Nella foto, Luigia Sorrentino |
Luigia Sorrentino, partenopea, è poeta e giornalista. Tra le sue raccolte di poesia figurano C’è un padre, edita da Manni nel 2003, La cattedrale, edita da Il ragazzo innocuo nel 2008, e La nascita, solo la nascita, uscita nel 2009 sempre per i tipi Manni. Alcuni suoi versi sono stati raccolti nell’Almanacco dello Specchio Mondadori del 2008. Intervistatrice televisiva, radiofonica e telematica di eminenti figure del panorama internazionale, dai Premi Nobel Orhan Pamuk, Derek Walcott e Seamus Heaney a Yves Bonnefoy, Mark Strand e altri, ha ideato e cura per Rai News 24 il blog Poesia, di Luigia Sorrentino. Attualmente lavora al Giornale Radio Rai. Autrice di programmi culturali radiofonici, quest’anno ha condotto, su Rai Radio Uno, il programma Notti d’autore. Viaggio nella vita e nelle opere dei protagonisti del nostro tempo, dando voce ai propri ospiti in studio. L’occasione di questa intervista, realizzata con Doriano Fasoli a Roma il 3 luglio 2013, è la recente uscita, per i tipi Interlinea, della sua ultima raccolta di poesia, Olimpia, che ha già ottenuto prestigiosi riconoscimenti.
Doriano Fasoli: Qual è lo spirito che informa questo libro?
Luigia Sorrentino: È ciò che si è perduto irrimediabilmente: la condizione umana. Questo libro mette il lettore davanti a questa perdita, e gli fa compiere un viaggio, un percorso, alla ricerca di ciò che siamo stati, ciò che abbiamo dimenticato di essere, come umani, ma anche come abitanti del mondo. Olimpia compie questo cammino ripartendo dalle origini, trasportando il lettore in uno spazio e in un tempo assoluto, un non-tempo: lo tiene lì, in un luogo, all’interno del quale, tutto è già accaduto. Tutto si è compiuto, eppure, da questo campo spoglio dell’esistenza, si leva un grido di eternità e di amore.
È una raccolta poetica destinata a un pubblico particolare?
Non direi. Certo, chi legge Olimpia può non capire ‘esattamente’. Direi più precisamente: è possibile che qualcuno possa non sentire il gesto della riunificazione che compie questo libro, nel senso che è distante dal riconoscere come propria questa esperienza. Olimpia riunifica le parti separate, le congiunge, e dice che l’umano e il divino sono dentro la stessa persona.
Un «classico assoluto» è per Eliot soltanto Virgilio. Perché proprio Virgilio?
Lo chiede a me? Forse qui dovrebbe risponderle Eliot…! In realtà Virgilio c’entra con Olimpia, e forse c’entra un po’ anche Eliot con The Waste Land (La terra desolata). Si può dire che la sezione «L’antro» sia un luogo perfettamente riconoscibile. È il luogo del quale Virgilio parla nel Libro VI dell’Eneide. E, se lei torna in quel luogo, tutto è perfettamente identico al passato. È la poesia che è riconoscibile, che rende tutto «finalmente comprensibile». La poesia è dentro quel luogo che Virgilio descrive nell’Eneide, dove l’eroe caduto nella pietra è lì. Lì c’è ancora il figlio del vento, e si chiama Miseno. E lì, in quel luogo, Virgilio, discendendo all'Ade per incontrare il padre Anchise per l’ultima volta, capirà che grandi uomini rinasceranno nella città che riusciranno a rifondare.
Perché solo Virgilio, secondo Eliot, possedeva quel profondo senso critico del passato, quella grande consapevolezza del presente e quella compiuta maturità di mente e di lingua che caratterizzano l’ideale stesso dell’essere classico. Per lei cos'è un classico?
Credo che Virgilio sia un classico perché incarna il vero poeta e il perfetto filosofo. C’è però qualcosa che solo il poeta conosce. C’è quindi qualche cosa che il filosofo, che è dentro il poeta, non conosce. Il poeta conosce bene la natura umana perché è dentro di lui. Conosce l’ardore, perché è come il titano Prometeo, «il primo uomo», porta con sé il fuoco sacro della conoscenza, ma anche dell’intuizione – caratteristica molto femminile – e lo offre agli umani. Quell’offerta è un gesto di amore profondo verso il genere umano. Prometeo, quindi, compie un atto di grande generosità. Il filosofo che sta dentro il poeta conosce, invece, il carattere illusorio, ‘freddo’, della ragione, cioè non ha ‘quel fuoco’ del poeta, ma lo sente, lo percepisce. La poesia, potremmo dire, è il contenuto della filosofia. In comune poesia e filosofia hanno la potenza del linguaggio che esprime una verità assoluta. Virgilio senza dubbio aveva entrambe queste qualità, del poeta e del filosofo. Ma anche altri poeti le hanno avute: penso a Dante, a Hölderlin, a Leopardi.
