Claude David vive e lavora a Parigi (dove lo abbiamo incontrato). Decano della germanistica francese, autore di numerosi saggi sul romanzo sentimentale nella letteratura tedesca del XVIII secolo – Goethe, Schiller, Kleist, Rilke, Kraus, – è, tra l'altro, il curatore delle Opere complete di Franz Kafka ne La Pléiade di Gallimard. In Italia è uscita la sua biografia dello scrittore: Franz Kafka (Einaudi, Torino 1992).
Doriano Fasoli: Professor David, in che cosa consiste la novità del suo contributo su Kafka rispetto alle numerosi pubblicazioni già esistenti sullo scrittore ceco?
Claude David: A me sembra che, nonostante la quantità di libri scritti su Kafka, ce n'era uno che mancava, e vale a dire una biografia pura e semplice. Esisteva la biografia di Max Brod, vi erano un gran numero di interpretazioni: mancava solamente un racconto della vita di Kafka, il più spoglio possibile. Non so se lei ne è al corrente, ma ho pubblicato tutte le opere di Kafka in quattro volumi ne La Pléiade e ho fatto tutte le interpretazioni immaginabili; ma in questo libro ho voluto attenermi unicamente alla biografia, che forse non contiene granché, perché Kafka ha vissuto una vita senza molte storie, che però è apparsa ugualmente interessante.
Qual è, secondo lei, l'attualità di Kafka?
È difficile a dirsi, perché dipende da ciò che intende per l'oggi. Ormai sono decine di anni che Kafka viene considerato come la figura centrale del ventesimo secolo. Mi sembra, in effetti, che egli abbia inventato una formula letteraria che da allora si è imposta a tutti. Una grande semplificazione della letteratura è stato il suo apporto fondamentale. Vediamo che la sua lingua è molto semplice, molto spoglia, se paragonata a quella di Thomas Mann o di Rilke. Kafka va direttamente alla cosa, dice delle cose complesse ma nel modo più essenziale. È questo stile scarno nella letteratura che ha fatto sì che non si possa scrivere più diversamente. Nell'introduzione alle Opere complete ho scritto che nel ventesimo secolo vi sono state due grandi tendenze: una è stata Proust, l'altra Kafka. Bisognava scegliere tra le due: Proust è la raffinatezza, la sfumatura; Kafka, al contrario, è l'incamminamento verso le questioni fondamentali.
Pensa che Max Brod abbia capito profondamente Kafka?
Max Brod era un razionalista, aveva una morale estremamente semplice e riduceva Kafka a questa morale. No, non credo l'abbia capito, ma egli ha fatto il lavoro di scoperta e diffusione che ben sappiamo. Però tutti concordano oggi sul fatto che non si può più prendere alla lettera ciò che Max Brod ha detto del suo amico. Sono convinto che vi erano dei testi kafkiani che Brod non capiva. Ce n'è uno in particolare, e ho avuto modo di scrivere un articolo in proposito, intitolato «Undici figli». Si tratta di un padre che parla appunto dei suoi undici figli. E Max Brod, non capendo evidentemente nulla di ciò che il racconto voleva dire né chi erano questi undici figli, chiese spiegazioni a Kafka. Ma come volete che uno scrittore risponda a una domanda simile? Kafka infatti rispose senza veramente rispondere.
Elias Canetti, Walter Benjamin, Maurice Blanchot, Gilles Deleuze, Marthe Robert: quale tra questi autori ritiene abbia dato un contributo davvero originale su Kafka?
È difficile risponderle. Non credo che Canetti abbia detto delle cose fondamentali, anzi credo addirittura che si sia sbagliato, che il suo libro L'altro processo sia un errore. Le riflessioni di Benjamin sono molto profonde ma sa...: con Benjamin, Kafka non è più un Kafka, è Benjamin. Secondo me, quello che su Kafka ha scritto le cose più fondamentali è Blanchot, adesso un vecchio signore (che non ho mai conosciuto personalmente). I suoi studi su Kafka sono davvero notevoli. Poi su Deleuze non saprei proprio cosa dire; e per quel che riguarda Marthe Robert penso abbia fatto essenzialmente due opere, o tre se vuole: un'introduzione generale all'opera di Kafka sulla quale non c'è molto da ridire e che è indubbiamente utile. Poi ha scritto un'interpretazione de Il castello (con la quale sono ben lungi dall'essere sempre d'accordo) e, ancora, una specie di interpretazione generale intitolata Solo come Kafka. Insomma, esistono buoni lavori che, al contempo, possono contenere delle inesattezze. Sa, ogni commentatore di Kafka pensa di aver trovato la verità.
Ritiene sincera la richiesta fatta da Kafka a Brod, «cioè al solo uomo del quale sappia con assoluta certezza che non potrà mai obbedire alla sua volontà» (M. Robert), di bruciare tutti i testi letterari e gli scritti personali che troverà nelle sue carte?
Senza ombra di dubbio. L'ordine che diede fu un vero ordine. Trovava innanzitutto che nella maggior parte dei suoi scritti era rimasto molto al di qua di ciò che aveva progettato e, al di là di questo, egli si poneva delle domande sulle virtù della letteratura. Certamente voleva che si distruggesse la sua opera. È incontestabile. Max Brod non ha rispettato le sue volontà, «ha preferito la letteratura alla pietà», e bisogna compiacersene, altrimenti non avremmo conosciuto Kafka. Ma è evidentissimo che Kafka ha chiesto che la sua opera venisse bruciata. È appunto il tema che ho sviluppato nella mia introduzione a «La metamorfosi» (uscita per Gallimard). Quando si legge il Diario di Kafka troviamo un inizio di racconto e successivamente, una riflessione su quel racconto che dice: «è miserabile, non vale niente», eccetera. Vi sono degli scrittori – parlavo prima di Proust – che sapevano di scrivere la grande opera del ventesimo secolo, ma non era assolutamente il caso di Kafka. Lui ha sempre pensato di non aver nulla da dire. O meglio: pensava, sì, di aver delle cose da dire, ma di non saperle esprimere bene. E si meravigliava sempre dell'importanza che Max Brod dava ai suoi scritti.
Dora Diamant, Felice Bauer, Milena Jesenská: chi tra di esse riuscì a capire profondamente il cuore (e la mente) di Kafka?
Dora Diamant era una ragazzina, gentilissima, che gli faceva da infermiera negli ultimi mesi di vita. Invece Felice Bauer non capì mai nulla di lui, al contrario di Milena. Proprio in quest'ultima, per l'unica volta della sua vita, Kafka scoprì qualcuno capace di capirlo, almeno un po'.
Perché la corrispondenza rivestì tanta importanza nella vita di Kafka?
Kafka non amava la presenza della gente. Si realizzava con la scrittura. Le lettere erano per lui un mezzo che gli permetteva di esprimersi in un modo più diretto, di sentirsi più vicino alle donne, ad esempio. Credo sia questa la ragione principale. Le lettere a Felice Bauer, a Milena, a Brod sono ammirevoli.
Conosce il libro di Pietro Citati su Kafka?
Ho incontrato una volta Citati, abbiamo fatto insieme una trasmissione radiofonica. È un uomo amabile, gentile, ma trovo che il libro è un po' troppo romanzato. Contrariamente io ho voluto scrivere una biografia molto asciutta.
(Settembre 2014)
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