18 settembre 2013

«Silvia Avallone, 'Acciaio'», di Luciano Albanese






Acciaio
Silvia Avallone
Rizzoli
Milano 2010
EUR 18,00
357 pp. 18,00
ISBN: 88-17-03763-X









Premetto che le mie frequentazioni con la letteratura contemporanea sono scarse, e la parola ‘romanzo’ evoca nella mia mente più Le etiopiche di Eliodoro o Le metamorfosi di Apuleio che i finalisti dei premi letterari. La circostanza che mi ha spinto ad occuparmi del romanzo di Silvia Avallone è puramente casuale e abbastanza inusuale. Quello che mi ha spinto alla lettura di Acciaio, infatti, non sono stati né il successo del libro né le discussioni che ha suscitato – di cui fino a poco tempo fa non sapevo nulla – ma il manifesto promozionale del film (che non ho visto e che non vedrò, almeno per ora) ricavato dal romanzo stesso. La bellezza apparentemente aggressiva, in realtà malinconica, delle due ragazze sullo sfondo della ciminiera dell’altoforno mi ha incuriosito, ed è nata la voglia di leggere il romanzo. Quello che segue è quindi il frutto di un’incursione in un campo che non è esattamente il mio: incursione che ha prodotto una interpretazione molto personale di Acciaio, e che tuttavia potrebbe averne messo in luce, mi auguro, aspetti rimasti più in ombra rispetto ad altri.

Acciaio adotta un linguaggio che cerca di essere il più aderente possibile alla realtà, e la realtà è costituita da corpi fatti di materia: corpi vivi, quelli dei personaggi, fasci di bisogni e di desideri, e corpi morti, quelli dell'acciaieria e delle sue macchine. In realtà questi corpi morti sono più vivi dei corpi vivi, e li utilizzano senza pietà, facendoli diventare un’appendice delle macchine. Macchine che, usate dal capitale, finiscono per assurgere inevitabilmente, insieme alla scienza e alla tecnologia che le produce, a manifestazioni materiali del capitale stesso, e quindi cose da cui fuggire via prima possibile. Il potere della materia morta, l’acciaio, sulla materia viva, è il primo e fondamentale centro di gravità del romanzo.

Ma non meno importanti, nel romanzo, sono altri tre centri gravitazionali, due palesi e uno che affiora a tratti per poi restare costantemente sottotraccia, senza essere per questo meno rilevante. Il primo, un filo rosso che si snoda dall’inizio alla fine, l’amicizia/amore tra le due protagoniste principali, Francesca e Anna. Il secondo, la storia di tre operai metallurgici, Enrico, Arturo e Alessio, che lavorano alla Lucchini, ex Ilva, fabbrica che produce una merce destinata all’obsolescenza, l’acciaio. Essi sono, rispettivamente, il padre di Francesca e il padre e il fratello di Anna. Ma, soprattutto, i tre operai sono il simbolo vivente, l’epitome e il precipitato finale di tre diverse generazioni di quella classe operaia che in tempi eroici era lo ‘zoccolo duro’ del PCI, quella che aveva difeso la fabbrica contro i nazisti. Il terzo, gli ‘extracomunitari’ che appaiono e scompaiono come ombre inquietanti sullo sfondo dello scenario: il marocchino che gioca ostinatamente tutti i giorni al video poker, sperando di vincere qualcosa, i raccoglitori di pomodori o di olive, i trans sui marciapiedi di Milano. Effetti e varianti/variabili di un solo gigantesco atto criminale che nessun tribunale internazionale condannerà mai, perché equivarrebbe a condannare la Storia nel suo insieme: lo sterminio sistematico e il depredamento di civiltà ‘altre’ perpetrato dall’Europa, che ne ha soffocato lo sviluppo costruendo in tal modo, nel contempo, la base materiale della sua ‘civiltà superiore’.

Apparirà evidente a qualsiasi lettore che arrivi all’ultima pagina – cosa non difficile, il libro si legge d’un fiato – che le figure femminili giganteggiano su quelle maschili. Questa, veramente, è la nota dominante di tutta la letteratura borghese moderna, perlomeno a partire dal ‘700, ma le ragioni profonde di tutto ciò sarebbero difficili da indagare e da spiegare. Anna e Francesca sono ancorate alla realtà con solide radici. Innanzitutto, il corpo. Il corpo femminile, nel romanzo, è un valore assoluto. Un corpo che cresce, un corpo da studiare e da osservare a fondo nei suoi movimenti, nelle sue pieghe, nei suoi dettagli. Un corpo da esibire, certamente, ma soprattutto da proteggere e da salvare. Salvare, in primo luogo, dallo sfruttamento maschile, e quindi dal lavoro domestico: quel lavoro che ha distrutto il corpo della madre di Francesca, Rosa, e insidia da vicino quello della pur combattiva madre di Anna, Sandra.

