29 giugno 2016

«Orme poetiche. Intervista a Cinzia Baldazzi» di Doriano Fasoli

Undici poeti contemporanei, di differente età, estrazione e provenienza geografica, ciascuno presente con dieci poesie, introdotti da un lungo saggio critico. Questa la formula di Orme poetiche, l’antologia da poco pubblicata da Intermedia e già presentata al Salone Internazionale del Libro a Torino, oltre che in varie parti d’Italia (tra cui Paliano, Samone, prossimamente il Salento). Ne parliamo con Cinzia Baldazzi, che ne ha scritto l'introduzione. Autrice di saggi e articoli di carattere letterario, per molti anni collaboratrice fissa di quotidiani e periodici per rubriche di critica teatrale e cinematografica, è vice-direttore della rivista online di teatro, cultura e politica Scenario. Collabora da oltre vent’anni con la Rai nei programmi di intrattenimento. Vive e lavora a Roma.

Doriano Fasoli: Un’antologia di centodieci poesie di autori contemporanei poco conosciuti al grande pubblico. Perché vengono definiti «leopardisti» e non «leopardiani»?

Cinzia Baldazzi: Nessuno alla morte del poeta romantico è stato mai ritenuto o ha inteso essere «leopardiano», né avrebbe potuto accadere, come si determina in tutti i poeti che non siano semplicemente – si fa per dire – elementi di una scuola poetica globale, come ad esempio gli «ermetici» Alfonso Gatto e Piero Bigongiari. Nessuno, ovviamente, ha più scritto come Gatto e Bigongiari, per motivi che riguardano l’irripetibilità dello spazio-tempo nei campi del pensiero e della comunicazione umana. Tuttavia, il filo rosso della poesia ermetica, che unisce, ad esempio, questi due grandi autori, può far sì che di costoro esistano più o meno diretti successori, prosecutori. Ma per poeti che sono il Romanticismo, come Leopardi, o il Decadentismo, come D’Annunzio (ambedue considerati slancio creativo nato in Italia), ispirarsi a loro coincide con un’affinità subliminale o espressa che necessariamente corre per altre strade. Così il dannunzianesimo è stato forte nel Novecento, ma né Ungaretti né Montale, nella loro alternativa condizionata, possono essere considerati dannunziani.

Cosa intendiamo allora per «leopardisti»?

Partiamo dal capofila della prima generazione, ovvero Giuseppe Ungaretti, che in Orme poetiche viene ‘riproposto’, sempre con le mediazione leopardiana, dalla poesia «Saro» di Salvatore Armando Santoro. Si è parlato di molte affinità tra l’infinito leopardiano e quello ungarettiano. Leopardi ha còlto, ha intuito l'infinito spaziale, visto nella negazione della realtà fisica a cui era da sempre abituato: spazi interminati, silenzi sovrumani, quiete profondissima. Una dimensione impossibile da paragonare con quella ‘solita’, ‘abituale’. Per Ungaretti, l’assoluto cui l'uomo tende è per definizione indicibile, inesprimibile, in quanto trascende la capacità umana di espressione. Però, l’essenzialità della parola risponde all’esigenza di dare voce al mistero dell'assoluto nascosto in ogni uomo.

Dunque nel Novecento facciamo un passo avanti.

Il fluire del tempo nello spazio romantico apre la strada a quello ungarettiano e ne esce configurato in forma non misurabile, ma propria dell’uomo. Le «orme poetiche» lasciate da Ungaretti evocano un infinito una volta leopardiano, oggi leopardista: suo alle origini, ieri ungarettiano, oggi nostro. Come nella già citata «Saro» di Santoro, storia davvero leopardiana, con la chiusa dedicata a coloro i quali «aspettano ancora il dì di festa», ma con l’emblema umano dell’assenza, delle passate stagioni che tornano nel ricordo vivo, ineffabile ma adesso misurabile, perché il giovanissimo Saro sedeva con lui, con gli amici, accanto alla chiesa, e le sue siepi le aveva già valicate.

Nella tua lunga introduzione, la parte dedicata a ciascun poeta è avviata da un brano di prosa leopardiana che poi, continuando nella lettura, fa da guida, da traccia all’analisi del singolo autore.

È indubbio come esista, e la critica lo ha rilevato da tempo, una sorta di affinità elettiva in atto tra il pensiero di Giacomo Leopardi e molti poeti del nostro Novecento: Ungaretti, Montale, Bigongiari, Zanzotto, Sergio Solmi. È la cosiddetta «prima generazione» di leopardisti. Nel mio saggio introduttivo ho preso le mosse da questo «lascito» del secolo appena concluso, per leggere sotto una simile luce i poeti degli anni Duemila e identificare gli undici autori di Orme poetiche in una «seconda generazione» di leopardisti.

10 giugno 2016

«Breve nota sull'universo gender di Giancarlo Ricci» di Giovanni Sias

 

 

 

Sessualità e politica. Viaggio nell'arcipelago gender
Giancarlo Ricci
SugarCo
Milano 2016
EUR 16,80
240 pp.
ISBN: 88-71-98701-2

 

 

 

 

 

La lettura dell’ultimo lavoro di Giancarlo Ricci, Sessualità e politica (2016, SugarCo ed.), impegna in alcune riflessioni che riguardano da vicino la nostra vita nella contingenza storica, ed è anche, e forse soprattutto, occasione per trovare una via non ideologica per tentare di cogliere che cosa passa oggi a livello mediatico e dei luoghi comuni che attraversano le società del nostro tempo. Forse è questa l’indicazione contenuta nel sottotitolo del libro «Viaggio nell’arcipelago gender». E che il «gender», espressione di una libertà falsa e distorta, sia di ordine squisitamente ideologico mi sembra fuori di dubbio. Che una persona ritenga di poter scegliere il «genere» a cui appartenere benché nasca maschio o femmina, e si ritenga in potere di sovvertire tale statuto biologico ancor prima che antropologico, non può che essere frutto di un’idea di onnipotenza sostenuta dalla potenza della tecnica.

