31 dicembre 2009

«Tra modernismo e postmodernismo. Riflessioni sulla lirica di Dylan Thomas» di Nicola D'Ugo



Questo breve saggio sulla lirica di Dylan Thomas va considerato quale cominciamento di una serie di ricerche e interventi sulla poesia contemporanea. Non siamo proclivi a indulgere ai dettami e alle forme tassonomiche e normative che intendano porre il veto sulla rivisitazione di un autore, pacifico l’assunto che ciò che è stato esaminato e condiviso da più parti passi di seguito in cassazione. V’è il dubbio retorico che spesso tutto se ne vada in prescrizione senza che l’editoria si impegni a salvaguardare (il termine ha connotazioni fortemente protezionistiche) l’opera di autori che, tolta agli scaffali di libreria dall’ultimo allungo di un braccio fortunato (o fortunoso) va a trascorrere il tempo suo nell’Ade del dimenticatoio. Nel caso di Dylan Thomas (Swansea, UK 1914 - New York, USA 1953) va appuntata la generosità dell’editoria nostrana (Einaudi, Garzanti, Guanda, Marcos y Marcos, M’Arta, Mondadori, Il Saggiatore), la quale s’è prodigata nel proporre un po’ tutte le sue opere, anche se l’opera omnia non è contemplata dai cataloghi. Del resto fu d’aiuto il successo ch’egli riscosse nell’Italia del secondo dopoguerra. Diventa addirittura paradigmatico il nome di Thomas in riferimento al Montale critico e al giudizio critico vagliato. Il nome suo è poi l’epiteto generazionale del funambolismo di cui ci indicò brillantemente Giorgio Melchiori nello splendido The Tightrope Writers. Studies of Mannerism in Modern English Literature (1956), dipoi tradotto da Ruggero Bianchi per l’Einaudi con il titolo I funamboli (Torino 1963 e 1974). E l’elenco, aggiunto il nome di Roberto Sanesi (si veda tra l’altro, più per l’intento di ripercorrere l’iter della poesia di Thomas che per l’effettiva riuscita del disegno, il suo Dylan Thomas, nell’edizione garzantiana del marzo 1977), andrebbe avanti all’infinito; e verrebbe posto in pregiudizio l’intento nostro che è quello di tenere al riparo, nei debiti limiti né oziosamente, da vecchie etichette (quale quella di modernismo, già di per sé tutta da rivedere) un autore che vorremmo riesaminare –sommariamente per quanto ci è dato scorgere nel suo lavoro, e senza che qualche menestrello si intrometta a cantarcela alla vecchia maniera– alla luce dei tempi nostri, in un tentativo di riapertura del caso Thomas.

Se v’è ancora chi sostiene, con Charles Russell (Poets, Prophets, and Revolutionaries: The Literary Avant-guard from Rimbaud to Postmodernism, Oxford UP, New York 1985), che al modernismo vadano ricondotti tutti i movimenti degli ultimi decenni della letteratura mondiale (di stanza e importazione in Occidente), come se questi, coi nomi loro, rappresentino null’altro che dei sottoinsiemi rispetto a quello, ci torna spontaneo assecondare l’idea di una continuità fra un periodo storico di primo anteguerra e uno di secondo dopoguerra (una continuità che va evidenziata innanzitutto per i caratteri di contiguità, senza i quali ci sarebbe impossibile arrangiare una pur minima sembianza di storia), ma, anche, distinguere il modernismo d’inizio secolo dalla postmodernità che ha allungato il passo con sempre maggiore consapevolezza dai preamboli del secondo dopoguerra ai nostri giorni. Seppure il termine modernismo trovi origine in un contesto di dibattito teologico e non già d’ambito letterario, e a quest’ultima accezione si sia giunti in un Ottocento i cui caratteri già si differenziavano nelle varie nazioni e, all’interno di queste, nelle maniere, accademie e movimenti (di cui quelli francesi avranno una ripercussione inarrestabile fino ai nostri giorni), pur tuttavia si soleva, fino a poco tempo fa (e v’è, appunto, chi non ne ha persa l’abitudine in riferimento agli ultimi esiti della letteratura e delle arti contemporanee), chiamare modernisti quei poeti che, dall’inizio di questo secolo ormai al tramonto, si erano prodigati a rompere i vecchi canoni della poesia e a dare alla luce opere le cui forme espressive erano tanto eterogenee da indurci a credere, cosa che oggidì facciamo senza sussulti, che una sola parola, e finanche un sol punto sul foglio, potesse costituire una lirica nella sua interezza. I motivi che spinsero i poeti a una tal pratica poterono essere, e furono, di varia ispirazione. Vi fu chi, con gli imagisti, fondò il poetare sull’assunto che elemento essenziale e proprio della lirica fosse l’immagine: come se la parola poetica non potesse essere pure concetto d’ordine astratto, il cui significato può implicare, suggerire contestualmente qualcosa di sensibile e rimandare a sentimenti o cause sensibilmente irrecuperabili, e la cui musicalità, il cui charm, può produrre atmosfere non solo inaudite (sarebbe di interesse forse delle mode) o originali ma autentiche (secondo la celebre distinzione di W. H. Auden ): "la precisione dell’impreciso", pur dicendola col Jiménez delle lezioni del 1953 all’università di Puerto Rico, possiamo estenderla.

