Medico chirurgo, specialista in psichiatra, psicoanalista, Rita Corsa è
membro ordinario della Società Psicoanalitica Italiana e dell’International
Psychoanalytical Association. Già professore a contratto di Clinica
psichiatrica all'Università degli Studi di Milano (dal 1996 al 2003) e
all'Università di Milano-Bicocca (dal 2004 al 2012), è collaboratrice
dell'Osservatorio Nazionale sulla Violenza Domestica, presso l'Università di
Verona. Ha diretto servizi psichiatrici pubblici e si è occupata di formazione
del personale psicologico e psichiatrico (dal 1987 al 2008). Ha scritto oltre
110 articoli su riviste specialistiche nazionali ed estere, occupandosi in
particolare di storia della psichiatria, di patologia grave in adolescenza, di
patologia mentale correlata all’identità di genere e di questioni d’interesse
psichiatrico e criminologico. Su questi temi ha scritto inoltre diversi
capitoli in volumi collettivi (Cedam, 1999, 2006 e 2013; Utet, 2005; ONVD,
2010, 2012 e 2013). Nel 2004 ha curato il libro Il dolore psicotico nella donna depressa (Pacini). Si è
occupata di consenso informato in psichiatria e, insieme a medici legali e a
giuristi, del diritto a non soffrire in medicina, intervenendo con alcuni saggi
in libri e trattati collettanei (Cedam, 2004 e 2005; Utet, 2006 e 2009). In
ambito psicoanalitico, s’interessa specialmente di storia della psicoanalisi,
del rapporto mente/corpo, del transgenerazionale somatico e della psicoanalisi
applicata all’arte. Su questi argomenti ha pubblicato numerosi capitoli in
testi collettanei (tra i più recenti: Carocci, 2004; Editoriale Lloyd, 2004;
Moretti & Vitali, 2006; Franco Angeli, 2006; Vivarium, 2008; ETS, 2008,
2011, 2012 e 2013; Felici, 2010; Alpes, 2014). Nel 2012 ha redatto la voce «Luciana
Nissim» per il Dizionario biografico
degli italiani (Treccani). Nel 2011 ha scritto la monografia Se la cura si ammala. La caducità
dell’analista (Kolbe). Nel 2012 ha curato, insieme a Gabbriellini, il
volume Corpo, generazioni e destino
(Borla). Nel 2013 ha scritto il libro Edoardo Weiss a Trieste con Freud. Alle origini della psicoanalisi italiana (Alpes)
e successivamente, presso lo stesso editore, ha pubblicato il volume realizzato
con Monterosa, Limite è speranza. Lo
psicoanalista ferito e i suoi orizzonti. Vive e lavora tra Bergamo e
Milano.
Doriano Fasoli: Dottoressa Corsa,
ci siamo conosciuti un paio d’anni fa, in occasione della stampa di Limite è Speranza. Lo psicoanalista ferito e i suoi orizzonti, scritto con
Lucia Monterosa, dove provavi a
destreggiarti nel ginepraio di emozioni che invade la stanza d’analisi quando
il terapeuta si ammala. Si trattava di un saggio di carattere essenzialmente
clinico, mentre oggi ci presenti un volume di tutt’altro tenore. Come nasce il
tuo libro storico, Vanda Shrenger Weiss. La prima psicoanalista in Italia, appena pubblicato ancora dall’editore Alpes?
Rita Corsa: Come già ti accennavo, nutro una grande
passione per l’indagine storica, centrata specialmente sull’epoca mitica dei
precursori. Una passione che mi ha spinto a scandagliare gli archivi di mezzo
mondo alla ricerca delle antiche impronte della mia disciplina, lasciate su documenti
ingialliti e tarlati dal tempo e dalla memoria. Un’opera di paziente setaccio delle fonti. Il metodo che amo adottare nelle mie ricostruzioni storiche, infatti, è
quello che si avvale dell’analisi di materiale archivistico originale,
preferibilmente inedito, che poi cerco di interpretare.
Quali
sono le criticità con cui lo storico della psicoanalisi si scontra?
La questione cruciale, che lo studioso di storia della psicoanalisi non può eludere, è che
quest’ultima pare irriducibile a un modello storiografico basato esclusivamente
sui testi, i diari, gli epistolari, i resoconti biografici. I soli documenti
non dicono nulla sull’argomento principale della psicoanalisi, cioè i processi
inconsci. Di converso, l’affidarsi esclusivamente all’archivio interno, al
registro della memoria, trasforma la storiografia in una trasmissione orale di
un mito, che finisce col trasfigurarsi in una sorta di mythologhein, del tutto svincolato dal fatto provato. La narrazione
della nascita e dell’iniziale diffusione della scienza freudiana ha patito
duramente del processo di rimodellamento dei ricordi in base a dinamismi
inconsci del tutto arbitrari e non sostenuti da verifiche documentali. Il maneggiare vecchi fascicoli ammuffiti può, inevitabilmente,
condurre l’investigatore a scovare qualche traccia di verità, capace di
scalfire convinzioni radicate, di frantumare certezze considerate inalienabili.