Che si tratti di ideologia lo sottolinea anche il fatto non irrilevante che in questo dibattito sociale non sembra che ci sia spazio per discutere, sia sul piano etico sia su quello scientifico: il pensiero gender, sostenuto dai programmi accademici di psicologi e sociologi (e cioè di quelle teorie che il nostro Ugo Spirito chiamava «false scienze») che ne hanno costruito l’ideologia, si presenta come indiscutibile e corre per la sua strada egemonica senza trovare ostacoli, sostenuto dalla politica e dalla falsa-scienza dei nostri tempi.

Che Giancarlo Ricci abbia voluto, con questo libro, portare il confronto sul piano del linguaggio, evitando ogni trabocchetto ideologico, è il suo merito, ed è il suo tentativo di riportare un dibattito sul piano della scienza.

Infatti, se vogliamo leggerlo dobbiamo partire dalla frase tratta da Freud e messa in esergo: «La psicanalisi non ha il compito di rendere impossibili le relazioni problematiche, ma di creare per l’Io del paziente la libertà di optare per una soluzione». Qui si trova, o almeno così a me pare, l’indirizzo per leggere in modo corretto il libro di Ricci.

La struttura del libro poi rimanda a questioni e temi che si sviluppano eminentemente sul piano linguistico. Organizzato come un dizionario prende in considerazione tutti i termini (dalla A di abuso alla V di vittimismo) che caratterizzano il linguaggio intorno a tali questioni, e se seguiamo il percorso che analizza il senso che le parole acquisiscono nell’«arcipelago gender», e più in generale nel linguaggio corrente, ci accorgiamo come tutto questo discorso su una presunta facoltà umana, che non vuole tener presente la sessualità come elemento determinato dal caso (naturale, biologico, e anche antropologico per quanto riguarda una cultura dell’umano), ma lo considera solo un elemento sociale, in cui la sessualità è pensata come scelta «libera» di un ipostatizzato e illusorio soggetto a cui la filosofia da lunghi anni (quattro secoli!) ci ha assuefatti, ci troviamo a constatare come il trionfo del narcisismo scivoli sempre più nella perversione, e che le società attuali, sul piano finanziario, tecnologico, economico e politico, attuano la perversione come espressa possibilità di dominio, di controllo e di assuefazione delle coscienze.

Qui non si tratta più di porre la questione intorno alla libertà di essere o di riconoscersi omosessuale, per esempio, ma ben peggio, di confinare l’omosessualità in una specie di enclave antroposociogiuridica per specie protette, e di dare a essa uno statuto sociale che nulla ha a che fare con quanto viene sbandierato come libertà sessuale o umana. In realtà, se grattiamo anche solo un poco l’apparenza, ci accorgiamo che non di libertà si tratta, perché un tale meccanismo di controllo, attuato sul piano tecnico e politico, comporta esattamente il suo contrario dal momento che procede dalla negazione di uno statuto simbolico dell’umano e amputa per ciascuno la possibilità di riconoscersi per ciò che è sul piano della sua nascita: nato maschio, nata femmina, destinato dal caso a essere uomo o donna. Tolto il caso che mi ha generato che cosa mi resta di una mia autentica libertà? Tolto il caso che ci ha fatto maschi o femmine non ci resta forse solo la sottomissione alla tecnica, la cui realizzazione di potenza può prevedere solo che l’uomo diventi niente più altro che «un mezzo» per accrescerla?

Ricci se ne avvede, coglie i rischi insiti nell’ideologia, e lo scrive in conclusione della sua «Introduzione»: «L’ideologia gender risulta così la punta più avanzata, ipermoderna e neoliberale di gestione e controllo della soggettività. In nome di una tecno-biologizzazione essa propone una negazione dello psichico per celebrare il trionfo narcisistico dell’Io a discapito del bene comune». E qui, «bene comune», dovrebbe essere inteso come la sessualità che concerne ciascuno e non come una ipotetica «libera scelta»; come quel processo di individuazione che ci fa uomini e donne, indipendentemente dalla «scelta» sessuale (omosessuale o eterosessuale) in cui siamo implicati nostro malgrado.

11 maggio 2016

«La Follia ritrovata. Conversazione con Giovanni Sias» di Doriano Fasoli

 

