31 dicembre 2009

«'Benito Cereno' di Herman Melville» di Nicola D'Ugo





 Benito Cereno
 Herman Melville
 Einaudi
 Torino 1997
 A cura di Guido Carboni
 Traduzione di Cesare Pavese
 Testo originale a fronte
 EUR 9,30
 XXXII-220 pp.
 ISBN: 88-06-14022-1


Sull'onda dei grandi romanzi d'avventura e di mare, la visita del capitano della Gioia dello Scapolo, l'americano Amasa Delano, alla nave spagnola San Dominique diventa un'avventura tutta racchiusa dentro i legni che ospitano strani personaggi, i cui comportamenti mettono in guardia e rappacificano di volta in volta l'animo del protagonista. Alla grande avventura a mare aperto si sostituisce qui, sorprendentemente, l'avventura di una semplice visita di cortesia e di aiuto che Delano porge a don Benito Cereno, giovane comandante di un'imbarcazione sudamericana in difficoltà, carica di schiavi africani e priva di gran parte del proprio equipaggio, nell'«anno 1799», quantomai ricco di evocazioni simboliche.

La penna di Melville ci trascina, con fortunatissime similitudini tratte da altre letture e avventure, in un lungo viaggio d'interpretazione dei segni esteriori, di contraddizioni successive, di timori orrendi e di sollievi fanciulleschi, secondo le interpretazioni della logica abduttiva di capitan Delano. Melville ci introduce, in questo romanzo del 1855, nei pensieri e nelle congetture di un uomo, nelle etichette marinaresche deluse, nel giudizio morale dei personaggi che il protagonista ha la disavventura di incontrare e, in definitiva, negli scenari articolati della nave anomala che lo stato d'animo di Delano tende ad accentuare nei suoi aspetti inquietanti. La lucidità di Melville sta nel segnalarci le difficoltà dell'interpretazione dei segni della vita reale che accompagna la mutevolezza dei nostri sentimenti, le ubbie suscitate da un nonnulla, la somiglianza sottilmente imperfetta fra verità e falsificazione.

L'avventura, descritta da un lessico dovizioso e un linguaggio snellissimo, raccoglie in sé le caratteristiche del romanzo d'avventura, di quello gotico e di quello giallo. La traduzione di Cesare Pavese, ora riproposta da Einaudi con testo inglese a fronte, non poteva essere più felice. Più che una traduzione, il testo italiano pare uscito direttamente dalla penna del grande narratore piemontese, come se Pavese, nel 1940, lo avesse scritto in proprio. Il linguaggio che egli adotta è ricchissimo di vocaboli marinareschi, ma ciò che più conta nella lessicologia pavesiana è che la sua dovizia si accompagna a una duttilità di impressione che riconduce la lingua italiana nel suo territorio più delizioso e affascinante, ove ogni sillaba risuona a ribadire il senso della frase, a dare anima alla narrazione, affidandosi a una interpretazione del romanzo di Melville che appare perfettamente passata da uno scrittore nell'altro.

Una traduzione che si va ad affiancare ai grandi classici della letteratura, come lo Sterne tradotto da Foscolo, e in cui un «etc.» inglese, perché dia il senso dell'originale, non pare talvolta superfluo renderlo con «ecc. ecc.» (p. 171, par. 1). Una lezione di come si possa scrivere un italiano colto, scorrevole e ricco di rimandi simbolici, senza ricorrere a involuzioni di frasi, termini astrusi e simbolismi enigmatici che cercano la loro singolarità in originalità poco studiate.

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[pubblicato in: Avvenimenti, n. X/25, 2 luglio 1997, p. 66.]

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