Per tutto ciò, l’esplorazione dell’epoca pionieristica della mia disciplina si
è ben presto rivelata un’avventura entusiasmante, ricchissima di sorprese.
Dopo Edoardo Weiss a Trieste con Freud (sempre pubblicato per la collana «I territori della psiche» della Alpes, 2013), dove delineavi la persona e l’opera del grande pioniere triestino, adesso presenti Vanda Shrenger Weiss. La prima psicoanalista in Italia, una figura sinora sconosciuta. Come l’hai scoperta?
Dopo Edoardo Weiss a Trieste con Freud (sempre pubblicato per la collana «I territori della psiche» della Alpes, 2013), dove delineavi la persona e l’opera del grande pioniere triestino, adesso presenti Vanda Shrenger Weiss. La prima psicoanalista in Italia, una figura sinora sconosciuta. Come l’hai scoperta?
L’incontro con la
figura di Vanda Shrenger Weiss è avvenuto quasi per caso, proprio mentre
approfondivo lo studio del marito, Edoardo Weiss, per preparare il volume che
hai appena menzionato. Una lettera inedita catturò la mia attenzione con
folgorante intensità. Si trattava di un’epistola dell’aprile 1931, inviata da
Vanda a Paul Federn, l’ex analista di Edoardo che, nel tempo, sarebbe diventato
un amico intimo e un imprescindibile interlocutore scientifico per ambedue i
coniugi Weiss. In questa missiva, Vanda tentava di rassicurare il caro Federn
riguardo allo stato di salute di Edoardo, profondamente provato dai tanti
ostacoli incontrati nel divulgare la psicoanalisi nella penisola. Nelle ferme,
calde e competenti parole della donna ho sentito non solo la voce di una
compagna che, con grande affetto, stava accanto al suo uomo, ma anche quella di
una professionista che sapeva maneggiare il dolore psichico. E così ho
cominciato a interessarmi a questa donna, totalmente trascurata dalla storia
del nostro movimento. Mi son trovata a scoperchiare un vero e proprio vaso di
Pandora, da cui è uscito tanto dolore, ma pure tanta vitalità.
Dove hai reperito le informazioni per questo tuo studio?
Non è stato facile trovare il materiale che mi permettesse di dare forma a
tale personaggio, dagli storici sbrigativamente etichettato come «la consorte
di Edoardo Weiss», medico e pediatra. Un’identità
femminile ridotta a un’unica funzione, quella muliebre, completamente oscurata
dall’imponente ombra del marito. Non avrei potuto ricollocare questa grande
professionista nella posizione che le spetta nella storia del movimento
freudiano, senza l’aiuto dei figli ancora viventi dei Weiss e, specialmente,
della figlia adottiva, Marianna Shrenger Weiss, che dagli Stati Uniti mi ha
messo a disposizione la maggior parte delle informazioni, dei ricordi, delle
testimonianze storiche e della documentazione clinica che stanno alla base del
mio studio. La vicenda che racconta dell’adozione da parte dei coniugi Weiss di
Marianna si intreccia in maniera indissolubile con i momenti più penosi vissuti
dagli ebrei croati durante il secondo conflitto mondiale. Un dolente cammino
nel grande buio del secolo breve.
Chi era, allora,
Vanda Shrenger Weiss?
In gran sintesi, Vanda Shrenger Weiss, proveniente da una famiglia croata
d’estrazione ebraica, fu una delle prime donne a laurearsi in medicina a Vienna
(1917), dove seguì insieme all’amato Edoardo, conosciuto nelle aule
universitarie, le lezioni di Sigmund Freud. Nel 1917 Vanda e Edoardo si unirono
in matrimonio e, nel 1918, nacque il loro primogenito, Emilio. Alla fine della
prima guerra, i due si trasferirono a Trieste, la città natale di Edoardo, il
quale si impiegò come psichiatra nel frenocomio locale, mentre Vanda trovò
lavoro in qualità di pediatra. Ambedue cominciarono a spendersi a favore della
psicoanalisi, incontrando mille difficoltà nel mondo medico e accademico
triestino. Nel 1928 vide la luce il loro secondogenito, Guido. Nel 1931 la
giovane famiglia lasciò Trieste per Roma, nella speranza di propagandare e di
farvi attecchire la scienza freudiana. Vanda fu un’assoluta antesignana: è
stata l’unica donna a far parte dell’originario gruppo di psicoanalisti
italiani e la prima a praticare la psicoanalisi nel nostro Paese – dove si era
formata con Margarete Ruben, un’analista della Società psicoanalitica berlinese
migrata in Italia nella prima metà degli anni Trenta, e con Ernst Bernhard, il
medico tedesco, che dopo aver svolto un training “ortodosso” con Radó e
Fenichel, si sottopose a diverse tranche analitiche
junghiane e divenne analista junghiano. Vanda è stata, inoltre, la prima
psicoanalista a pubblicare un proprio articolo sulla Rivista Italiana di Psicoanalisi e a discutere un suo lavoro nelle
serate scientifiche della Società Psicoanalitica Italiana (1932). E ancora, questa
studiosa è stata la prima pediatra nella penisola a rivolgere uno sguardo
analitico ai pazienti in età evolutiva.