Giovanni Sias è psicoanalista. Vive e lavora a Milano, dove si occupa, in particolare, della formazione degli psicoanalisti. Studioso e teorico della psicoanalisi fa parte dell’Area Mediterranea di Psicanalisi, un collettivo di lavoro che raccoglie psicoanalisti italiani, francesi di area provenzale e occitana, e spagnoli. La sua ricerca teorica si rivolge in particolare alle strutture fondanti la pratica della psicoanalisi e alla rielaborazione costante dei principi primi della conoscenza psicoanalitica: Edipo, Mosè e il pensiero sapienziale (Presocratici e profeti), le forme di elaborazione e trasmissione della psicoanalisi (il teatro, la letteratura, l’arte) e dei suoi rapporti con il pensiero scientifico moderno. A Milano collabora con la Fondazione Humaniter istituita dalla Società Umanitaria, dove tiene un seminario sulla Cultura della psicoanalisi. Dalla Fondazione «Dino Terra» e dal Comune di Lucca è stato nominato direttore scientifico del convegno internazionale Letteratura e psicoanalisi del marzo 2012. I suoi lavori più importanti sono pubblicati in Italia e in Francia, oltre ad articoli pubblicati in inglese, spagnolo, portoghese, greco e turco. Tra i tanti si ricordano: «L’artista e la follia», in Cristaldi, Miriam (a cura di), Arte come evocazione, L’Uovo di Struzzo, Torino 1990; Inventario di psicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino 1997; «Clinica del ritratto», in Raimondi, Ezio (a cura di), Ritratto della poesia, Quaderni del Circolo degli Artisti di Faenza, Faenza 1998; «Nel nome del padre», Bibbia e Oriente, vol. 43, n. 210, 2001; Fuga a cinque voci. L’anima della psicanalisi e la formazione degli psicoanalisti, Antigone, Torino 2008; «logos. Il ritorno della sapienza antica nell’esperienza della psicanalisi», Kamen’, n. 34, gennaio 2009, pp. 91-131; «Il motto di spirito nei suoi rapporti con la verità», in AA.VV., Atti del Convegno internazionale di studi sull’umorismo, Lucca 6-8 aprile 2009, a cura di Daniela Marcheschi; Appunti per una nuova epistemologia. La psicanalisi, la scienza, la verità, Zona Franca, Lucca 2011; «ובד. Il ritorno della sapienza antica nell’esperienza della psicanalisi», Enthymema, n. 9, dicembre 2013, pp. 334-369; «La psicoanalisi dopo José Ortega y Gasset», Studi Ispanici, Anno 40, 2015, pp. 147-176.
La presente conversazione prende origine dall'uscita dell'ultimo libro di Sias: La Follia ritrovata. Senso e realtà dell’esperienza psicoanalitica, Alpes Italia, Roma 2016.

 

Doriano Fasoli: Come nasce il suo ultimo lavoro, dottor Sias?

Giovanni Sias: La Follia ritrovata nasce da un articolo di alcuni anni fa, scritto per il blog di un’amica cantante jazz e psicanalista, Laura Pigozzi, in cui affrontavo alcuni temi riguardanti la follia, in particolare in relazione alla musica, e a cui aggiunsi, come sintomo della moderna mentalità intorno alla follia, e in forma di elogio, un paio di pagine sull’autismo. I temi toccati erano la letteratura, in particolare in relazione al lavoro di Giuseppe Pontiggia, la filosofia, il teatro. Era comunque un articolo breve che non approfondiva in maniera sufficiente nessun aspetto. Insomma, un articolo che mi lasciava insoddisfatto, soprattutto per il suo sorvolare sui vari e tanti temi che apriva. Cosa, questa, per me un po’ particolare e fino allora estranea al mio modo di scrivere che si è sempre sviluppato in modo piuttosto omogeneo lungo un solo tema, mentre in questo libro i temi sono molti. Ma soprattutto la riflessione sulla follia, il tema dell’articolo, mi sembrava eccessivamente incompleta e inconclusa.

A riaprire la mia attenzione verso il tema del mio articolo, un paio di anni dopo, o forse anche tre, fu un articolo di un filosofo russo, Vitalij Machlin, pubblicato sulla rivista di letteratura Enthymema, dell’università Statale di Milano, dal titolo «Oltre l’interpretazione», dove l’autore, prendendo spunto dal lavoro scientifico di Bachtin, si fa portatore di una nuova proposta di dialogo fra autore e lettore. Si riaprirono così temi rilevanti del mio percorso di ricerca, come la traduzione, la lettura, il sogno e così via. Insomma i temi toccati nel libro la cui occasione di pubblicazione mi fu offerta da Doriano Fasoli per i tipi di Alpes Italia.

La scrittura restava però sul piano della domanda. Alla fine mi sono reso conto che intorno al tema centrale, la follia, e gli altri temi che in relazione si aprivano, potevo avvicinarli solo per domande; di ciò che mi ero proposto di sviluppare non riuscivo a dire nulla di conclusivo, non andavo oltre il domandarmi, oltre all’articolazione della domanda e l’accostamento dei temi trattati. Alla fine, questo piccolo libro, così diverso da tutti gli altri scritti, mi è risultato forse più soddisfacente, più libero, senza eccessive griglie interpretative che, alla fine, lasciano sempre un testo apparentemente concluso ma anche rinchiuso in un involucro di finitezza. L’apertura della domanda, invece, è resa infinita dall’assenza di risposta, di una risposta univoca. La risposta, in effetti, impedisce quel processo di conoscenza che l’interrogazione avvia. In una esperienza psicanalitica non ci sono risposte, ma una continua articolazione della domanda, spinta sempre a livelli superiori, e cioè l’articolazione della domanda è l’apertura a un’altra domanda più complessa e più impegnativa.

10 maggio 2016

«La madre», un racconto di Antonio Melillo

 

I.

La madre

la mia terra,
che fuor di sé mi serra,
vota d’amore

D. Alighieri

 

Quando accade, accogliere la morte e il dolore significherebbe non inspirare gli afrori della decomposizione? Le parole dette prima sono un autoinganno, come legate a brandelli di speranza.

***

Torcere il naso dalla pelle e dai gesti salati non era carino, ma il lenimento delle carezze era uno sforzo sul cuoio ruvido del capo scosso da un lato. Il letto, non d’una sposa, sconsacrato dalla malattia, dal corpo umiliato; il marito gli porgeva gli occhi che ricordano e s’immaginano la solitudine: i figli avevano comunque ancora una vita intera.

Qualcosa che non potesse essere orribile in quel momento non vi era; lei continuava a guardare – ad accusarmi – mentre quella maschera che l’aiutava a respirare s’impregnava di rosso come lagrime, un rantolo interminato.

