Bruno Moroncini (Napoli, 1946) ha insegnato Filosofia morale, Antropologia filosofica e Psicologia clinica nelle Università di Messina e Salerno. Per Cronopio ha pubblicato: Mondo e senso. Heidegger e Celan (1998); La comunità e l’invenzione (2001); Sull’amore. Jacques Lacan e il Simposio di Platone (2005, II ed. 2010); con Rossana Petrillo, L’etica del desiderio. Un commentario del seminario di Jacques Lacan (2007); Walter Benjamin e la moralità del moderno (2009); Gli amici non si danno del tu (2011); Lacan politico (2014), Perdono giustizia crudeltà. Figure dell’indecostruibile in Jacques Derrida (2016). L’ultimo suo lavoro, pretesto del nostro incontro, s’intitola: La morte del poeta. Potere e storia d’Italia in Pier Paolo Pasolini (edito sempre da Cronopio).
Doriano Fasoli: Professor Moroncini, quando Pasolini avverte per la prima volta che i tentacoli del potere si stanno insinuando in lui?
Bruno Moroncini: Non saprei datare con assoluta precisione il momento in cui Pasolini si rende conto di essere anche lui parte, sebbene in un modo periferico, del potere, né so se ciò sia possibile di per sé. Quel che è certo è che da un certo punto in poi, verso la fine degli anni ’60, forse per la notorietà procuratagli dal cinema, Pasolini incomincia ad avvertire che la gente intorno a lui lo considera un uomo di potere. È lui stesso a darne testimonianza: in un articolo del giugno del 1969, intitolato «Travestiti da poveri», racconta una sua esperienza accadutagli in Turchia dove si è recato per girare alcune scene di Medea. Il sindaco della cittadina dove si trova, accortosi della sua presenza ad una rappresentazione teatrale, lo tratta con grande deferenza, lo fa sedere in un posto d’onore del teatro all’aperto, insomma fa gli onori di casa all’ospite famoso. Pasolini si interroga allora su due cose: sul fatto che anche lui è trattato come una persona importante, di potere, e che il povero sindaco della cittadina turca soggiace al fascino che promana dal potere. Il punto è che questo fascino lo prova anche Pasolini che lo confessa nello stesso articolo ricordando l’emozione intensa e sconvolgente che ha provato all’apparizione in un film di Miklós Jancsó di un gruppo di ufficiali ungheresi a cavallo che incarnavano ai suoi occhi la forma più estrema del potere, quella della possibilità di infliggere la morte. Ne era totalmente affascinato. Credo che da queste esperienze nasca la riflessione sul potere che occupa l’ultimo Pasolini e che in esse siano presenti in nuce anche le tesi della abiura della Trilogia della vita.