Sembri intensamente
catturata da questa figura di donna…
Sì, una vera e propria fascinazione, la mia, che mano a mano è diventata
una sorta di missione. Quella di far luce sulla sua vicenda umana e scientifica
e di assegnarle il ruolo che le spetta nella galleria dei maestri e dei
pionieri. Vanda fu una donna generosa e coraggiosa, in continuo transito tra
due mondi: fra la Croazia, sua terra natale, e l’Italia, dove visse per circa
vent’anni con Edoardo e i loro figli; fra l’amata Europa e l’America, dove
riparò con la famiglia alla fine degli anni Trenta in seguito alle leggi
razziali (1938); fra il movimento freudiano e quello junghiano, cui poi aderì e
per il quale si adoperò attivamente negli Stati Uniti. I suoi articoli italiani
e i suoi scritti americani – da me tradotti per la prima volta e riportati
integralmente nel libro – sono un
originalissimo esempio di saggistica psicoanalitica “al femminile”. Una vivida
testimonianza del suo talento clinico e del suo raffinato pensiero teorico.
Come furono gli
anni romani dalla famiglia Weiss?
I Weiss rimasero nella capitale dal 1931 al 1938, quando dovettero
espatriare oltreoceano a causa delle persecuzioni razziali. Furono anni molto
fecondi per la psicoanalisi italiana, che prese piede a Roma e si affermò in
ambito medico e culturale. Il libro tratteggia un vivace affresco – in certi
passaggi del tutto inedito – della rinascita romana della Società
Psicoanalitica Italiana e della Rivista
Italiana di Psicoanalisi. Vi narro le vicende dell’adesione e i contributi
scientifici dei soci originari, tra i quali si scoprono nomi poco noti – come
quelli di Giovanni Dalma, Ettore Rieti, Ferruccio Banissoni – e altri
decisamente più illustri, come Cesare Musatti, Nicola Perrotti, Emilio
Servadio, che avrebbero fatto la storia del movimento psicoanalitico nel
secondo dopoguerra. Fra le altre ho delineato la figura di Dalma, un medico
ebreo istriano, e, soprattutto, quella di Ferruccio Banissoni. Quest’ultimo avrebbe
percorso una brillante carriera accademica, senza dubbio favorita da una totale
fedeltà al fascismo, tale da indurlo a sostenerne pubblicamente la svolta
razzista e a farsi sodale di Padre Agostino Gemelli, un nemico giurato della
scienza freudiana. Aspetti oscuri, accantonati e obliati come tanti altri nelle
dinamiche di rimozione che segnarono la società italiana del dopoguerra.
Quali erano i
rapporti tra la novella scienza e il regime fascista?
Questo è un tema assai dibattuto e controverso, su cui è già stato scritto
molto e che, non di rado, si preferisce eludere. Lo scenario dove si svolse la
febbrile attività propagandistica del pensiero freudiano era la Roma del periodo
fascista, alla vigilia del secondo conflitto mondiale. Nel mio libro, oltre a
ripercorrere il già noto, mi concedo di sviluppare la questione da
un’angolatura inedita, grazie specialmente alla lettura della corrispondenza
tra Edoardo Weiss e il suo ex analista viennese, Paul Federn, e con lo stesso
Sigmund Freud. Edoardo Weiss ebbe in
analisi per molti anni Concetta, la figlia di Giovacchino Forzano, giornalista,
editorialista e scrittore di straordinaria fama e d’importantissime entrature
culturali e politiche durante il ventennio. Egli fu il cantore ufficiale del regime e il drammaturgo
di corte. Ho indugiato sulla vicenda clinica di Concetta, esaminata
dettagliatamente sul versante analitico ma anche su quello politico. La cura di
questa giovane isterica rivestiva un significato istituzionale cruciale per il
movimento psicoanalitico italiano: Concetta era una paziente molto impegnativa,
ma era anche un’importante intermediaria tra Weiss e il padre di lei, uomo di
grande ascendenza sul Duce. Forzano intervenne ripetutamente a sostegno della
causa psicoanalitica e, grazie alla sua intercessione, nel giugno 1935 Edoardo
Weiss riuscì a farsi ricevere da Galeazzo Ciano, appena nominato Ministro della
Stampa e Propaganda. L’incontro ebbe
invero delle immediate ricadute positive sull’editoria psicoanalitica, tanto
che il periodico Biblioteca
Psicoanalitica Internazionale. Serie Italiana continuò a pubblicare saggi
di psicoanalisi sino al 1936, quando dovette comunque interrompere le attività.