Tre anni prima mi confessò il malore, le dissi di non preoccuparsi: era lo scirocco che secca la vita dal di dentro; senza sapere cosa significasse. La mattina, eccitata, mi aveva chiesto più volte di andare con lei in campagna, ricordava soltanto com’era camminare in mezzo al grano, aveva lo sguardo scintillante, una bimba; la madre le era morta in novembre e sembrava volersi ingannare con una passeggiata, interrotta, sempre un novembre, con i campi venduti e la vita possibile solo nella città del nord.

Le dissi di no, volevo correre gli amici, non contemplare, del resto non avevo ancora nulla da ricordare. Quando ritornai all’imbrunire, era in casa, sfiancata su una sedia; insistetti, come lei al mattino, ma con gli occhi sfioriti, di dirmi cosa avesse, invece mi evitava; la cena mancava sul tavolo, solo a quel punto, quasi volesse chiedere scusa, mi disse che aveva avuto un mancamento; non capii che lo stomaco la stava rigettando.

***

Forse rigettava non cibo. Se l’egoismo avesse permesso di intuire, avrei pregato, nonostante già sapessi da mia madre che la fede va a braccetto con la disperazione e che il dolore non permette di abbandonarsi al nulla.

***

La speranza, e il profumo dei cipressi.

***

Quel giorno, mia cugina piangeva come fosse la figlia ed io la sostenevo: «Giocheranno a carte in cielo con la nonna e il nonno,» sorridendo, tacendo il pianto che ara dal di dentro; mio fratello, che non si capacitò: «Che giornata di sole, non poteva essere diversamente.»

Trattenevo lezioni sull’architettura funeraria per gli zii della Francia: volevo soffrire quando gli altri avrebbero incominciato a soffrire meno.

***

La malattia, se non sapesse di morte esisterebbe?

***

La malattia è meglio del nulla?

Curata pietosamente, è morta dopo un più lungo travaglio; era questa la maledizione ad Eva per mia madre?

Quando tornava a casa, a stento, le dava fastidio l’odore del cibo, ma cucinava lo stesso, anche l’ultima volta che andò in ospedale lasciò in frigo preparato il sugo.

***

Come un terremoto disabitato, malattia e morte colpirebbero senza i sentimenti?

6 maggio 2016

«Bambini ad oltranza. Conversazione con Cristina Chiarato» di Doriano Fasoli

Cristina Chiarato è laureata in Filosofia e in Psicologia e si è specializzata presso la Scuola di formazione de «Lo Spazio Psicoanalitico» di Roma. È psicoterapeuta e per oltre trenta anni è stata psicologo dirigente in un Servizio Materno Infantile di Roma. È autrice di diversi articoli pubblicati su riviste scientifiche. Bambini ad oltranza (pubblicato in questi giorni dalle Edizioni Polìmata) è il suo primo libro.

Doriano Fasoli: Perché ha deciso di scrivere questo libro, dottoressa Chiarato?

Cristina Chiarato: Nella mia esperienza clinica ho incontrato molti genitori incerti, incastrati in dinamiche che li facevano sentire in balìa dei figli; impotenti rispetto a bambini che giudicavano ingestibili; incapaci di dare regole e confini, quando non angosciati dal sentire che la presenza del figlio è per sempre. E, di conseguenza, mi sono occupata di bambini, anche molto piccoli, confusi, rabbiosi, ‘viziati’, sempre più richiedenti, bulimici di cose, insonni. Ho ascoltato tanti adolescenti o giovani incastrati in climi famigliari fusionali che, seppure vissuti con una sensazione di protezione, in realtà privano di autonomia e da cui è molto difficile, o almeno molto complicato, uscire. Ho visto coppie che si formano, quando si riescono a formare, con legami molto precari, spesso vivendo la propria autonomia come un ‘tradimento’ rispetto alle famiglie di origine, quasi colpevoli dei propri distacchi.

Dunque ciò che mi appare, sia a livello dei singoli individui che delle coppie, e anche della società – mi riferisco alla società attuale occidentale, – è una sorta di ‘mutazione’, di cui non è possibile precisare l’origine temporale, che si esprime in vari modi, sintomi, segnali. È l’epoca, ad esempio, nella quale si tende a rallentare la crescita dei grandi e ad accelerare quella dei bambini, limando così le differenze generazionali e proponendo rapporti alla pari che generano confusione; nella quale tende a prevalere l’imperativo del godere, di un forsennato carpe diem, piuttosto che l’impegnativa costruzione dell’amore; e nella quale, quindi, prevale il rimpiazzo, la rapida sostituzione del partner, quando una coppia non funziona, anziché la riparazione del legame.

Nella quale l’agire, sempre più spesso, prende il posto del pensare, del sostare a riflettere, ‘preferendo’ lo scarico immediato di una tensione: ne sono eloquenti esempi i terrificanti fatti di cronaca che quotidianamente si presentano come una terribile e agghiacciante impossibilità a elaborare un dolore, una perdita, una separazione. Nella quale, mentre si rincorre lo smantellamento di tanti tabù, sembra al contrario rafforzarsi il tabù della separazione, vissuto come il tradimento dell’illusione di un limbo eterno in cui non si cresce. Eccoci al punto. Sono state tutte queste riflessioni scaturite dalle delineate esperienze cliniche che mi hanno indotto a scrivere e riassumere l’anima del mio scritto in tre parole: Bambini ad oltranza.

È certo che, di per sé, l’infanzia non è una malattia. Rischia, però, di diventarlo se psichicamente viene protratta ad oltranza, se si proclama una sorta di sciopero, che la stessa parola evoca, dalle ‘fatiche’ del crescere. Perché crescere è un lavoro costante, è una continua modificazione degli assetti precedenti, è l’attraversamento delle varie fasi della vita, è, fondamentalmente, l’abbandono dell’illusione onnipotente di non dover fare i conti con al separazione, il dolore, lo sforzo, l’impegno, i limiti, che troppo spesso vengono identificati con il trauma.