Il precetto di Pound, secondo cui non si debba

      adoperare un’espressione come "dim lands of peace"

poiché l’immagine ne viene indebolita in quanto

     mescola un’astrazione al concreto

è stato, con successo, sovvertito sul campo da poeti tanto diversi tra loro quali W. H. Auden e Dylan Thomas, che hanno fatto della parola astratta uno dei perni lessicali forti dell’arte loro. Non furono certo i primi, né gli unici di quella generazione. V’è con loro la schiera dei Trentisti (Thirties) e quella degli Apocalittici. E prima di loro van tenuti in conto, proprio in appendice all’Imagismo, la poesia di T. S. Eliot e il cambiamento di rotta sempre più rimarchevole nei "chopped seas" (lo si noti subito nei nomi propri dello Hugh Selwyn Mauberley, del 1920) di Ezra Pound. Il primo dei due maestri del secolo, Eliot, porterà la forma poetica ai livelli poetici più alti di duttilità espressiva e unità formale del Novecento inglese, con l’opposizione lessicale di enunciati astratti e enunciati concreti, come a ripetere e riproporre, nei godibilissimi Four Quartets, l’opposizione dialettica di tema maschile e tema femminile della forma sonata, di modo che potremmo essere indotti in tentazione –si trattasse solo di sceverare, per l’uso o meno di termini astratti, o per la maggiore o minore unità formale dell’opera d’arte, due periodi storici contigui– d’assorbire in ambito postmoderno quest’opera, escludendo dal consorzio quella che un par di decenni prima gli aveva aperto la via alla fama universale: The Waste Land (1922). Una tentazione, questa, a cui sappiamo non cedere, poiché i Four Quartets s’inscrivono proprio nell’albo di quelle opere che hanno posto in discussione la questione della verità avvalendosi di categorie che volevano che il presente fosse riletto nella Storia, cercando magari di misurarsi con l’incommensurabilità di epoche ormai improponibili ma le cui suggestioni s’avvertivano preziosissime, anziché abbandonarsi a quella mentalità, più prettamente postmoderna, che pone la rilettura (e riscrittura) della Storia come seconda all’immanenza e versatilità del presente, i cui caratteri sono qui avvertiti come non più commensurabili al passato. Se per Eliot v’è declino della civiltà (e lasciamo stare le cause storiche che particolarmente nel Regno Unito dovevano essere decisive), per Thomas v’è il presente, crudele e contraddittorio quanto si voglia, ma pur sempre imminente e unitario: l’uomo contemporaneo può proporsi nei limiti del nuovo status, modificarne le forme che sono alla sua portata, movendo questa o quella pedina della scacchiera del sociale, purché non se ne imbatta in una tanto resistente da restarne immota come la spada nella roccia. Questa caratteristica del pensiero di Thomas non è difficile constatarla percorrendo le fiumane e intrufolandosi nell’ombre dell’opera sua: nei Collected Poems 1934-1952 e nell’epistolario, e finanche nei racconti, la cui ironia ridanciana è pervasa di adombramenti chiaroscurali di nera memoria, ove realtà e fantasia si assottigliano finalmente nel giuoco, termine medio, questo, di una nuova logica rifondata. Del resto, a parte i nomi per altro memorabili dei suoi componenti, che vanno a collocarsi nel novero dei minori, il movimento imagista ebbe il fiato corto in questo secolo, e le sue spoglie, come tanti petali sull’acque tremule d’un laghetto in un caldo pomeriggio agostano, possono far da spunto, neppure dannunzianamente, all’ispirazione d’un qualche più consistente e deciso poeta d’oggigiorno.