Quale era allora
la posizione della Chiesa cattolica nei riguardi della psicoanalisi?
La posizione delle gerarchie ecclesiastiche era improntata a profonda diffidenza
e ostilità. Insomma, la Chiesa cattolica era ben lontana dalle attuali
aperture, che vedono addirittura il Santo Padre confessare un’esperienza
psicoterapica giovanile con una terapeuta ebrea! Allora i tempi erano funesti.
Già nel 1934, in seguito soprattutto alla censura delle alte sfere
dell’ufficialità cattolica e ai durissimi attacchi dell’élite culturale gentiliana e crociana, la Rivista Italiana di Psicoanalisi dovette chiudere i battenti. Furono
certamente queste le forze ad agire in modo decisivo, mentre le autorità
fasciste – come del resto era tipico del loro confuso e ondivago apparato
ideologico – almeno sino a un certo punto non manifestarono pregiudiziale
ostilità verso la Società Psicoanalitica,
né il regime dimostrò particolare efficienza nella farraginosa sorveglianza
sulle attività dei suoi membri.
Alla fine, che ne
fu della Società Psicoanalitica Italiana?
Ben presto il
clima mutò drammaticamente. Mentre le minacce di guerra si facevano più
concrete, la promulgazione delle leggi razziali del 1938 privò dei diritti
civili i cittadini di ascendenza giudaica. Gli psicoanalisti italiani, quasi
tutti d’origine ebraica, furono costretti a nascondersi o a espatriare. I
coniugi Weiss migrarono a Topeka, una cittadina nel cuore degli Stati Uniti,
dove Edoardo aveva trovato un posto di psicoanalista alla Menninger Clinic e dove Vanda riprese a praticare la
psicoanalisi. Così ebbe termine la prima stagione del movimento psicoanalitico
italiano. Dai primi mesi
del 1939 sino a tutto il 1945, nella penisola non si parlò praticamente più di
psicoanalisi. I tre o quattro analisti rimasti trattarono sporadicamente
qualche paziente, ma rimasero isolati dal movimento psicoanalitico mondiale.
I primi accenni di
risveglio della disciplina si ebbero subito dopo la Liberazione. Ma questa è
un’altra storia.
Quali furono le
vicende dei Weiss, dopo la forzosa trasferta negli Stati Uniti?
Nell’ultima parte
torno a focalizzare la narrazione sulla protagonista del libro, che negli anni
americani si firmava Wanda Weiss. Negli Stati Uniti Vanda abbandonò la scuola
freudiana per dedicarsi alla psicologia del profondo di matrice junghiana. Una
svolta radicale, che si accompagnò a un allontanamento anche dal proprio consorte,
che rimase invece un fedele seguace del pensiero ortodosso freudiano. Mentre
Edoardo Weiss viveva con i figli maschi a Chicago, dove lavorava come
psicoanalista didatta, nel 1953 Vanda, che non tollerava le asprezze climatiche
dell’Illinois, si trasferì a San Francisco insieme alla figlia adottiva,
Marianna. Durante le soste lavorative invernali le due donne
tornavano a Chicago, per riunirsi con il resto della famiglia, mentre Edoardo
si spostava a Berkeley nei mesi estivi. Vanda fu uno dei primi membri e dei
maggiori esponenti della scuola junghiana in California. A quel periodo
risalgono i suoi contributi psicoanalitici più liberi e originali. Nel 1964 le fu diagnosticato un carcinoma mammario, che
venne aggredito chirurgicamente, ma una successiva diffusione metastatica la
portò a morte il 28 marzo 1968.
Un’ultima domanda, forse provocatoria. I tuoi
recenti lavori sono frutto della tua passione per la ricerca storica. Ma questa
ha ancora un senso, in una società come la nostra, che non riflette e non
ricorda e misura la memoria in gigabyte?
Ti
confesso che i dubbi mi assalgono ogni volta che mi accingo a scrivere di
storia. È vero, lo spirito del tempo sembra rifuggire questi temi e la
dedizione che richiedono. Ma coltivare la memoria, rievocare da dove un cammino
è iniziato sono opere opportune, direi necessarie per non smarrire l’identità e
il significato profondo che vi riposa e che viene tramandato, più o meno
consapevolmente, di generazione in generazione. Non penso vi si possa
rinunziare.
(Novembre 2017)
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