2 febbraio 2010

«Harold Pinter e le stanze chiuse dell'oppressione» di Nicola D'Ugo


Harold Pinter
Un Premio Nobel per la letteratura è stato assegnato in questi giorni a Harold Pinter. È una buona notizia, vista la sua straordinaria opera drammaturgica, che ha pochi pari in un secolo. A questo si aggiunga l’attualità della sua tematica ricorrente: l’invasione dello spazio domestico, che è metafora di una lotta in cui l’altro non è un uguale, ma un “simile” minaccioso.

Formatosi come attore alla Royal Academy of Dramatic Art, per poi passare alla recitazione in una prestigiosa compagnia irlandese, l’inglese Harold Pinter ha esordito come drammaturgo con La stanza (The Room) nel 1957. Il suo teatro dell’assurdo (o comedy of menace), dai registri linguistici che riproducono il modo di parlare delle diverse classi sociali inglesi, inscena la continua lotta di personaggi mediocri, presi dalle proprie necessità quotidiane, che compiono gesti meschini, spesso incomprensibili. Nei suoi drammi sono esposte situazioni apparentemente banali, buffe e imbarazzanti, che rasentano il ridicolo, prima di illuminarsi in paradossi cuciti addosso a quel brandello dell’esistenza che si finge di essere un abito congeniale, prima che il passato emerga in situazioni che accendono lo spazio di una memoria smarrita o occultata, rimettendo in gioco convinzioni e propositi di una vita.

Uno dei grandi espedienti delle opere narrative e drammatiche è il mistero, il senso di pericolo, l’incomprensione iniziale che ravviva la curiosità di spettatore e lettore. Lo sapeva bene Dante, con la sua atterrita apertura della Comedia, lo sapeva bene Shakespeare con il minaccioso incipit dell’Amleto, con l’allucinante naufragio de La Tempesta. Pinter non è da meno. Le sue situazioni domestiche fin dall’inizio suscitano un senso di strana curiosità, di mistero, per quanto familiari siano gli ambienti (la casa, la stanza, la cucina, la serra, tutti spiccatamente British), che poi non sono altro che quelli dei drammi di Osborne, Ayckbourn e Wesker.

Lo si capisce fin dall’inizio: il problema dei caratteri pinteriani non è sociale, poiché la casa è una metafora, non il palcoscenico dove si concentrano i discorsi di una vita che pulsa all’esterno. Il mistero dei drammi di Pinter è il mistero della vita, con i suoi pericoli, le sue minaccie, rese particolarmente sgradevoli dall’essere ambientate nei luoghi più familiari. Lo spazio familiare è come una cellula che vuole isolarsi, ma che è continuamente invasa, e che ospita una componente mnemonica esplosiva. Il tema della memoria (una memoria minacciosa) era caro a Beckett: in Beckett ci sono dilatazioni temporali, dimenticanze dei gesti più recenti che non coincidono con la crescita dei segni epidermici del tempo; in Pinter, il tempo si contrae al premere di ricordi incarnati dall’“ospite inatteso” (tema beckettiano, ma, anche, quantomai eliottiano), al punto che l’esperienza cancellata dall’apparente epoché biografica dei personaggi deflagra con tutta la sua forza devastante nel precario equilibrio della vita.

Emblematico, a questo riguardo, è Il ritorno a casa (The Homecoming, 1964), con il ritorno dall’America del figlio, accompagnato da una moglie sconosciuta. Il problema dello spazio domestico diventa gioco delle parti, finché il figlio in carriera se ne va da solo, mentre la bella moglie viene adottata dalla famiglia, quale personaggio più congeniale alle necessità dei parenti, conquistata e sfruttata forse, conquistatrice e sfruttatrice può darsi, e a sua volta vittima e carnefice, schiava e padrona, poiché ciò che in fondo è rappresentato dalla metafora della casa è l’uomo sottoposto ai rapporti di forza situazionali, costretto a una continua lotta sociale, a una depredazione dello spazio e una soggiogazione dei comportamenti.

C’è molto di inquietante in questa tesi pinteriana, e molto di simile ai comportamenti borghesi, ai modi di sopraffazione e colonizzazione dello spazio e dell’identità altrui. Finzione nella finzione, teatro nel teatro, personaggi che si rifanno il trucco di un’esistenza mai vissuta, ma che deve fare i conti con la memoria degli altri, trucchi e maschere degli altri. In Tradimenti (Betrayal, 1978) è più chiaro che altrove, visto che le scene retrocedono nel tempo, permettendo di cogliere i paradossi dei sensi di colpa, il carnefice che si accorge di essere la vittima, mentre è l’esperienza di ciascun traditore (dell’amore, dell’amicizia, degli impegni assunti) a non essere in grado di contenere il senso delle azioni del protagonista, il senso delle azioni degli altri (questo dramma fortunato è stato portato sul grande schermo da David Jones nel 1983, per l’interpretazione di Patricia Hodge, Jeremy Irons e Ben Kingsley).

La violenza verbale è un’altra caratteristica dell’opera di Pinter, e fa da bassorilievo linguistico alla minaccia psicologica e fisica, come nell’interrogatorio de Il bicchiere della staffa (One for the Road, 1984). Dolcezza, tenerezza, minacce, parolacce, remissività, aggressione verbale, improperi si giustappongono segnando i punti di forza e debolezza dei personaggi nella loro lotta quotidiana, caratteristiche che si ritrovano nel bellissimo film di Joseph Losey Il servo (The Servant, 1963), sceneggiato da Pinter, in cui la seduzione ha un ruolo centrale.

L’esclusione dell’altro (e l’autoesclusione di sé all’interno della casa), è, come è stato notato, un tema che ha matrici ebraiche, e che Pinter, nato a Londra nel 1930 da una famiglia di ebrei, riutilizza a piene mani, anche ribaltando la situazione, come ne Il compleanno (The Birthday Party, 1957), in cui due loschi figuri individuano l’abitazione del protagonista e cercano di portarlo via con sé, fuori della casa, nella comunità cui appartiene. Mura sigillate nella città e nella campagna, divisioni, autoghettizzazioni, esclusioni dal proprio spazio attraversano i drammi di Pinter, rendendoli di grande attualità, poiché descrivono una cultura (dei personaggi) che si estende ai grandi temi di oggi, agli spazi del lavoro, del potere, delle differenze evolutive delle nazioni. Come spiccatamente ebraico è il tema di un passato pernicioso che ritorna, dell’esclusione, dell’eliminazione dell’altro.

Le tematiche di Pinter sono sostenute da un rigore formale che ha pochi eguali nella contemporanea letteratura inglese e nella fortunatissima tradizione drammatica britannica. L’uso di un linguaggio comune, tagliato sui tipi sociali, che, ciononostante, produce improvvise sentenzialità e riesce a essere frizzante; l’intercalare dei silenzi fra le battute; l’intimismo dialogico delle scene; il perdurare congeniale delle pause: lontani dal giungere alla denuncia sociale di Bernard Shaw, al lirismo visionario di Samuel Beckett, alla critica “epica” di Bertold Brecht o al grottesco di Tom Stoppard, ne sono la più equilibrata sintesi, con un dosaggio dei diversi meccanismi drammatici che fanno di Pinter un classico. Questo Nobel va a uno dei più grandi interpreti del Novecento, senza il quale verrebbe meno una storia letteraria, a prescindere dal Nobel stesso.

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[pubblicato in: Notizie in... Controluce, n. XIV/11, novembre 2005, p. 30.]

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