24 aprile 2016

«I 400 anni dalla morte di Shakespeare. Qualche suggerimento» di Nicola d'Ugo

Vivien Leigh nelle vesti di Lady Macbeth

Oggi ricorre il 400° anno dalla morte di William Shakespeare. Festeggiamenti in tutto il mondo in suo onore, a cominciare da Londra, la città in cui ha vissuto. Sempre ammesso che Shakespeare sia mai vissuto, ma diciamo di sì. Quel che ci resta è l'enorme mole di opere teatrali, tra le più belle e profonde che siano state scritte da sempre. Per chi sia interessato a conoscere le opere di Shakespeare, voglio suggerire qualcosa di utile, oltre ai tanti spettacoli teatrali che si tengono in Italia e che meritano di essere visti, anche quando siano realizzati da compagnie dilettantesche con pochi mezzi. Perché i mezzi scenici che usava Shakespeare erano davvero poveri, al punto che proprio per questo molto di quello che avviene in scena viene specificato dalle battute degli attori cui il drammaturgo ha dato voce. Ricordo qui, parafrasandola, una lamentela del tutto condivisibile che Helen Mirren fece decenni fa nel cuore del teatro shakespeariano in cui lavorava: troppi arredi, troppi costumi e macchinari, insomma così si uccide Shakespeare e il ruolo fondamentale che gli attori hanno nel suo teatro. Il teatro di Shakespeare, per quanta potenza evocativa abbiano i suoi testi, può essere rappresentato in un aia popolare coi vestiti di tutti i giorni, tanto per intenderci.

Per chi non legga l'inglese elisabettiano, le opere di Shakespeare occorre leggerle in traduzione. Questo è ovvio. Suggerisco al riguardo di leggerle nelle traduzioni di Agostino Lombardo, molto belle e adatte alla rappresentazione scenica, nel senso che le sue traduzioni funzionano bene per chi debba recitarle, in quanto sono molto poetiche, fluide e memorabili. Ma non mi fossilizzerei solo sulle traduzioni di Lombardo, cercherei di variare, di essere ‘curioso’. Per esempio, de La tempesta mi è sempre piaciuta soprattutto la traduzione di Salvatore Quasimodo. Oltre a questo dramma incantevole, leggerei per primi Amleto; Romeo e Giulietta; Macbeth; Sogno di una notte di mezza estate; Antonio e Cleopatra; Re Lear; Otello; Riccardo III; Enrico V; e Come vi piace, giusto per fornire un elenco di opere che piacciono a me. E poi gli incantevoli sonetti. Vale tutt’oggi come ieri un appunto di T. S. Eliot, il quale considerava Dante leggermente superiore a Shakespeare: Dante è più facile da tradurre, nel senso che Shakespeare è più «scivoloso» (uso un’espressione proprio di Shakespeare in Antonio e Cleopatra). Se in Dante è più rara l’oscurità di una frase, in Shakespeare molte frasi sono interpretabili in modi diversi, tutti densi di significato, per cui un traduttore è costretto a prenderne uno o due piuttosto che sette. Queste non sono questioni che possano interessare chi si avvicini al teatro shakespeariano, la cui dolcezza e violenza, la cui forza espressiva e critica dei vizi umani, dei sistemi di potere e dei sentimenti amorosi lo rendono uno dei più grandi autori dell’umanità. Dico solo che leggere traduzioni diverse può risultare davvero interessante, se si ami questa o quell’opera di Shakespeare. Per cui il mio consiglio è che vi scegliate le traduzioni che vi piacciono di più, perché siate voi a farne tesoro, buttando alle ortiche le questioni tecniche di noi poveri addetti ai lavori, che abbiamo a che fare con testi di Shakespeare che lui non scrisse mai così come li leggiamo integralmente, e che non furono portati in scena nella forma integrale in cui sono generalmente pubblicati. Shakespeare non pubblicò le sue opere in vita, per cui quello che ci resta sono opere straordinarie, scritte per gli attori, e modificate nel tempo. Come non esiste una Divina commedia autorizzata da Dante, non esiste neppure un’opera teatrale autorizzata da Shakespeare. Quando, per convenzione e comodo, leggiamo un dramma di Shakespeare diviso in atti e scene, beh Shakespeare, per quanto si sia capito, non li divideva in atti e scene, lasciava che le compagnie teatrali decidessero come spezzettare in scene i suoi drammi. Questo sia chiaro.

Dalle sue opere sono tratti una miriade di film. Più di 400. Shakespeare ha influenzato il teatro di tutto il mondo, ma anche la narrativa, la filosofia, la storia, la psicologia, il cinema e le arti figurative. Al punto che Dryden e Tolstoj scrissero pagine molto dure nei suoi confronti, oltre a farlo i contemporanei di Shakespeare. Pagine importanti anche per chi ami, anzi soprattutto per chi ami, la drammaturgia shakespeariana. È interessante notare il voltastomaco che Shakespeare procurava ad un genio tra i più grandi che la letteratura abbia avuto, proprio in misura delle motivazioni critiche severissime che Tolstoj riversava su Shakespeare, nonostante il fatto che il padre letterario di Tolstoj e degli altri grandi russi sia stato Puškin, che si rifece direttamente a Shakespeare per mettere al mondo la prima importante tragedia russa, il Boris Godunov. Questione di punti di vista di menti fini e stomaci sensibili.