È al passo con la letteratura odierna?
Un classico è al passo con la letteratura contemporanea, anche perché sono proprio i classici a restituirci insegnamenti eterni. Pensi a Sofocle, al suo Edipo. L'Edipo a Colono è dolorosamente attuale ed eterno. Chi di noi non cerca un ‘riparo’ nel momento in cui sente avvicinarsi la morte? Pensi anche a Shakespeare. Il suo Amleto è straordinariamente attuale quando pronuncia frasi che ancora oggi noi utilizziamo nel linguaggio corrente senza sapere che vengono da Shakespeare. Quante volte abbiamo sentito dire, abbiamo ripetuto: «A mali estremi, estremi rimedi»? Molte volte. Molti di noi pensano che sia un proverbio, cioè il frutto di una sapienza popolare, perché è una frase che risuona nella nostra testa da secoli, ma la gente comune non sa da chi viene quella saggezza, chi ha pronunciato per primo quella frase. Un poeta deve saperlo, esplorare i classici, tramandarli. È un obbligo.
Mi fa piacere ricordare in questo contesto il recente incontro che ho avuto con il grande poeta nordirlandese Seamus Heaney, Premio Nobel per la Letteratura nel 1995. Tutta la poesia di Heaney attinge ai classici per riportare i drammatici fatti della contemporaneità. Quando ci siamo incontrati a Roma all'American Academy, Heaney mi ha parlato di una sua poesia contenuta in District and Circle dal titolo «Anything Can Happen» (in italiano: «Tutto può succedere»). È una poesia scritta da Heaney quando il mondo intero ha subìto il trauma dell’11 settembre del 2001. Heaney mi ha spiegato che, dopo il terribile attentato alle Twin Towers e al World Trade Center di New York, ha cercato la risposta a quanto era accaduto in un’ode di Orazio che descrive la morte che arriva dal cielo. E, in effetti, l’11 settembre 2001 la morte è proprio arrivata dal cielo: e ha cambiato la storia dell’Occidente. È successo, cioè, qualcosa di irreparabile e tremendo. Heaney mi ha fatto poi notare che la radice latina del verbo tremens in lingua inglese è diventata tremendous, una parola utilizzata anche per descrivere i terremoti, per connotare un evento di natura eccezionale e scioccante. Ascoltando Seamus Heaney ho capito perché nel mio poemetto che ha per titolo «Il contrasto tra il divino e il tempo» ho usato il participio passato del verbo tremare: tremato. Mi ero chiesta a lungo, mentre rivedevo le bozze di Olimpia: «Ma perché non riesco a mettere lì un’altra parola? Qual è la ragione che mi induce a cancellare per poi tornare a riscrivere proprio tremato?» Tremens – Tremendous – Tremato – Tremendo. La risposta è arrivata dalle parole di Heaney: il proprio nome è tremendo. È la natura umana che ha in sé qualcosa di tremendo.
Tutta la poesia di Seamus Heaney è la dimostrazione di come i poeti di ieri parlino attraverso i poeti dei tempi moderni, di come i classici accorrono in nostro aiuto per aiutarci a capire il presente. Questa è una cosa che fa anche Adam Zagajewski, che riprende Czesław Miłosz quando afferma che la poesia è una fiamma che si trasferisce di mano in mano. È proprio così: se i poeti guardano i poeti che stanno dietro di loro, ritrovano lo stesso ardore; e allora la stessa fiamma si traferisce da poeta a poeta, e quindi, dal poeta al lettore. E così facendo si tramanda l’azione di Prometeo, che, come abbiamo già detto, consegna il «fuoco sacro» della conoscenza e dell’intuizione all’umano.
Quali sono le sue predilezioni poetiche?
