proposte che gli si parano davanti.

L’era digitale e del print on demand sta mettendo a dura prova meccanismi editoriali come il nostro, che non ha neppure un secolo di vita, nel senso che i tantissimi editori di cui in pochi si sono comprati i marchi avevano una logica editoriale indipendente e non volta al profitto ab origine. Sta agli autori assumersi le proprie responsabilità, come facevano i romanzieri dell’Ottocento, e scegliere e imporre i mezzi più adatti alla circolazione delle proprie opere, anziché accettare ciecamente quelli che gli vengono proposti dai portatori di marchi e, forse, di profitti economici.

Sono contento che in America abbiano compreso questo problema, e che stiano assegnando sempre più i Premi Pulitzer, negli ultimi anni, a opere di editori indipendenti e di editori non a scopo di lucro, spesso facendo conoscere autori per nulla pubblicizzati dal sistema editoriale made in USA, ma, a giudizio della Fondazione Pulitzer, più importanti di quelli famosi. È una delle poche funzioni che ancora rivestono i premi letterari, il pubblicizzare i meritevoli trascurati. Per il resto, l’invenzione dei premi non è mai servita a nulla che a far cassetta e propaganda.

Ovviamente, chi vince il Pulitzer diventa famoso dal giorno alla notte. La struttura del Pulitzer e il testamento del suo fondadore hanno l’orgoglio di basarsi ben poco sulle interferenze esterne e sul denaro, e di attenersi a principi fortemente imbevuti di un’America che non c’è più nelle sue istituzioni nazionali, ossia quell’America libertaria tesa a difendere i diritti civili in modo progressista, e che ha avuto purtroppo a che fare, nell’ultimo mezzo secoli, coi falchi liberticidi o cogli assassini planetari che vanno da Truman a Obama con colpo ferire e ferite profondissime da portare.

Il secondo più importante premio di narrativa americano, il National Book Award, ha ammesso da alcuni anni la partecipazione anche delle opere pubblicate in ebook, in modo da rendere più visibili le edizioni indipendenti, valutarle ed eventualmente premiarle al posto di quelle che escono in cartaceo. Questo per rilanciare la letteratura a fronte di un incremento epocale della gamma di formati e materiali fisici in cui essa viene pubblicata.



5 maggio 2014

«Rapsodia ultramarina», di Angelo Tonelli

Angelo Tonelli




Una grande città, meridionale
ma con corti sprecate, miserabile,
a ombre fitte, androni senza raggi
di sole che traspaiano. La musica
del cosmo c’è anche qui
che senti grida ottuse, che le donne
ammassano gioielli alla rinfusa
di aranci e melograni, di conchiglie.
A mille a mille i giorni si aggrovigliano
dentro le mura, in mormorii confusi,
palpiti brevi, dischiudersi di ciglia.

* * *


Mediterraneo d’argento, re disfatto
di microscopici reami,
di città invisibili
scavate nel sale – il Pireo1
trabocca di patate appena fritte
dentro le stive delle navi azzurre
e rovesciate in darsena.
                                            Se non fosse che il vicolo
della Madonna Cieca è reso in buona parte impercorribile
da montagne di tchai2, dal miele
che le api dell’Acropoli distillano
all’alba su tutta la città.
                                            Ci restano l’Eufrate
e il Nilo per rinascere, papiri
e sabbia e pietra bianca: senza vento
era il deserto, e tu sorgevi
e i pescherecci andarono tutti alla deriva,
invano governati da marinai di quarzo.
Se il tempo non tradisse, se perpetue
fiorissero, nel cuore, andalusie,
se fosse musica
l’aria che respiriamo, le parole
frammenti di cristallo…

* * *

12 aprile 2014

«Michel Foucault: Soggettività e letteratura», di Silvia Maria Pettorossi











Fin dai suoi esordi come ‘pensatore’, l’interesse mostrato da Foucault per la letteratura è tutt’altro che occasionale e privo di rapporti con la sua produzione successiva. Scrive a tale riguardo Judith Revel: «Nell’opera di Foucault svolgono un ruolo fondamentale alcuni testi che, almeno a prima vista, non hanno carattere filosofico: essi sembrano piuttosto prove di critica letteraria, o, in certi casi, saggi storiografici. Ebbene secondo lo stesso Foucault è proprio in questi testi “periferici” che il suo pensiero ha manifestato i successivi cambi di rotta: così, la lettura di Raymond Roussel, nel corso del 1957, decide della rottura con la fenomenologia; così, la riflessione su Bataille (nel 1963, in quel che resta uno dei più bei testi di Foucault, Préface à la transgression) annuncia in modo sorprendente proprio i temi che si imporranno nell’ultimissima fase della elaborazione (la “déprise de soi”, la pratica della liberazione e l’idea di un “passaggio al limite”)» [1].