5 aprile 2016

«Il problema del transfert. Conversazione con Riccardo Galiani» di Doriano Fasoli

Riccardo Galiani è psicoanalista della Società Psicoanalitica Italiana. Insegna come professore associato psicologia dinamica e psicopatologia delle relazioni presso il corso di laurea magistrale in Psicologia clinica del Dipartimento di Psicologia della SUN. Redattore di notes per la psicoanalisi, collabora con la rivista Psiche, per il cui prossimo numero (2, 2016) dedicato al tema della distruttività ha scritto il «Dossier». Tra le altre pubblicazioni recenti: Contenimento, seduzione, anticipazione (2010), volume sui fondamenti intersoggettivi delle relazioni primarie, «La situazione psicoanalitica come rottura della comunicazione ordinaria» (in P. Fédida, Aprire la parola. Scritti 1968-2002, 2012), «Pour une métapsychologie de la parole: trajectoires de l’œuvre de Pierre Fédida» (in P. Fédida, Ouvrir la parole, 2014), «Autobiografia di un vivente in tre capitoli (più uno). Note per Louis Wolfson» (in M. Balsamo, L’autobiografia psicotica, 2015). Coordinatore del gruppo di ricerca «Il problema del transfert» (Dipartimento di Psicologia, SUN), è membro del SIUEERPP (Séminaire Inter-Universitaire Européen de Recherche. Psychopathologie et Psychanalyse). La conversazione con Galiani ha per occasione la pubblicazione del libro Il problema del transfert 1895-2015, da lui curato con Stefania Napolitano, psicoterapeuta di formazione lacaniana, dottore di ricerca in Studi di genere all’Università di Napoli Federico II e autrice dei volumi Dal rapport al transfert. Il femminile alle origini della psicoanalisi (2010) e Clinica della differenza sessuale (2015).

Doriano Fasoli: Riccardo Galiani, tu hai progettato e curato, insieme a Stefania Napolitano, Il problema del transfert 1895-2015, volume appena uscito per Alpes (collana «I territori della psiche»); come è nata l’idea del libro?

Riccardo Galiani: Così come appare ora, finito, il libro non risponde ad un’unica idea, non nasce tutto in una volta. All’origine c’è l’esigenza di trovare uno strumento che mi aiutasse a affrontare, anche nei corsi universitari, il tema del rapporto insolubile tra persona dell’analista e situazione psicoanalitica. L’interesse per la modalità in cui la persona dell’analista può aprire – o non aprire, se non occludere – quel «sito dell’estraneo» che, come diceva Fédida, è la situazione psicoanalitica, si è progressivamente trasformato in un’esigenza di lavoro. Penso poi che il far conoscere il modo in cui, nel corso di questo secolo e più di psicoanalisi, diversi ricercatori (sono dell’idea che la riflessione sul singolo caso, sul singolo frammento di analisi, o anche di seduta in alcuni casi, sia la ricerca psicoanalitica), al di là delle «scuole» di appartenenza, hanno cercato di costruire strumenti per pensare questa questione possa contribuire a far acquisire una consapevolezza della specificità della psicoanalisi anche a coloro che psicoanalisti non sono (non lo sono ancora, non lo saranno).

Si tratta ovviamente di un argomento all’ordine del giorno, o quasi, nei gruppi di ricerca e studio che animano le associazioni psicoanalitiche; ma penso che, seppur ovviamente affrontato in modo diverso, sia un argomento che debba essere presentato anche sul piano degli studi universitari. Nella mia esperienza (non saprei dire quanto possa essere generalizzata, ma l’impressione che ricavo dagli scambi con alcuni colleghi è che sia in effetti generalizzabile), nel corso degli studi di psicologia, soprattutto da quando è in vigore lo sciagurato «3+2 che non fa cinque, ma di fatto molto meno,» la situazione psicoanalitica è spesso evocata, anche quando non si tratta specificamente di psicoanalisi – e ciò può essere un bene – quasi solo attraverso riferimenti al transfert.

23 marzo 2016

«Sulla recensione dei libri» di Nicola d’Ugo

V'è troppa fretta di recensire un libro appena uscito. Un libro serio non andrebbe mai recensito subito se non da persone che ne conoscano a fondo le tematiche, per via di precedenti meditazioni proprie. Questa smania di recensire un libro appena uscito o nei primissimi mesi dall'uscita costituisce un metodo fondamentalmente sbagliato, una concezione affatto distorta e povera della letteratura. La letteratura è un territorio di riflessione nel sociale tra esseri umani che scrivono, leggono e discutono. La smania della recensione è il frutto di una necessità meramente commerciale e pubblicitaria per cui un testo va consumato il prima possibile, ossia blaterato, acquistato e mandato al macero il più tardi possibile in tempi stretti per passare al tascabile e alla sua funzione anch'essa commerciale. Perché qualcosa sia commerciale essa deve essere ammiccata, stuzzichevole, perché l'usa e getta del suo uso proprio, ossia il beneficio pecuniario, impingui quanto possibile i bilanci, vengano pagati i salari, rinvestito il denaro o dirottato ad altri usi estranei all'editoria. Se in ciò consistesse la letteratura, probabilmente non me ne sarei mai occupato o me ne sarei allontanato presto.

Questi aspetti di mercato non rientrano per nulla nelle preoccupazioni della letteratura. La letteratura si occupa di questioni fondamentali per l'uomo, sulle quali un autore offre una prospettiva argomentativa complessa che faccia da espressione e critica della vita umana. Data la vastità delle tematiche fondamentali per l'uomo, dalle relazioni interpersonali alle percezioni del mondo interiore e ambientale, alla politica, alla tecnologia, alla natura di cui facciamo parte, alle figure metafisiche e alle incarnazioni celesti fino al traffico delle armi, degli esseri umani, agli uteri in affitto, alla tratta delle donne, alla soppressione dei malati e dei neonati e via dicendo, viene da sé che recensire un testo letterario richieda non minore meditazione sul tema di quello che vi ha posto un autore. Viene da sé che la smania del recensire rapido non abbia ragion d'essere seria, tranne i rari casi di recensori che abbiano lungamente affrontato per proprio conto i temi trattati in un libro.