In secondo luogo, l’amicizia tra due giovani donne che diventerà presto amore. Un amore tormentato, presto sbocciato ma subito abortito, e poi perduto grazie ad un ‘effetto ritardante’ che dura più di duecento pagine, ma sotterraneamente incombente e desiderato ardentemente da entrambe. E infine ritrovato, in un finale tesissimo e drammaticamente allusivo, che viene vissuto dal lettore come la liberazione da un incubo: l’incubo che in questo deserto metallico, dominato da un ‘mostro animato’ che soffoca e distrugge inesorabilmente tutte le speranze e tutti i progetti (l’orribile ed emblematica morte di Alessio sul lavoro), non possa sopravvivere più nulla di umanamente vitale.

In terzo luogo, i progetti di Anna e di Francesca. Aspirazioni diverse, dal politico al personale, dal futile al serio, ma unite da un comune denominatore: la voglia di fuggire, di andare via da Piombino, in qualsiasi modo sia. L’Elba, il sogno proibito di Sandra, verso la quale si dirigono nel finale le due protagoniste, evoca isole di rousseauiana memoria, altrettanti paradisi perduti. L’Isola Bella nelle Isole Borromee, Tinian, Saint-Pierre, la Corsica, Cipro, Minorca: un mondo nuovo da sempre evocato, disegnato coi colori struggenti del mito.

Dall’altro lato, i maschi. Tre generazioni si fronteggiano. La più vecchia, Enrico. Figura obsoleta, ma ancora dominante a casa sua, di padre padrone ancorato a vecchi valori. La precisione maniacale nel lavoro, la castità imposta violentemente alla figlia adolescente, l’obbedienza scontata della moglie. La generazione intermedia, Arturo. Il lavoro, la fabbrica, sono qualcosa da usare a vantaggio personale, ma presto egli troverà nelle attività paracriminali una più cospicua fonte di guadagno. La generazione giovane, Alessio. Il lavoro come catena, obbligo da cui fuggire e dimenticare appena suona l’orario di uscita, per poi farsi di canne e di coca, per finire sballando in discoteca con gli amici, altri operai uguali a lui.

Generazioni diverse, ma con un tratto comune: il disinteresse per la politica. Enrico guarda un film in televisione perfino l’11 settembre, mentre mille persone si sfracellano ai piedi delle due Torri. Arturo non ne parliamo, e Alessio, che in fondo è il più politicizzato, vota Forza Italia e giudica gli iscritti alla FIOM (di cui egli stesso fa parte) un branco di sfigati. Silvia Avallone guarda in faccia la realtà, e in questo è poco italiana, non si fa illusioni. Il ritratto di quello che un tempo era lo ‘zoccolo duro’ del PCI è impietoso, e sebbene Acciaio non si dilunghi – giustamente – in analisi socio-politiche, chi non ha ancora perso il gusto di riflettere lo fa, perché il romanzo, anche sotto questo punto di vista, è quanto mai stimolante.

Questa nuova classe operaia è il ‘precipitato’ della fine di molti miti. Il marxismo, il comunismo, la Russia ex sovietica, che ora, paradossalmente, si presenta come comproprietaria della fabbrica e causa diretta dei licenziamenti e del futuro smantellamento della stessa, come risulta bene dal dialogo concitato e drammatico – in cui peraltro sono in gioco altre cose – fra Alessio ed Elena. Ma è soprattutto l’effetto delle metamorfosi e dei giri di valzer del PCI, che ha rinunciato da tempo a portare ‘dall’esterno’ – come diceva Lenin – una coscienza alla classe.

La presenza di questa ‘nuova’ classe operaia, tuttavia, potrebbe anche essere letta in positivo come l’irruzione sulla scena politica di quella «rude razza pagana senza ideali, senza fede» di cui parlava polemicamente Mario Tronti in Operai e capitale, oggettivamente vicina all’’operaio’ di Ernst Jünger. Ma non credo che il romanzo di Silvia Avallone supporti questo tipo di lettura. Il modello implicitamente adottato nel romanzo, con cui viene decifrata la classe operaia, resta quello tradizionale, anche se a questa classe non viene affidata nessuna missione salvifica, e Acciaio descrive senza rimpianti ciò che rimane – cioè nulla – del ‘tipo ideale’ di operaio che troviamo ad es. in Come fu temprato l’acciaio di Ostrovskij. Non a caso il romanzo si chiude con la scomparsa dei protagonisti maschili: sia quella fisica, Enrico e Alessio, sia quella psichica, Mattia e Arturo. Da queste macerie emergono, invece, Francesca e Anna, libere finalmente di vivere il loro amore ritrovato. Una scelta, questa, che può anche essere definita ‘politica’, adottando una linea interpretativa che coniuga Nietzsche e Foucault con Judith Butler.

E, in effetti, quello che mi sembra fuori discussione è lo spirito ‘femminista’ del romanzo. Un femminismo che, come ho detto, si riallaccia ad una svolta epocale della letteratura moderna (in controtendenza rispetto al maschilismo dominante nella vita pubblica), che data almeno dal XVIII secolo. L’aspetto più apprezzabile di questo femminismo, per quanto mi riguarda, è che rompe decisamente col moralismo ‘talebano’ delle femministe ‘di sinistra’, quasi sempre sedicenti ex cattoliche. Gli occhi dei lettori sono infatti indirizzati verso i corpi delle protagoniste fin dalla prima scena, in cui il padre di Francesca, Enrico, scruta col cannocchiale il corpo della figlia al mare, con l’ambiguo pretesto di ‘proteggerla’ da quello che lei e Anna in realtà cercano di provocare in tutti i modi possibili: l’interesse dei maschi.

