Mosca Felice
Andrej Platonov
Adelphi
Milano 1996
Trad. di Serena Vitale e Ornella Discacciati
EUR 14,00
159 pp.
Isbn: 88-459-12426
Poetico e ricco di metafore ardimentose, tenero nel descrivere i moti del cuore e crudo nel registrare quelli dei sensi, Mosca felice (Sčastlìvaja Moskvà) di Andrej Platonov colpisce anzitutto per la svelta fluidità del linguaggio, l’agile snocciolarsi delle scene e una certa distaccata familiarità con cui ci trascina nelle dimore trasandate e nei campi ventilati a perdita d’occhio in cui si muovono i personaggi, con le loro intime riflessioni su quel mito culturale che fu l’uomo nuovo (novyj čelovék) nella Russia staliniana degli anni trenta. Scritto in quegli anni e pubblicato postumo dopo decenni di censura nel 1991, questo romanzo incompiuto ha il pregio di raccontare una gioventù diversa da quelle cui ci ha abituati la letteratura occidentale, da Woolf a Queneau, da Döblin a García Márquez, da Moravia a Oates, una gioventù che non è nata nel mito capitalista o nella sua opposizione, ma è cresciuta totalmente nella società sovietica, imbevuta dei sui miti, che si trova a confrontarli con le necessità della maturazione individuale.
Mosca Čestnova, una diciottenne cresciuta in orfanotrofio, è la congeniale protagonista della vicenda. Il primo ricordo infantile, che l’accompagnerà nella vita, risale alla rivoluzione d’Ottobre: un bolscevico inseguito e ucciso, quando lei aveva quattro anni. Tale ricordo, in una donna la cui situazione familiare qualifica come sradicata dal passato storico, senza alcun legame con i parenti, si dimostrerà, nel corso della vicenda, anch’esso un’illusione, un’interpretazione fantastica della bambina.
Lo scarto fra immaginazione e realtà è espresso da Platonov attraverso frasi lunghe e morbide, che, come piani differenziati, la sua abile penna inclina sapientemente, per far scivolare il reale nell’immaginario, l’immaginario nel metafisico, finché il metafisico si apre sul dubbio, al punto che una situazione non si impiglia o ingarbuglia nella successiva, ma si estende ad ampie pennellate, temperandosi in sensazioni, emozioni, sentimenti, come un composto chimico di passione e d’amore. Un tale processo della scrittura riflette il processo psicologico dei personaggi, di cui lo scrittore di Vorodež ci avverte fin dall’inizio, quando dice che il ricordo del bolscevico è come dimenticato dalla bambina, ma, in certi momenti, le riaffiora alla memoria, riflettendosi in un gesto condizionato, nell’interruzione di un’attività, in una sua più alacre esecuzione.
Mosca è una ragazza determinata, che ama le situazioni limite, come lanciarsi da un paracadute accendendosi una sigaretta. In ambito sentimentale, fa l’amore senza impegni secondo la propria interpretazione della vita comunista (per lei «l’amore non è il comunism»”, in quanto quest’ultimo è più duraturo e meno deludente), mettendo in crisi una serie di personaggi maschili, i quali, nella forma incompiuta del romanzo, assurgono a protagonisti, con il loro pensiero rivolto a una donna immaginaria, una sorta di emblema, un’illusione ossessiva e memorabile, né più e né meno della città che li ospita e che le ha dato il nome, con i suoi milioni di uomini, in cui un volto nella folla appare perfettamente irriconoscibile.