Lo scorso anno ho espresso il mio desiderio di recensire Sottomissione di Houellebecq, cui è seguito il mio fallimento dell'immediata iniziativa. Non che non conosca per decenni di studi molti dei temi affrontati da Houellebecq in quel romanzo, ma mi sfuggivano, e ancora mi sfuggono, molte delle sfaccettature e alcuni temi del mondo islamico cui fa riferimento, per cui una rapida recensione avrebbe significato offrire al lettore impressioni, parziali letture di questo o quell'aspetto del romanzo, osservazioni stilistiche e altre questioni che non avrebbero fatto un buon servizio culturale, e dunque sociale, alle riflessioni di Houellebecq, ai lettori della mia recensione, né a me come autore della stessa. Fare letteratura significa entrare in un dibattito molto sottile che offra un contributo gnoseologico, ossia di conoscenze, agli altri. Le recensioni in fretta e furia dirette ad un testo letterario lo sviliscono e distorcono, lo banalizzano, banalizzano il grado di riflessione che esso merita ed il grado di riflessione collettiva sugli argomenti trattati. In altri termini, tradiscono l'essenza stessa della letteratura come una delle attività più longeve dell'umanità e la punta di diamante del pensiero e delle sue ricadute sociali in ciascuna congiuntura epocale.

Come chiunque può notare da sé con un minimo di studi delle vicende umane, tra i primi atti di una svolta politica v'è la soppressione di due entità: gli oppositori armati e gli scrittori, nonché la censura dei testi di epoche coeve e precedenti. Tale soppressione avviene con mezzi coercitivi attraverso forme di censura o di emarginazione di oppositori, autori e testi, oppure con la reclusione di tutti e tre o, in terza istanza, con la soppressione fisica di uomini e testi. Questo in quanto la letteratura non è una forma di intontimento delle masse, al quale pensa invece o un altro tipo di pubblicistica di regime oppure il discredito della letteratura e l'introduzione di forme di piacere quale la droga «soma» raffigurata da Huxley ne Il mondo nuovo, per cui ti fai, stai bene, sei produttivo, non sconfini da una classe sociale all'altra, copuli alla grande e, soprattutto, non ti vengono idee strane come quelle di pensare e aver dubbi sulle cose. Il che funzionerebbe anche bene, se non fosse che la natura è molto complessa e tutt’oggi imperscrutabile, per cui se non pensi e non dubiti il genere umano va incontro all'estinzione prodotta da qualsiasi nuovo fenomeno naturale, e dunque anche psichico, che tu abbia dato per scontato: dall'avvento di una nuova forma virale ad una minaccia cosmica, all'insorgere di reazioni psichiche non previste nella popolazione, all'improvvisa inefficacia della «soma» stessa o della sua improvvisa impossibilità di esser prodotta o sostituita da altra droga consimile.

15 febbraio 2016

«Lautréamont toujours. Temi etici e stilistici nelle "Poésies" di Isidore Ducasse» di Giancarlo Micheli

Scrivere è sempre guarire. Il vero scrittore sa ogni volta da quale male e, qualora ne assuma a proprio arbitrio la responsabilità, sa anche come tenerlo celato al lettore; si tratta di ciò che il magnanimo chiama ironia, e colui che lo diventa serietà.

Qualora sia altro che mera vanteria, grossolano ricamo di esistenze tramite il quale le generazioni apprendono, secondo diacronici automatismi, a ricoprire rinnovate vergogne, l’opinione per cui la specie umana costituirebbe un apice nell’evoluzione biologica riposa sull’evidenza per cui in alcuni individui, la rarità dei quali non debba poi essere usata per ascrivere loro colpe spettanti a follia o perversione, persista la memoria dello stato ferino in cui vissero e si moltiplicarono intere stirpi di genitori archetipici fino ai loro naturali e legittimi. Se ne risultasse così corroborato, in qualche coscienza, l’aforisma marxiano a stare al quale la società borghese sia il termine conclusivo della preistorica,1 ciò non accadrebbe, una volta ancora, se non per via di un artificio retorico, un espediente tale da permutare le glorie dell’esperienza e della persuasione a profitto di una condizionale tiepidità ottativa.

Da un luogo generico, posto alla periferia dell’impero capitalista, dal quale osservare i segni della sua decadenza, i disagi, le dolose nuisances e le brame apocalittiche della sua civiltà in rovina, da una qualsiasi sconosciuta località di mare si può oggi assistere a spettacoli naturalistici di gabbiani che difendano dalle cornacchie la prole in virtù dell’istinto di aver becchi a sufficienza per fare incetta di pesce arando le superfici di acque litoranee inquinate da metalli pesanti ed innumerevoli cataboliti non biodegradabili dei processi industriali; là si può acquisire chiara cognizione di quali progressi abbia conseguiti la specie emancipatrice di se stessa ad un tal grado da aver sostituito, non senza malizia, a fetide creature squamose un oggetto del desiderio tanto immateriale da esser passibile di replicazione fino alla virtualmente assoluta sterilità, attorno al quale fare ressa in miriadi di mediocri soggetti, tutti competenti ad intraprendere il nulla. Quando poi, a volo d’uccello, vorace o mansueto come lo si possa immaginare dal falco alla colomba, si possedessero ali per ravvisare, al di là della cortina del tempo e dei pregiudizi che ne sono scaturiti in spirito e materia, la scena del medesimo crimine quale fu allestita sul patibolo con cui si aprì giudiziariamente l’anno che avrebbe vista la dissipativa débâcle di Napoléon le pétit e dei suoi imperiali comitati d’affari, tant’è che per qualche luna del successivo il sole della Comune brillasse su Montmartre e Belleville, saremmo precipitati dentro una voragine non meno abissale di quanta se ne dia per attualità al gusto letterario vigente, allorché scorgessimo il nemico provato dell’ordine civile, l’assassino seriale Jean-Baptiste Troppmann,2 oscuro meccanico alsaziano che, settant’anni dopo aver avuta recisa la testa dalla ghigliottina nella prigione de la Roquette, meritò onore postumo resuscitando nel nome del personaggio protagonista di un romanzo noir3 che Georges Bataille scrisse poco prima dell’inizio della seconda guerra mondiale; e supplementare meraviglia trarremmo esaminando le convulsioni di quel corpo colpevole e malvagio tra le cinghie che lo avvincono, così diabolicamente pervicace – come poterono attestare i Sardou, i Sue e i Dumas, tutti i «romanciers de cours d’assises»4 che assiepavano la platea, quasi a confondersi alla folla inebriata dall’atto conclusivo di quella ben congeniale cronaca –, così insanamente votato a compiere il male che mancò poco riuscisse a staccare un dito al boia con un estremo morso, in forza del quale non volle darsi pace fino all’istante in cui la lama non lo ebbe tranciato e reso inerte.