Tra i contemporanei stranieri ho una particolare predilezione per Mark Strand: per il carattere ironico, ma anche sapienzale, della sua poesia. Una poesia che fotografa la nostra epoca e ci parla dell’inaspettato, dello strano…: ciò che non ci aspettiamo e che invece accade. Mi piace molto la poesia di Susan Stewart, perché anche lei lavora sui classici, dà una grande attenzione alla parola della poesia, ma anche al pensiero che la parola della poesia trasmette. Tra gli italiani mi sono espressa già molto nelle mie interviste radiofoniche e televisive. Potrei farle molti altri nomi, e non sempre sono nomi di poeti. Ogni mia poesia, ogni verso, contiene il nome di qualcuno, di qualcosa… Se le dico Iris, ad esempio, pensa a un fiore o a una persona?
Come considera la creatività?
La considero parte integrante della natura umana. Qualcosa di cui non si può fare a meno, soprattutto oggi che abbiamo perduto il contatto con ciò che è frutto del nostro ingegno. Abbiamo perduto la manualità, l’uso delle mani, delle dita. Le mani sono la nostra espressione vitale: fino a quando potremo muoverle, usarle, vorrà dire che siamo vivi. Io disegno molto le mani. Lo faccio con la parte destra del cervello, con le categorie intuitive. Questa attività è pur sempre una creazione. La creatività può essere espressa, comunque, in qualsiasi modo, anche mentre si cucinano delle pietanze per un pranzo o per una cena con gli amici. È splendido cucinare quando non è un obbligo, un dovere. Posso affermare che la creatività è l’espressione più potente della nostra libertà. La creatività non fa compromessi, non accetta di piegarsi dinanzi a niente e a nessuno, proprio come la lingua della poesia.
Se dovesse definire con un colore la sua poesia quale sceglierebbe?
Tutti i colori della pietra, in assoluto. Il colore variegato e stratificato dell’arenaria della città giordana Petra. Il colore dell’opalina, di un azzurro opalescente, iridato… ma anche il colore nero dell’ossidiana, vetrificato… il colore trasparente del cristallo di rocca che trasmette lucentezza… il colore della rosa di calcedonio, che sembra fango prosciugato, ricco d’impurità: è la pietra degli oratori, ma è anche la pietra di quelli che prestano ascolto.
«Tutti diventano creatori, c’è una mobilitazione generale che porta al paradosso per cui non c’è più un destinatario, tutti sono trasmettitori. Ognuno crea la propria espressione e non ha più il tempo di ascoltare gli altri. È una forma eccessiva in cui l’arte scompare per eccesso, non per mancanza, creando un cortocircuito al senso stesso»: sono parole di Jean Baudrillard. Anche secondo lei, se la poesia, l’arte sono ovunque, allora cessano di esistere?
L’arte non cesserà mai di esistere perché contiene in sé il germe dell’assoluto, anche se a volte l’espressione dell’assoluto, soprattutto nella contemporaneità, è soltanto un’idea dell’artista, una forma che racchiude un’idea di arte. L’arte contemporanea si pone proprio come un’innovazione rispetto al passato. E allora bisogna saper trovare tra gli artisti contemporanei il segno che esprima l’idea di assoluto. Io, in particolare, adoro Cy Twombly. Il mio Iperione è nato dopo una visita alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma dove è esposto l’Iperione di Cy Twombly. Preciso, però, che il suo Iperione si ispira a John Keats, il mio è più hölderliniano; quindi la visione di Cy Twombly è, al tempo stesso, classica nell’ispirazione e contemporanea nel segno, nel tratto ironico, anche grottesco. Il mio, invece, è più drammatico, quasi tragico. Si prende molto sul serio.
«Fino a quattordici anni tutti scrivono poesie,» diceva Croce. «Dopo,» egli aggiungeva, «continuano a scriverne i poeti e i cretini.» Cos’è che differenzia un poeta da un facitore di versi?
Sarà il tempo a dirci se a scrivere è un poeta o un cretino. Il nome che sarà riportato sull’asse del tempo è il nome del vero poeta. Il nome di colui/colei che sovrasterà ogni tempo, che sarà ricordato eternamente, è il vero poeta. È accaduto nel passato: accadrà anche nel futuro.
C'è una sua poesia alla quale è particolarmente legata?
Ce ne sono diverse. Una che adesso mi viene in mente è «Lo slancio della rosa». È un po’ una sintesi biografica. Ma penso anche a «In quella vertebra». Olimpia, potrei dire, è invece il risultato di quelle forme poetiche che si erano già espresse compiutamente, le contiene e le racchiude.
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