Ma al di là di quella impostazione baumgartiana della poesia, vi fu chi, in questo secolo, si sforzò di rompere la sintassi, spezzettare e riciclare la parola, perderne completamente lo status (l’onomalingua dadaista), chi la volle immobile come un dipinto cubista di Braque o di Picasso e chi la volle lanciata nello spazio come fosse un Boccioni, con linee prospettiche irrefrenabili verso il futuro. Chi la volle pubblicitaria e chi clericale, e così potremmo dire senza difficoltà alcuna che questo modernismo impresse il proprio segno con tutta la forza di braccia che ebbe, senza che fosse tuttavia riconducibile a un canone unitario comune. Basterebbe sfogliare la raccolta dei componimenti poetici di un Ungaretti o di un Rebora, di un E. E. Cummings, di un William Carlos Williams o di un Auden, per rendersene conto. Fra "Dall’imagine tesa" e i Canti dell’infermità v'è un abisso, che pure la stessa mano, quella di Rebora, ha potuto valicare. Si dirà che là non premeva ancora così risoluto, così netto il richiamo della morte come qui fece, come per altri si possono distinguere due periodi spartiti dalla conversione a una qualche religione e accompagnati da due diversi modi di concepire la scrittura. Diciamo pure che la forma non solo si presta ai contenuti, ma viene altresì sforzata e rimodellata in questo secolo, e che alcune componenti di diverso intento s’assomigliano nella novità (emblematico può essere il parallelismo fra l’opere in versi di Sanguineti e di Zanzotto in Italia). Non è un caso il fatto che la poesia luziana e quella di Ted Hughes tendano sempre più a imporre una colloquialità, una forma quasi prosastica, ma subito negata dalla verticalizzazione, per subitanea o meno che sia, della scrittura (e la verticalizzazione è un’imposizione quasi coattiva di pause, una frammentarietà dell’enunciato che può essere recuperata alla frase): entrambi rappresentano quel lirismo di immagini e tensioni prosodiche che avvicina l’arte del poetare al cinema. L’interferenza dei nuovi media è inevitabile: fumetto, televisione, cinema. Arte e non arte di massa e del movimento (cinetica, appunto), consecutio iconarum (o imaginum) per eccellenza, raffinatezza dell’inquadratura, rappresentazione, infine, di mondi virtuali. La possibilità attuale della rappresentazione audiovisiva di immagini mentali di cui, un tempo, la letteratura aveva il monopolio (anche più delle arti figurative, se si considera la sequenza cronologica di quelle immagini) è il fatto nuovo, l’evento che condiziona tutte le altre arti, e quindi la poesia. Le condiziona e, nei casi migliori, ne potenzia le capacità espressive, per analogia, traduzione, prestito. Antecedente comune a Luzi e, immediatamente ravvisabile, a Hughes, può dirsi l’ultimo Dylan Thomas, quello non solo bibliograficamente ma ormai biograficamente maturo (1952) della raccolta di versi In Country Sleep, sebbene all’origine debba vedersi il Mallarmé di Un Coup de Dés jamais n’abolira le Hasard (del 1897), specialmente per gli ultimi esiti della poesia luziana, e a Thomas vada il premio di volontario mediatore fra quell'origine e quest'esito. Sarebbe del tutto fallace voler assumere atteggiamenti estremistici, pretendendo da un lato che dalla fine del secolo scorso a oggi vi sia un percorso di continuità entro un contesto invariato chiamato modernista, dall'altro volendo sottolineare a tutti i costi le differenze di contesto storico-culturale e tralasciare il percorso d'indagine della forma e dei contenuti che si sono riversati d'un periodo nell'altro. La parola di un componimento come "Over Sir John's hill" non rimanda a simbologie, ermetiche quanto si voglia, a cui rifarsi, ma è subito lì pronta, diretta, incisiva, con immagini sospese in un frangente intensificato, per poi lasciarsi seguitare e sostituire da altra immagine parimenti incisiva, in un moto continuo che vuole proporre innanzitutto la dinamica di un accadimento la cui testimonianza deve essere registrazione fedele il più possibile del fatto. Per testimoniarne l'epifania a Dylan Thomas non basta descrivere l'aspetto esteriore, obiettivo, dell'evento. Una epifania è sempre, almeno, anche un evento interiore. Lungi dall'essere nella forma di una vision blakiana, l'epifania di Thomas scaturisce dall'aver visto quelle cose. L'aspetto iniziatici di questa affermazione, da mistero eleusino, è però subito superata, come l'ermetismo peraltro, dal non esservi nulla di arcano né esotico nell'esperienza thomasiana. L'epifania consiste invece in un riconoscimento e in una immedesimazione di e in un evento che viene riproposto al lettore dal poeta. Metafora e simbolo emergono in superficie con ponderatezza, senza negare al testo la sua dinamica sensoriale semantica. A differenza dei primi componimenti poetici di Thomas, "Over Sir John's hill" ristabilisce un luogo quale contesto situazionale. La sospensione del tópos di molte liriche precedenti, o almeno il loro arduo riconoscimento, viene qui rigettato senz'altro per la maggiore abilità comunicativa del poeta gallese, senza nulla togliere alla forza delle immagini e alla musicalità del componimento. I due momenti estremi della poesia di Thomas, 18 Poems (1934) e In Country Sleep (1952), non differiscono che per la maggiore e minore chiarezza nell'introdurci in un contesto situazionale, in un luogo ove l'immaginazione e l'esperienza thomasiana prendono corpo. Se per la maggior parte dei componimenti di W. H. Auden può dirsi che la poesia ci parla direttamente, ci introduce in un luogo ove una situazione si manifesta e, all'interno di questa, una voce ne commenta i risvolti, ne giudica i caratteri, ne addita i paradossi e l'intrinseco valore sociale o individuale, la poesia di Thomas ci vuole dentro un mondo in cui pagina e realtà esterna alla pagina si fondono lasciando minuti spiragli al di fuori di essa.

Come nella letteratura e nelle arti figurative (o visive), la musica contemporanea non pare voler essere da meno, per intenti e risultati, almeno nei suoi esiti più prestigiosi. La forma polifonica delle opere di Berio è un esempio di lucidissima impostazione d'espressione del nostro tempo. Come in The Waste Land del 1922 Thomas Stearns Eliot si avvaleva di stilemi differenti, e toni e citazioni antichi e modernissimi, Luciano Berio ci presenta fin dalla fine degli anni Sessanta un capolavoro, Sinfonia, dai ritmi e dai rimandi di genere i più vari, che, contemporaneamente in moltitudini, ordiscono l'ordegno polifonico che ci resta caro nella memoria, tema per tema, motivo musicale per motivo musicale, e per la loro bellezza singolare e a sé stante, e perché la mente nostra pare incapace di comprenderli e immaginarseli come fossero all'unisono. Eppure, con Berio, siamo già in una consapevolezza postmoderna: che non è di scuola, ma d'era. V'è certo, e ciò anzi non ne esclude il carattere di postmodernità, un attaccamento al classico (e, si badi, non come forma o stile cui attingere): "Il titolo Sinfonia," scrive Berio,

non vuole suggerire analogie con la forma classica; va piuttosto inteso etimologicamente, come il suonare insieme di otto voci e strumenti oppure, in senso più generale, come il suonare insieme di cose, situazioni e significati diversi.
V'è lo sperimentalismo (o, più correttamente, la messa a frutto dei motivi ispiratori che lo sperimentalismo, particolarmente quello degli anni Sessanta, ha portato a maturazione), l'intertestualità e il carattere d'apertura alla multimedialità e allo sconfinamento delle arti. Come ci informa Berio:

Il testo della prima parte è costituito da una serie di brevissimi frammenti tratti da Le cru et le cuit di Claude Lévi-Strauss, in particolare, da quelle parti del libro dove l'autore analizza la struttura e la simbologia dei miti brasiliani sull'origine dell'acqua e di altri miti caratterizzati da somiglianze di struttura. La seconda parte di Sinfonia è un contributo alla memoria di Martin Luther King. Le otto voci si rimandano semplicemente i suoni che costituiscono il nome del martire negro fino all'enunciazione completa e intelligibile del suo nome. Il testo principale della terza parte è costituito da frammenti tratti da The Unnamable di Samuel Beckett, che generano a loro volta un gran numero di riferimenti e citazioni quotidiane.