Il rapporto che Foucault intrattiene con la letteratura risulta dunque tutt’altro che marginale per un’adeguata comprensione del suo pensiero e soprattutto per ciò che concerne la tematica della soggettività. Per Maurice Blanchot «si sa di sicuro che Foucault, seguendo in ciò una certa concezione della produzione letteraria, si sbarazzi puramente e semplicemente della nozione di soggetto: niente più opera, niente più autore, niente più unità creatrice. Ma non è tutto poi così semplice. Il soggetto non sparisce: è la sua unità troppo determinata che diventa discutibile, poiché ciò che suscita interesse e ricerca è in realtà la sua sparizione (vale a dire questa nuova maniera di essere che è il non esserci più) o ancora la sua dispersione che, ben lungi dall’annientarlo, non fa che offrirci una sua pluralità di posizioni e una sua discontinuità di funzioni» [2].

A partire da Le parole e le cose, il linguaggio, e quindi la letteratura, assumono in Foucault un ruolo e un’importanza particolari. Il linguaggio non è più – come nel pensiero classico – quel segno al quale la Logica di Port-Royal, basata sull’identificazione di parola, linguaggio e grammatica, e di quest’ultima con la logica, proponeva come modello immediato ed evidente il ritratto di un uomo o una carta geografica (restando dominante, in questo accostamento, la classica nozione di somiglianza). Esso ha ora «acquistato una natura vibratile che lo stacca dal segno visibile per accostarlo alla nota musicale», aiutato in questo dalla logica di Boole (che rappresenta le forme e le concatenazioni del pensiero all’infuori di ogni linguaggio) [3].

Svincolatosi da quelle che Heidegger nella conferenza «L’essenza della verità» [4], chiama le «fatali categorie della grammatica», il linguaggio viene riportato al grado zero, al suo stato grezzo: la parola. Diversamente dal XVIII secolo, ora si tratta di sciogliere la sintassi, di spezzare i modi vincolanti di parlare, di volgere le parole in direzione di tutto ciò che si dice per loro tramite e nonostante esse. Nietzsche, la cui intera opera è «un’esegesi di alcune parole greche», e secondo il quale non ci sbarazzeremo mai di Dio finché crediamo ancora alla grammatica, è ancora una volta un modello in questo senso [5].

1 aprile 2014

«Intervista a Valter Santilli», di Doriano Fasoli

Valter Santilli, medico e psicoterapeuta, didatta presso la Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Relazionale (IIPR) e presso la Scuola di Specializzazione in Ipnosi Clinica e Psicoterapia Ericksoniana, è tra i fondatori della Società Italiana Milton Erickson (SIME). Ha pubblicato, per le edizioni Carabba, il volume Il terapeuta in gioco, con sottotitolo: Tra arte, letteratura e psicoterapia. Un libro piuttosto intrigante, una sorta di romanzo di formazione professionale e personale. Il titolo del libro rimanda alle due dimensioni, pubblica e privata insieme, della psicoterapia e del gioco.

Doriano Fasoli: Santilli, puoi spiegare meglio il significato a cui allude il titolo del libro?

Valter Santilli: Se dovessi interpretare il titolo del mio libro direi che suggerisce certamente un doppio significato: da una parte il terapeuta che si mette in gioco professionalmente e personalmente; e dall’altra il terapeuta che, in questo caso, vuole rimanere in una dimensione giocosa pur volendo trattare di temi importanti, sia personali, sia professionali. Nel prologo chiarisco il mio desiderio di aver voluto mantenermi, nello scrivere e comporre il libro, in una sorta di spazio transazionale winnicottiano, un tipo di esperienza vantaggiosa in cui i confini tra realtà e immaginazione rimangono sfumati. Un assetto mentale, quindi, in cui la soggettività prevale, a scapito forse del rigore analitico che sarebbe necessario per opere più ambiziose.