Questo interesse costante, e complice, per i corpi di Anna e Francesca prosegue descrivendo i giochi erotici delle due ragazze davanti ad una finestra maliziosamente aperta ed esposta agli sguardi cupidi e vogliosi dei vicini di sesso maschile, di qualsiasi età essi siano. Prosegue, ancora, descrivendo le meravigliose giravolte di Anna nella sala di pattinaggio, quelle movenze incredibili che tramortiscono il povero Mattia, pur avvezzo a cose del genere; ovvero le passeggiate di Francesca lungo il corso, col suo fisico di donna-bambina che mozza il fiato a chiunque. E culmina, verso la fine del romanzo, nella descrizione della lap dance di una Francesca mezza nuda al Gilda, il locale pieno di dark rooms dove si riversa, dopo il lavoro, la ‘nuova’ classe operaia metallurgica.

Il moralismo da talebani non trova spazio in queste descrizioni, che aderiscono come un guanto alla realtà fisica del corpo femminile. Il corpo, che come ho detto è il valore assoluto da difendere, è anche lo strumento adoperato da entrambe le protagoniste per mettere a terra i maschi. Ma si capisce subito che i veri interessi di Anna e Francesca non sono diretti verso gli uomini. Il vero oggetto di questi giochi erotici sono Anna per Francesca, e Francesca per Anna. Francesca lo dice esplicitamente («a me non mi piacciono i maschi») al povero Nino, innamorato di lei da sempre, che ne resta tramortito. Anna cerca di resistere all’attrazione verso Francesca, crede di innamorarsi di Mattia, ma poi – dopo duecento pagine di sofferenze di lei, di Francesca e di lettori come me che le sentono molto vicine – cede, ed è felice di farlo. Francesca, da parte sua, lavora al Gilda solo per ingelosirla, nella speranza che Anna lo venga a sapere e si precipiti da lei. Finché, stanca e disgustata non della lap dance, ma dell’interesse dei maschi, prende l’autobus e va a bussare alla sua porta, in un crescendo finale letterariamente magistrale.

Forse l’unico punto oscuro del romanzo – nel senso che richiede degli approfondimenti – è la morte di Alessio. La cui causa ultima, poi, è l’amore. Quello di Alessio per Elena, la sua ex fidanzata miracolosamente ritrovata in un’altra scena bellissima. Un amore talmente forte che gli impedisce di vedere l’arrivo di Mattia alla guida del ‘mulo’ che lo travolgerà schiacciandolo mentre al cellulare sta fissando un appuntamento con Elena, che lavora nel settore dirigenziale della fabbrica. Anche questa è una scena altamente drammatica, e il «grido disumano» di Elena davanti a quello che resta del corpo di Alessio mi ha riportato alla memoria un altro grido, quello del più bel film di Antonioni (Il grido, appunto), anche questo emesso da una donna davanti al corpo senza vita della persona amata, sfracellatasi al suolo, volontariamente, dall’alto di una torre.

E quello di Mattia per Anna, il cui pensiero gli impedisce di vedere la sagoma di Alessio davanti al mulo carico di quattordici tonnellate di tondi – anziché dodici, per finire prima il lavoro e correre da Anna – che gli tolgono la visuale. Effetto drammatico di queste due disattenzioni è la morte orribile di Alessio, stritolato dal mulo.

Se questa scena, e la fine di Alessio, è stata ritenuta necessaria da Silvia Avallone deve esserci un motivo. La scena descrive l’ennesimo ‘omicidio bianco’ verificatosi nella fabbrica, e come tale viene letto dai compagni di Alessio, dai sindacati e dalle autorità. Il romanzo evidenzia esplicitamente la ‘ritualità’ di queste manifestazioni (e quindi la loro impotenza di fronte a condizioni di lavoro insostenibili), sancita dal fatto che l’evento finisce sulla quinta pagina del Tirreno. Implicitamente, mette in luce un tratto specifico dell’uso capitalistico della tecnica: la dipendenza totale dell’uomo dalla macchina, che non ammette distrazioni, e quindi non ammette sentimenti. Quei sentimenti che sono la causa non ultima dell’incidente in cui Alessio trova la morte. La reazione di Cristiano, che si avventa inutilmente contro il mulo di acciaio, è quanto mai significativa, e riporta alla memoria le altrettanto inutili reazioni dei luddisti di fronte alla comparsa delle prime macchine. Che il romanzo si concluda con la vittoria di un sentimento di amore tra due donne, talmente forte da superare le barriere imposte da una società eterosessuale, è, da questo punto di vista, il solo tenue segnale di riscossa percepibile: l’unico ritenuto possibile in questo momento storico.




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