E ancora (cosa che ci riguarda direttamente non solo per questa parentesi sulle differenze, per noi pertinenti, fra The Waste Land e Sinfonia, ma in modo del tutto particolare per ciò che concerne la critica, benevola o meno, che ha posto in legittimamente evidenza come la lirica di Dylan Thomas sia fortemente contraddistinta da certe ridondanze prosodiche che, a sostegno dell'intero tessuto espressivo e contenutistico, la accomunano alla scrittura musicale e cantabile) si voglia prestare attenzione alla proposizione di Berio secondo cui "l'esperienza stessa del quasi non capire" va considerata essenziale "alla natura stessa del procedimento musicale." In altri termini, la musica di Berio, pur avvalendosi del linguaggio verbale, lo fa rientrare non nella contabilità, poniamo, di un Lieder di Schubert o di un'opera lirica ottocentesca (che è poi la rappresentazione di una situazione o di una storia pur sempre drammatica), ma si trascini anzi la verbalità nell'antro ove eco strumentale e dicibilità della parola si fondono in un binomio in cui viene strozzato, spezzettato e trafugato un contenuto semantico originario di ben altro respiro. Esempi di frasi di senso compiuto in Sinfonia se ne hanno a bizzeffe, drammaticamente ne resta in piedi, anzi se ne aderge ad intervalli, solo quello di una delle voci parlanti all'audience. Come adempimento della funzione dell'artista, Thomas stesso si avvale della parola della lingua inglese rivoluzionandone le possibilità semantiche, tanto da renderla prosodicamente sensuosa e semanticamente quasi irraggiungibile. La differenza sostanziale che solca a fondo il confine fra The Waste Land e Sinfonia è proprio il carattere dell'ambiguità affascinante, lirica, del componimento musicale rispetto all'inconciliabilità degli stilemi nel continuum di The Waste Land. Il progetto è pressappoco lo stesso: avvalersi di precedenti (per Berio sarà anzitutto il Mahler della i) quali citazioni riproposte in contesti diversi; e se, per Berio, Lévi-Strauss e Beckett costituiscono i referenti letterari di cui servirsi, il ragtime, il Tristan und Isolde di Wagner, il London Bridge rappresentano la musica citata o imitata del testo letterario eliottiano. Con Sinfonia ciò che ci si offre è una conciliazione di elementi eterogenei, una loro pacifica convivenza, mentre per Eliot è la differenza, l'inconciliabilità (se non intellettuale) delle parti a farla da padrona. L'ansia che qualcuno vorrebbe avvertire in Sinfonia respira bassa, quasi impercettibile, ed è età dell'ansia di un'era già avviata –quella postindustriale– che non ha più molto in comune con il gelido consorzio degli esseri suggellato dall'intervento radiofonico di The Age of Anxiety di W. H. Auden, ove, per mantenere un parallelo con la musica d'inizio Novecento, e lo si prenda con le dovute cautele e un occhio lungo alle implicazioni, la serialità è lista.

È proprio questa ricerca della conciliabilità degli opposti (o dei diversi) a caratterizzare la lirica di Dylan Thomas. Egli ha piena coscienza dei caratteri oscuri della propria scrittura, di quella sorta di compressione delle immagini e dei concetti a cui torna difficile attribuire un senso. In una lettera del 1933 (l'anno precede quello della pubblicazione di 18 Poems, prima raccolta di versi del nostro, già ricca di tutte le suggestioni e quanto mai esemplificativa delle oscurità thomasiane), Thomas scriveva a Pamela H. Johnson:

Non v'è alcuna necessità per cui le grandi verità del mondo, e le più grandi variazioni di tali verità, dovrebbero essere così semplici da essere capite dalla mente più ingenua. Vi sono cose, e cose preziose, così complicate che anche colui il quale ne scrive non capisce cosa sta scrivendo.

Il punto è che l'oscurità di Thomas non gioca a dilaniare un mondo, ma a renderlo unitario in una conciliazione delle parti. È come se Dylan Thomas aggiungesse un commento a una situazione particolare o a una immaginazione facilmente oggettivabili nei loro caratteri essenziali. Ciò che ci resta è il commento, foss'anche testimoniale, d'un evento reale o fantastico che resta in parte ellittico. Il tono è alto, ed echeggia nelle liquide:

          I

     All all and all the dry worlds lever,
     Stage of the ice, the solid ocean,
     All from the oil, the pound of lava.
     City of spring, the governed flower,
     Turns in the earth that turns the ashen
     Towns around on a wheel of fire.

     […]

          III

     […]

     Square in these worlds the mortal circle.

     Flower, flower the people's fusion,
     O light in the zenith, the coupled bud,
     And the flame in the flesh's vision.
     Out of the sea, the drive of oil,
     Socket and grave, the brassy blood,
     Flower, flower, all all and all.



          I

     Su tutti tutto e tutti i mondi asciutti fanno leva,
     Stadio del ghiaccio, l'oceano solido,
     Tutto dal petrolio, il tonfo della lava.
     Città di primavera, il fiore governato,
     Ruota nella terra che rivolta le cittadine
     Cineree su una rotella di fuoco.

     […]

          III

     […]

     Squadrate in questi mondi il cerchio mortale.

     Fate fiorire, fate fiorire la fusione della gente,
     Oh luce per lo zenit, il germoglio accoppiato,
     E la fiamma nella visione della carne.
     Fuori dal mare, il viale petrolifero,
     Da orbita ossuta e sepolcro, il sangue sfacciato,
     Fate fiorire, fate fiorire, tutti, tutto e tutti.