A proposito di «immaginazione»: uno spazio rilevante del volume è dedicato all’arte e alla letteratura. In particolare, un capitolo intero è dedicato a La figlia di Iorio, l’opera pittorica di Francesco Paolo Michetti e la tragedia pastorale di Gabriele d’Annunzio…

Questo capitolo del libro è realmente frutto di questa dimensione ‘giocosa’, in cui le mie personali origini si intrecciano con alcuni significati di quella pittura e di quella tragedia che mi è sembrato di aver intuito. Sono quindi partito dalla singolare genesi delle due opere d’arte, così come venne narrata da Gabriele d’Annunzio. Magicamente questa genesi evoca i luoghi delle mie origini: l’ambientazione agreste di entrambe le opere d’arte richiama un luogo in particolare, Tocco da Casauria, il mio paese di origine, dove nacque il pittore Francesco Paolo Michetti.

Quindi questo tema della «genesi delle due opere d’arte» e delle tue «personali origini si intrecciano». Sviluppi quindi una narrazione in cui anche tu sei partecipe e coinvolto…

Ciò che viene elaborato artisticamente, con diversa sensibilità ed espressione artistica, dai due autori è un tema primitivo e ‘scandaloso’: dal punto di vista antropologico, psicologico e culturale nel senso più ampio. L’input drammatico è per i due artisti una ‘scena’ a cui passivamente avrebbero assistito, che prefigurava lo stupro di una giovane donna da parte di un gruppo di uomini, mietitori stagionali, abbrutiti dalle dure condizioni ambientali in cui a quel tempo erano costretti a svolgere il loro lavoro. La scena, secondo il racconto che ne fa d’Annunzio, sarebbe avvenuta non in una desolata campagna, ma sulla piazzetta del paese. Non ho avuto difficoltà ad immaginarla – descritta in maniera così scenografica dallo scrittore – proprio in quel luogo preciso: una scena piuttosto traumatica. Per cui è stata necessaria anche per me una sorta di elaborazione attraverso la scrittura. Questa mia elaborazione ‘scritta’ rimanda ad un «gioco» in cui, come un’amica e collega, Giuliana Polenta, mi ha fatto notare, «l’oggetto artistico diventa terapeutico e la terapia vorrebbe farsi arte.»

20 marzo 2014

«Foucault, Derrida: Cogito e Grande internamento», di Silvia Maria Pettorossi













La polemica tra Foucault e Derrida si accende attorno alle tre pagine che Foucault in Storia della follia dedica al cogito cartesiano (pp. 51-53) [1] trovando il suo punto di origine nella conferenza di Derrida Cogito e storia della follia, tenuta il 4 marzo 1963 al Collège philosophique, successivamente pubblicata nella «Revue de métaphysique et de morale» (1963: nn. 3-4), e infine inserita fra i saggi de La scrittura e la differenza (1967).

La conferenza di Derrida, che era stato allievo di Foucault, pur manifestando riconoscenza e apprezzamento per il lavoro del maestro, è un’analisi fortemente critica dell’opera, che mette in discussione una delle tesi fondamentali della Storia della follia, il cogito cartesiano come presupposto ideologico del Grande internamento e della radicale inversione di tendenza, rispetto alla Renaissance, nella valutazione e nel trattamento della follia.

L’analisi di Derrida smonta pezzo per pezzo l’interpretazione del passo della Prima Meditazione di Descartes, che secondo Foucault sarebbe all’origine dell’espulsione della follia dal pensiero e della sua esclusione dal soggetto che dubita [2]. Per motivi di chiarezza espositiva, riporto qui integralmente il passo cartesiano:

Benché i sensi c’ingannino qualche volta, riguardo alle cose molto minute e molto lontane, se ne incontrano forse molte altre, delle quali non si può ragionevolmente dubitare, benché noi le conosciamo per mezzo loro: per esempio, che io sono qui, seduto accanto al fuoco, vestito d’una veste da camera, con questa carta fra le mani; ed altre cose di questa natura. E come potrei io negare che queste mani e questo corpo sono miei? A meno che, forse, non mi paragoni a quegl’insensati, il cervello dei quali è talmente turbato ed offuscato dai neri vapori della bile, che asseriscono costantemente di essere dei re, mentre sono dei pezzenti, di essere vestiti d’oro o di porpora, mentre sono nudi affatto, o s’immaginano di essere delle brocche, o d’avere un corpo di vetro [3]. Ma costoro son pazzi [amentes], ed io non sarei da meno, se mi regolassi sul loro esempio.
Tuttavia debbo qui considerare che sono uomo, e che per conseguenza, ho l’abitudine di dormire e di rappresentarmi nei sogni le stesse cose, e alcune volte meno verosimili ancora, che quegl’insensati quando vegliano [& eadem omnia in somnis pati, vel etiam interdum minus verisimilia, quam quæ isti vigilantes]. Quante volte m’è accaduto di sognare, la notte, che io ero in questo luogo, che ero vestito, che ero presso il fuoco, benché stessi spogliato dentro il mio letto? [4] (corsivi miei)

Descartes prosegue rilevando che, tuttavia, almeno le immagini dei sogni, pur se prive di coerenza, corrispondono a qualcosa di reale, così come i Satiri e i Sileni dei pittori non potrebbero essere rappresentati senza i colori. E che pure ammettendo che siano tutte immaginarie anche queste cose, restano sempre le “qualità primarie” dei corpi, come estensione, figura, quantità, grandezza e il loro numero, vale a dire le qualità oggetto della matematica, della quale non possiamo dubitare [5].

2 febbraio 2014

«Il gelo, dentro. Tradurre "Un viaggio all’estero" di Francis Scott Fitzgerald», di Stella Sacchini










Traducendo Il meraviglioso mago di Oz di Frank Baum, mi sono imbattuta in un curiosissimo saggio di Ray Bradbury sul meraviglioso mago («Per le cose meravigliose che fa», prefazione a Il meraviglioso mago di Oz, Feltrinelli, trad. mia, di prossima pubblicazione). Bradbury propone un piccolo test al lettore: scegliere un amico, bendarlo, fargli fare un giro nella stanza e poi condurlo davanti a un tavolo dove sono stati sistemati due libri (in questo caso Il meraviglioso mago di Oz, appunto, e Alice nel Paese delle Meraviglie) e a quel punto chiedergli di abbassare piano piano la mano fino a toccare uno dei due libri. Come avverrà la scelta? Bradbury parla di una temperatura del libro, di una sorta di atmosfera, di clima che trasuda in alto, in direzione delle dita ancora indecise.

Dal Paese delle Meraviglie un paesaggio invernale, dove, quando i personaggi parlano, se ne vede il fiato. Una temperatura intorno a zero gradi. Da Oz un’aria da panetteria. Oz è la terra dell’agosto perenne, accarezzata dai venti di scirocco che soffiano dai deserti che la circondano, da ogni lato.

Il traduttore, quindi, ancor più del lettore, dovrebbe essere capace, avvicinando le dita al libro sul tavolo, di stabilirne la temperatura.

Traducendo «Un viaggio all’estero» (tit. or. «One trip abroad»; in Francis Scott Fitzgerald, Racconti, Feltrinelli, a cura di Franca Cavagnoli, Milano 2013), coevo a Tenera è la notte, mi sono chiesta, dunque, che temperatura avesse e se questa temperatura fosse la stessa della scrittura di Fitzgerald in generale. Mi sono accorta che il viaggio dei Kelly, di Nelson e Nicole, la giovane coppia di americani protagonista della storia, altro non è che un progressivo e ineluttabile movimento da sud verso nord, dal caldo al freddo.

In «Un viaggio all’estero», la temperatura s’abbassa lentamente, grado dopo grado, pagina dopo pagina. Si parte da Algeri, dai margini del deserto ai confini con l’Egitto, si passa per Sorrento, Parigi, Montecarlo e la Costa Azzurra e si finisce in Svizzera, paese «dove cominciano poche cose, ma molte finiscono». È Fitzgerald stesso a suggerirci, all’inizio della quarta e ultima parte del racconto, che l’elemento geografico (e quindi climatico, aggiungerei) non va trascurato.