16 dicembre 2015

«La pelle mistica. Conversazione con Luciano Venticinque» di Doriano Fasoli

Luciano Venticinque è nato ad Acireale. Medico chirurgo, si è specializzato in Dermatologia nel 1995 e in Psicoterapia cognitivo-comportamentale ad orientamento costruttivista nel 2008. Per sette anni è stato medico interno all'ospedale Vittorio Emanuele di Catania e dal 2007 al 2010 titolare dell'ambulatorio di dermatologia presso lo stabilimento termale Santa Venera di Acireale. È membro della Società Italiana di Dermatologia Psicosomatica. Da sempre studioso della materia, ha pubblicato alcuni articoli di dermatologia psicosomatica su Formazione Psichiatrica, rivista trimestrale della clinica psichiatrica dell'Università di Catania. Esercita attualmente la libera professione nella sua città natale. Il suo copioso studio La pelle mistica è uscito in questi giorni per i tipi Alpes.

Doriano Fasoli: Quando ha deciso di scrivere La pelle mistica e cosa lo ha ispirato, dottor Venticinque?

Luciano Venticinque: L’idea di scrivere un libro sulle stimmate mi è venuta seguendo un programma tv su Padre Pio che nemmeno conoscevo. Il fatto che le stimmate del frate scomparvero senza esiti cicatriziali fu per la mia mentalità dermatologica una sorpresa ed una meraviglia, così ebbi la curiosità di approfondire l'argomento. Il testo si è sviluppato nel tempo quasi da solo; i vari capitoli venivano a me nell'ispirazione, quasi non li cercavo.

Di cosa si occupa la psicodermatologia?

È una branca della dermatologia che tratta delle relazioni psiche/cute. Ci sono disagi esistenziali e conflitti psichici, oltre che dinamiche relazionali problematiche, che, sulla base di particolari strutture mentali della persona, possono avere ripercussioni sulla pelle che si manifestano in forma di lesioni ben precise. La psoriasi ne è un esempio classico, i cui aspetti conflittuali psichici sono conosciuti da tempo. E possiamo aggiungere l'acne, l'eczema, la vitiligine, l'orticaria, ecc.

A chi si rivolge il saggio La pelle mistica?

Il saggio è fruibile da tutti: dal lettore curioso al dermatologo, al teologo, allo psicologo, a chi si occupa di professioni d'aiuto. A chi vuole comprendere meglio la propria malattia della pelle. Infatti, la lettura della sezione clinica potrebbe indurre nel lettore fenomeni di identificazione di eventi comportamentali ed emotivi che lo possono condurre a prese di consapevolezza personale, o semplicemente al desiderio di maggiore comprensione della propria storia di sviluppo e, chissà, magari intraprendere una psicoterapia.

A suo parere, dottor Venticinque, quali potrebbero essere le attuali novità nel campo della psicodermatologia?

Questa disciplina ha ottenuto un grande slancio dal recente sviluppo della psico-neuro-endocrino-immunologia (Pnei), la quale ha evidenziato i rapporti che intercorrono tra psiche, sistema nervoso, endocrino ed immunologico all'interno dei quali, come in un sistema circolare e a rete, si creano azioni e contro-azioni con continue influenze e comunicazioni da un sistema all'altro. Si applica a tutto ciò il moderno paradigma della complessità. A questo si aggiungono le conquiste delle neuroscienze e, per ultimo, ma di grande importanza, le scoperte sulle caratteristiche del rapporto diadico madre-figlio apportate dalla teoria dell'attaccamento di Bowlby, psicoanalista britannico (1907-1990). Egli si occupò dello sviluppo cognitivo ed emotivo del neonato all'interno delle complesse relazioni con le figure di accudimento. Una delle fondamentali acquisizioni, importante per la psicodermatologia, è l'aver dato il giusto significato alla natura ed alla qualità dei «contatti» intercorrenti tra madre e bambino. La malattia della pelle pertanto può trovare le sue radici in un impoverimento affettivo ed uno scarso contatto pelle-pelle. Semplicemente potremmo parlare di fame di carezze, ma le dinamiche sono molto più complesse. Un sano accudimento materno pertanto può porre le basi per il futuro equilibrio psichico e la salute in genere. Il mio contributo clinico è l'aver applicato la psicoterapia cognitiva, che si è sviluppata da queste basi concettuali, nel paziente dermatologico. In psicodermatologia, infatti, ha fatto sempre da padrona la psicanalisi freudiana.