La traduzione è di comodo, se ne potrebbero dare altrettante valide e insufficiente. Ma ciò che comunque ne costituisce il senso complessivo resta inalterato: esortazione a una presa di coscienza dell'intrinseca pacificazione fra gli elementi del mondo soggetti alle loro leggi di spazio e di tempo. Seppure gli accostamenti lessicali siano alquanto audaci (e la sintassi dubbia), è la loro conciliabilità nell'animo del poeta –e nell'unità formale del componimento– a determinare quell'assenza di disagio che altre eterotopie suggerimenti. Dico altre ma dovrei dire le, poiché sembra più proprio di questa forma dal verso regolare e dagli emistichi netti, strofica, puntualmente paronomastica (pararima), il senso di una convivenza possibile di elementi eterogenei che lo "Square in these worlds the mortal circle" pienamente conferma (al contrario del "Non chiederci la parola che squadri da ogni lato | l'animo nostro informe" di Montale e, ancora, la seconda sezione di "Notizie dall'Amiata", ove al paradigma della forma geometrica regolare del complesso architettonico corrisponde, in un suo inserimento nella natura, una direzionalità degli elementi che la costituiscono che rimanda all'ineffabilità del tutto non mitigata, ma accentuata, dall'esperienza umana: infinito, eterno v. transeunte, senso). La questione della differenza, della molteplicità del creato, diviene allora motivo predominante che attraversa le liriche thomasiane. Comunicazione e differenza come distanza: distanza di cose e di esseri viventi, distanza di sentimenti e distanza metafisica con l'altro o con un altro se stesso, distanza, ancora, dell'espressione artistica quale luogo (lontano, faticoso da raggiungere, dedaleo al suo interno, nei suoi variegati e imprevedibili recessi e interstizi) ove possa ancora ristabilirsi l'unione degli esseri e, finalmente, riavviarsi la comunicazione come preludio alla comunione delle genti. Scrive Ne Lo scambio simbolico e la morte (Feltrinelli, Milano 1979), il sociologo francese Jean Baudrillard scrive:

L'universalizzazione dell'Uomo si fa anch'essa al prezzo dell'esclusione di tutti gli altri (pazzi, bambini, ecc.) nella loro differenza. Quando l'Uomo si mette a somigliare all'Uomo, gli altri non somigliano più a niente. Definito come universalità, come referenza ideale, l'Umano, esattamente come dio, è propriamente inumano e delirante. Ciò che nemmeno dice Feuerbach è che questa operazione di rapimento, mediante la quale Dio capta l'uomo a proprio vantaggio, in modo tale che l'uomo non ne è più che il negativo esangue di dio, Dio stesso, per un ritorno di fiamma, ne rimane morto. E che anche l'Uomo sta per morire delle differenze umane (la pazzia, l'infanzia, i selvaggi) che egli ha istituito.
Secondo questa impostazione, per Thomas si tratterebbe di una presa di coscienza della differenza tra l'Umano e l'uomo del cristianesimo universale, che viene avvertito più come fede nell'esistenza di Dio della religione fondata che come unità dei fedeli nella precettistica di questa o quella Chiesa. In effetti è difficile attribuire a Thomas un credo riconducibile a un gruppo di praticanti. Dalla lettera del gennaio 1933 a Trevor Hughes:

Non esorto a un isolamento monastico, e a un assillo per i luoghi invisibili (vedi, anche il mio facile fluire di immagini consce di se stesse vien meno, ed io rimango con la parola 'luoghi' che è del tutto insufficiente). Questo è cattolicesimo romano. (Un giorno potrò diventare cattolico, ma non ancora). Devi vivere del mondo esterno, soffrire in esso e con esso, goderne i mutamenti, disperarti per essi, tirare avanti mediocremente con la routine del guadagno, innamorarti, accoppiarti e morire. Devi far questo. … Ti potrà sembrare strano da parte mia credere in questa filosofia –che, in effetti, è soltanto un lievissimo adattamento della religione cattolico romana. Di rado le mie poesie ne contengono qualcosa. Ecco perché non mi soddisfano. Sono quasi tutte le poesie esteriori. i tre quarti della letteratura mondiale concernono il mondo esterno. … Le più grandi opere d'arte sono forse quelle che conciliano, perfettamente, l'esteriore e l'interiore.

Così in Vision and Prayer, di parecchi anni posteriore alla lettera menzionata, il linguaggio apocalittico presenta figure che non corrispondono a quelle simboliche della seconda venuta di Cristo nell'Apocalisse di Giovanni, seppure di seconda venuta si tratti e, forze, di terza età della storia secondo il misticismo apocalittico di Gioacchino da Fiore. Diciamo piuttosto che lo stato del mondo, metafisico o fisico che esso sia, viene riproposto da Thomas con le immagini che di volta in volta gli paiono più suggestive, non che poi le abbandoni alla deriva, ma anzi v'è da parte sua un recupero e una coerenza di immagini all'interno del testo. Come per il riddle di cui scrive Northrop Frye in Spiritus Mundi, in Thomas manca la chiave di lettura che rimandi a tutti i referenti co-testuali (sinonimi co-testuali) e a quelli situazionali. Ma la lirica di thomasiana non si pone semplicemente come proprio scopo quello di suggerire delle caratteristiche di uno stato del mondo o di immagini mentali che possano apparire suggestive o bizzarre. Sostanzialmente il Thomas di Vision and Prayer non è né nell'ortodossia di un riddle di Frye, né in quella dell'indovinello di Giacomo Debenedetti; il primo è anzi, per il secondo dei due professori, una caratteristica dell'ermetismo italiano (e già del Simbolismo francese da Mallarmé in poi). Ha scritto Debenedetti:

La spiegazione di un indovinello è una sola. Invece quanto più ci si avvicina al verso ermetico, tanto meno la spiegazione diviene obbligatoria.

