Giuseppe Girimonti Greco è traduttore e saggista. Si occupa principalmente di Proust. Fra i suoi ultimi lavori di traduzione: Vertigine di Julien Green (Roma, Nutrimenti; premio Bodini 2017), Racconti di Marcel Proust (Firenze, Clichy) e Fiabe di Charles Perrault (La Nuova Frontiera Junior, Roma), tutti e tre curati insieme allo scrittore Ezio Sinigaglia, con il quale forma un collaudato sodalizio da alcuni anni. Del 2017 è la sua traduzione dell’ultimo romanzo di Klossowski Il Bafometto, edito da Adelphi.
Doriano Fasoli: Girimonti Greco, qual è la genesi de Il bagno di Diana, pubblicato di recente da Adelphi? Perché Klossowski decide di dedicare un intero libro a questo mito?
Giuseppe Girimonti Greco: «Non sono uno studioso di Klossowski, ma proverò a rispondere ugualmente…» Questo era l’incipit della mia risposta alla tua prima domanda, prima che la collera di Diana si abbattesse su questo testo… Ma andiamo con ordine: ti rispondo – anche nella speranza di divertire i lettori – raccontando una storiella un po’ inquietante, se non altro per via della sua stregonesca e ‘diabolica’ (è il caso di dire) valenza simbolica. Avevo deciso di commentare l’incipit del libro, che è forse fra i più belli di tutta l’opera di questo autore. Nelle pagine introduttive Klossowski spiega, con inconsueta semplicità:
Vorrei parlarvi di Diana e Atteone: due nomi che evocano, nella mente del lettore, poche o molte cose: una situazione, delle posture, delle forme, il soggetto di un quadro, ormai quasi solo leggendario, poiché l’immagine e il racconto, divulgati dalle enciclopedie, hanno ridotto alla semplice visione di un gruppo di donne sorprese al bagno da un intruso questi due nomi, il primo dei quali è solo uno tra i mille con cui la divinità fu conosciuta da un’umanità scomparsa.
E ancora:
[S]e il lettore non è del tutto privo di memoria, e di ricordi trasmessi da altri ricordi, questi due nomi possono improvvisamente rifulgere come un’esplosione di splendori e di emozioni.
L’intento di Klossowski è chiarissimo, la sua strategia argomentativa ben precisa: fare piazza pulita di tutte le interpretazioni convenzionali che hanno addomesticato (e spesso snaturato) questo mito così arcaico e perturbante; tornare alle origini, alle fonti più antiche, al suo nucleo primigenio, da cui ci separano millenni di cultura, per così dire, ‘anti-pagana’; fornire una lettura non condizionata dalle innumerevoli incrostazioni iconografiche, letterarie (soprattutto classicistiche) che hanno trasformato quel mitologema (la scena culminante della ‘leggenda’) in un episodio di blando, aggraziato voyeurismo (ferocemente punito da una dea proverbialmente fiera e vendicativa); per far questo, Klossowski dice di voler approfittare della buona disposizione ‘culturale’ del suo lettore volenteroso, di voler far leva su quei pochi frammenti di memoria culturale che resistono nella contemporaneità, nel nostro immaginario (se non nell’inconscio collettivo contemporaneo, verrebbe da dire): reminiscenze di reminiscenze, bagliori fugaci, intermittenze in grado di funzionare come ‘illuminazioni retrospettive’, come «estasi metacroniche» (l’espressione la ricavo dai saggi proustiani di Francesco Orlando, un teorico che amo molto… e c’è da chiedersi che cosa Orlando avrebbe potuto dire su questo testo, così vistosamente imperniato sul ritorno del rimosso e del represso…).