In alcuni casi, "essa lo diventa da quando è il poeta a darcela, a fissarla. Mallarmé invece non vuole che lo diventi." [10]

Ed è il poeta a darla e fissarla fuori del testo, "spiegando" l'ispirazione del suo componimento (come avviene, per esempio, il 10 febbraio 1938 in una lettera che Dylan Thomas indirizza a Hermann Peschmann). In Thomas va riscontrata invece una ispirazione religiosa nutritasi di immagini proprie e di figure recuperate dal testo biblico e da opere letterarie senza che quest'ultime abbiano una preminenza rispetto alle prime. L'unità è determinata dalla suggestione complessiva esercitata dalle immagini adoperate, tanto da vanificare il tentativo di leggere i simboli thomasiani come appartenenti a un sottocodice tradizionale preesistente. Il linguaggio di Thomas non si piega all'ortodossia di una mentalità collettiva o intellettuale, ma si sforza invece di non vagliare, in sede testimoniale, quegli elementi che spesso sfuggono alle maglie del linguaggio inteso come strumento della collettività o degli iniziati. Così facendo la lirica di Thomas si propone immediatamente come propria, pronta a mettere in discussione le verità, mutevoli, del proprio tempo (si veda, nella lettera a Pamela H. Johnson summenzionata, quel "le più grandi variazioni di tali verità"); e l'oscurità si dispiega egualmente dinanzi all'uomo comune e all'uomo di lettere, prescrivendo, quella poesia, l'uscita dal senso comune dell'uno e dell'altro, esorbitando dall'immediatezza della comunicazione e vanificando l'applicabilità spiccia dei canoni interpretativi della tradizione. Meglio che altrove, grazie ai due momenti della testimonianza e della preghiera, in Vision and Prayer l'oscurità del linguaggio riesce a esprimere l'indicibilità di una esperienza di per sé ineffabile e la sacralità di un linguaggio privato, esclusivo, che eleva il poeta a Dio in un rapporto ascensionale del primo verso il secondo, collocando il genere umano in un piano più basso ove può assumere, semmai, solo il ruolo di spettatore di una enunciazione paradossalmente glossolalica, fondata su una lingua inesistente ma i cui contenuti si dimostrano oralmente inaccessibili. Siccome la poesia del nostro si estende per un arco di poco più di vent'anni, a partire dai suoi diciotto all'ultima disastrosa bevuta al White Horse Tavern di Manhattan, e tenuto conto ch'egli sempre insistette sul fatto che tutti i temi della sua arte, tutte le motivazioni e gli intimi fermenti dovevano attribuirsi al periodo che va dall'infanzia alla prima giovinezza, non ci sembra ozioso rifarsi a un passo su Kipling (lettera a Pamela Hasford Johnson dell'ottobre[?] 1933), in cui Thomas esterna alcune considerazioni sulla società inglese di quegli anni:

Naturalmente, non le piace il suo [di Kipling] sventolar di bandiere, perché sa bene quanto me che il patriottismo è un inganno pubblicitario organizzato dagli azionisti degli armamenti in eccesso; sa che lo Union Jack è soltanto un perizoma nazionale per celare gli organi in putrefazione di un sistema sociale malato; sa che la grande Guerra è stata volutamente protratta affinché i finanzieri potessero guadagnare di più; che se non fosse stato per le azioni delle industrie degli armamenti la guerra sarebbe finita in tre settimane; che a un certo punto della guerra francesi e tedeschi si stavano bombardando a vicenda con munizioni fornite dalla stessa industria, un'industria nella quale ecclesiastici e uomini politici inglesi, ambasciatori francesi e uomini d'affari tedeschi avevano investito tutti grosse somme di denaro; che Kipling, riformato dall'esercito a causa del suo fisico gracile, è ciononostante un militarista del tipo: 'Ho dato mio figlio'; che il paese da lui lodato ed elogiato è un paese che appoggia un sistema in seguito al quale gli uomini muoiono di fame, e pesce, frumento, e caffè vengono bruciati a centinaia di tonnellate; un sistema in seguito al quale agli uomini non è consentito lavorare, sposarsi, avere figli; in seguito al quale ogni anno vengono portati alla pazzia; in seguito al quale i bambini nascono scrofolosi; in seguito al quale alla chiesa è permesso impedire la prevenzione delle malattie sessuali; un sistema così giusto che un uomo viene arrestato il giorno di Natale per rate scoperte, mentre la moglie aspetta un bambino e i suoi figli stanno morendo di febbre tifoidea dovuta all'aver ingerito pesce guasto fornito da un commerciante profittatore. Puah. Inghilterra, mia Inghilterra. E Kipling continua a dimenarsi per essa, ed è più facile corrompere un uomo politico di quanto lo sia corrompere un venditore ambulante di frutta.

E poco prima, nella stessa lettera, Thomas dichiara di leggere, appena alzato, "le cronache dei processi penali a pagina tre con somma considerazione . . . tutte le notizie sugli stupri, le frodi e gli assassini." E ancora, "odio il sistema sociale che sta portando alla sodomia" l'umanità. Si apre così una parentesi sul pensiero di Thomas che sfugge a chi ne conosca soltanto l'opera in versi. In effetti, a parte rare eccezioni, quello che Thomas chiamava "mondo interno" prevale su quello esterno, né si vede, se non a sprazzi, come i due mondi possano conciliarsi. Da un lato v'è in lui la consapevolezza dello stato sociale presente, dall'altro il rifiuto di tale condizione del genere umano. Se in Vision and Prayer alcuni passi possono considerarsi (una volta sciolti i nodi solubili delle ambiguità) moralistici, se non vuoti di interesse per noi, dato l'apparente rimando a un cristianesimo condannatorio, alla luce del seguente passo, ci si fa più chiaro quale cristianesimo il nostro potesse concepire. L'estratto è dalla lettera dell'autunno 1933 a Pamela Hansford Johnson:

Le leggi medievali di questo emisfero corrotto hanno imposto una verginità più o meno obbligatoria durante il periodo della vita in cui la verginità dovrebbe essere considerata un reato contro i dettami del corpo. Durante l'adolescenza, quando il sangue e il seme della carne che cresce necessitano, per la prima volta e come non mai, di comunione e contatto con il sangue e il seme di un'altra carne, i rapporti sessuali sono considerati inutili o impuri. Il corpo deve essere mantenuto intatto per il matrimonio, che di rado è possibile prima dell'età di vent'anni; la manifestazione fisica del sesso deve essere ingabbiata per sei o più anni finché, per il costo di un anello, di una licenza, e di alcune parole imbarazzanti, l'occasione viene offerta con tutto il cerimoniale di una religione fallica. Ma molto spesso l'occasione si presenta troppo tardi, il seme è inacidito, l'amore si è trasmutato in lussuria, e la lussuria in sadismo; la mente è stata coperta e soffocata dalle erbacce dell'inibizione; e l'unione di due creature affamate, cui viene consentita a un tratto la latitudine dei sessi, è condannata sin dall'inizio. … Non soltanto ma le loro manifestazioni sessuali dovrebbero essere incoraggiate.

Altrove lo sforzo di vedere il mondo innanzitutto coi propri occhi e sentirlo nei propri rapimenti senza troppo preoccuparsi dell'intelligibilità dell'espressione poetica, quel metter su forme rituali che nulla hanno a che fare con questa o quella etnia, altro non è (e non è poco) che un porre in discussione, implicitamente, da dentro (dentro l'uomo e all'interno dei meccanismi della poesia), le categorie e i parametri a cui l'uomo occidentale fa riferimento per non perdersi alla deriva del proprio divenire. In questo senso, nella conciliazione non solo degli opposti ma dell'eterogeneità del mondo, la poesia di Thomas celebra e testimonia il perduto e il desiderato, in una unità formale che farebbe eco in qualunque contesto storico. Potremmo dire che la poesia oscura di Thomas è il lume di una lucciola nel buio, si muove nella giungla d'asfalto del sociale ed echeggia con le proprie intermittenze nel cassonetto di una cellula fotoelettrica illuminando a sprazzi inusitati la città e il mondo. Il perduto sotto le acque del diluvio nello "Author's Prologue" dei Collected Poems 1934-1952 si intravede confuso, come nel secondo dopoguerra i paesini prendono l'aspetto sempre più inumano delle megalopoli, seppure in modo frammentario tanto da risultare degli spettri non deambulanti di se stessi. Il desiderato è una spinta verso quello che forse sarebbe stato per Thomas impossibile realizzare. V'è certo un'umanizzazione sempre più evidente nella lirica di thomasiana col montare degli anni, a cui si associa una comunicazione più diretta dei contenuti del suo pensiero. Il desiderato si verbalizza allora nel suggerimento, nel consiglio, nell'augurio. La poesia diviene sempre più il mezzo di un vivente (il poeta) per i viventi, la riflessione prendendo a proprie fondamenta lo stato del mondo e a questo aggiungendovi suggestioni simboliche più funzionali, immagini mentali più suggestive e oggettivabili ("Fern Hill", "In country sleep", "Over Sir John's hill", "In the white giant's thigh". Ma la fantasia, l'estro di Thomas, la sua forte carica evocativa, l'associazione lessicale originale o bizzarra (così come la sintassi), non vanno perduti, ma ne vengono anzi evidenziati i pregi. La poesia è il mezzo di sopravvivenza di un passato sopraffatto, mezzo di comunicazione del presente, voce augurale che anticipa il futuro. Eppure, se per Thomas la poesia è più duratura della zia Ann ("After the funeral"), non può però sfuggire al destino di mutabilità del suo senso e al suo universale decadimento:

     At poor peace I sing
     To you strangers (though song
     Is a burning and crested act,
     The fire of birds in
     The world's turning wood,
     For my sawn, splay sounds),
     Out of these seathumbed leaves
     That will fly and fall
     Like leaves of trees and as soon
     Crumble and undie
     Into the dogdayed night.

     In pace povera canto
     A voi stranieri (benché la canzone
     Sia un gesto crestato bruciante,
     Incendio di uccelli nel
     Bosco rotante del mondo,
     Per i miei suoni aperti e segati).
     Da questi fogli diteggiati dal mare
     Che voleranno e cadranno
     Come foglie di alberi e altrettanto presto
     Si sbricioleranno e de-moriranno
     Entrando nella notte canicolare.

Come suona un passo dello "Author's Prologue". Il che, grosso modo, significherebbe (il condizionale è d'obbligo per almeno altre due interpretazioni che potrebbero esser tenute in conto) che l'opera poetica verrà distrutta ("crumble") come qualunque cosa creata da Dio ("leaves" vale come exemplum), ma il suo contenuto di verità dopo quella distruzione non potrà più perire:

     [...] undie
     Into the dogdayed night.

Grande contributo di Thomas è aver posto l'accento sulla individualità che va alla deriva, sull'uomo che si deriva, nietzschianamente, in una società in cu tutto si fa sempre più difficilmente uguale a se stesso e impermeabile. Questa condizione viene descritta da Jean Baudrillard in La trasparenza del male (Sugarco, Milano 1991):

La possibilità della metafora svanisce in tutti i campi. Questo è un aspetto della transessualità generale che si estende ben al di là del sesso – a tutte le discipline, nella misura in cui esse perdono il loro carattere specifico ed entrano in un processo di confusione e di contagio, in un processo virale di in distinzione che è l'evento primo di tutti i nostri eventi. L'economia divenuta transeconomia, l'estetica divenuta transestetica, il sesso divenuto transessuale, convergono tutti in un processo trasversale e universale dove nessun discorso potrebbe più essere la metafora dell'altro, giacché, perché ci sia metafora, occorre che ci siano dei campi differenziali e degli oggetti distinti. Ora, la contaminazione di tutte le discipline mette fine a questa possibilità. Metonimia totale, virale per definizione (o per in definizione).

"Man be my metaphor" ("L'uomo sia la mia metafora") concludeva il Thomas di "If I were tickled by the rub of love" (in 18 Poems), stringendo sull'uomo la metafora dell'io in un periodo antecedente Vision and Prayer. L'uomo thomasiano, nel suo avvicinamento massimo all'io lirico, si perde completamente nel tutto. Un urlo estremo, risonante solo di sé, sospeso nel vuoto del mondo. È l'uomo che perde Dio per ritrovarlo e riperderlo, come spesso capita di scorgere fra le pagine di Thomas. Ma è specialmente, con Vattimo, una manifestazione caratterizzata

dal "pathos dell'autenticità"; cioè, in termini nietzschiani, dalla resistenza del compiersi del nichilismo
poiché

nichilismo significa qui ciò che esso significa per Nietzsche nell'appunto che sta all'inizio della vecchia edizione del Wille zur Macht: la situazione nella quale l'uomo rotola via dal centro verso la X. (Gianni Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, Milano 1985).
Il mondo dell'immaginazione e della testimonianza di Thomas vengono assunto oggi da tutta un'arte di montaggio e di smontaggio che trova nella sequenza di immagini del Gaudente di Ted Hughes uno dei punti d'arrivo più prestigiosi e nel Moortown uno degli esempi di maggiore contrazione dell'immagine con il maggiore risultato espressivo e visivo. La parola di Thomas non è allora solo nella direzione d'una repulsione del mondo contemporaneo, ma viene da questo ricevuta e inglobata con facilità sconcertante. Il suo tutto unire viene a essere pienamente assorbito senza, forse, che neppure gli autori contemporanei ne abbiano la consapevolezza. Quando realtà e pagina si assomigliano, come nel finale de Il cavaliere inesistente di Italo Calvino, si può dire che il secolo di Eliot, sommo maestro d'intuizione e giudizio, s'è fatto un po' da parte. Alla sua ironia, spietata, ha preso il posto un'ironia in cui la contraddizione, come dicevamo, non allontana ma accomuna. Ancora, con Baudrillard de La trasparenza del male, diremo che:

D'altra parte è la sola funzione intellettuale vera e propria quella che usa la contraddizione, l'ironia, il contropiede, la falla, la reversibilità, che sempre disobbedirà alla legge e all'evidenza. E se oggi gli intellettuali non hanno più niente da dire, il fatto è che questa funzione ironica è loro sfuggita perché si mantengono sul terreno della coscienza morale, politica e filosofica, mentre il gioco è cambiato e tutta l'ironia, tutta la critica radicale è passata dalla parte dell'aleatorio, della virulenza, della catastrofe, del ribaltamento accidentale o sistematico – nuova regola del gioco, principio di incertezza che oggi regna su qualunque cosa, e fonte di un piacere intellettuale intenso (senza dubbio addirittura un piacere spirituale).

Ma, per chiudere questa breve parentesi sulla lirica di Dylan Thomas, ascoltiamo mentre canta l'amore e pensiamo ai nostri amanti o a quelli di ieri, e immaginiamo, trasognati o impavidi, quali mai possano entrare nelle nostre vite e rimuoverne i traffici o ribadirli a quattro mani. Ascoltiamo l'amore cantato e la metafora, in un tempo in cui la metafora ha preso sempre più il posto della similitudine e fantasia e realtà giocano a scambiarsi moduli e moduli, e la critica s'aggiunge alla critica, e le luci si accendono, e la pagina, la nostra voce, s'affievolisce, tace:

                          Love in the Asylum


                          A stranger has come
     To share my room in the house not right in the head,
                          A girl mad as birds

     Bolting the night of the door with her arm her plume.
                          Strait in the mazed bed
     She deludes the heaven-proof house with entering clouds

     Yet she deludes with walking the nightmarish room,
                          At large as the dead,
     Or rides the imagined oceans of the male wards.

                          She has come possessed
     Who admits the delusive light through the bouncing wall,
                          Possessed by the skies

     She sleeps in the narrow trough yet she walks the dust
                          Yet raves at her will
     On the madhouse boards worn thin by my walking tears.

     And taken by light in her arms at long and dear last
                          I may without fail
     Suffer the first vision that set fire to the stars.



                          Amore in sanatorio


                          Una sconosciuta è venuta
     A condividere la mia stanza nella casa non proprio a posto di testa,
                          Una ragazza matta come gli uccelli

     Che sbarra la notte della porta con il suo braccio la sua piuma.
                          Ristretta nel letto confuso
     Lei elude la stanza impermeabile ai paradisi con nuvole entranti

     Ma lei elude passeggiando nella stanza da incubi,
                          Scatenata come i morti,
     O naviga gli oceani immaginati dei reparti maschili.

                          È venuta posseduta
     Colei che fa entrare la luce elusiva attraverso il muro respingente,
                          Posseduta dai cieli

     Lei dorme nel trogolo stretto ma passeggia sulla polvere
                          Ma dà di matto come vuole
     Sulle assi del manicomio assottigliate dalle mie lacrime ambulanti.

     E alla lunga e alla cara fine io, preso dalla luce,
                          È certo che posso
     Sostenere la prima visione che diede fuoco alle stelle.

[pubblicato in: Praz!. Arte e letteratura I, n. 1, giugno 1994, pp. 31-43.]



Bibliografia: 
  • Baudrillard, Jean, La trasparenza del male, Sugarco, Milano 1991.
  • --, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 1979.
  • Debenedetti, Giacomo, Il romanzo del Novecento. Quaderni inediti, Garzanti, Milano 1976.
  • Frye, Northrop, Spiritus Mundi: Essays on Literature, Myth, and Society, Indiana UP, Bloomington 1976.
  • Jiménez, Juan Ramón, Le opere, UTET, Torino 1967. 
  • Melchiori, Giorgio, «La poesia visionaria di Dylan Thomas», in Id., I funamboli. Il manierismo nella letteratura inglese da Joyce ai giovani arrabbiati, Einaudi, Torino 1974, pp. 271-302.
  • Russell, Charles, Da Rimbaud ai postmoderni. Poeti, profeti e rivoluzionari, Einaudi, Torino 1989.
  • Sanesi, Roberto, Dylan Thomas, Garzanti, Milano 1977.
  • Thomas, Dylan, Collected Poems 1934-1952, New Directions, New York 1971.
  • --, Poesie, Einaudi, Torino 1965.
  • --, Ritratto del poeta attraverso le lettere, Einaudi, Torino 1970. A cura di Constantine FitzGibbon.
  • Vattimo, Gianni, La fine della modernità, Garzanti, Milano 1985.
Su internet:


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