Edmund Husserl |
Nella storia della
filosofia, sia antica che moderna, il significato del termine percezione non è univoco. Esso va
dedotto di volta in volta tramite un esame del contesto filosofico nel quale
compare. In linea generale, è possibile delineare una grossa dicotomia fra
tendenze filosofiche dualistiche e
tendenze filosofiche monistiche. Le
filosofie dualistiche assumono l’esistenza di due fonti distinte della
conoscenza, senso da una parte e intelletto dall’altra. Nel primo caso il
termine percezione cade interamente dalla parte della sensibilità, e l’assunto
fondamentale è che la sensibilità, tramite la percezione, sia in grado – da
sola e senza l’intervento dell’intelletto – di attingere le caratteristiche fondamentali
degli oggetti esterni, in particolare la loro collocazione nello spazio e nel
tempo.
Questo non
significa, in particolare negli sviluppi moderni del dualismo, che la
percezione sia completamente passiva
nei riguardi degli oggetti esterni, che si imprimerebbero sui nostri apparati
sensitivi come il sigillo sulla cera (secondo la nota metafora, comune alle
scuole materialistiche dell’antichità). La percezione presuppone l’intervento
attivo di determinati centri nervosi, sia centrali che periferici, ma questa è
cosa ben diversa dall’affermare, come farà Cartesio o Plotino molto prima di
lui, che «nel nostro modo di sentire si include il pensiero», cioè che senza
l’intervento del pensiero la sensibilità non coglie niente, o niente di certo.
Il modello di
attività percettiva che abbiamo delineato è comune alla scuola peripatetica, a
quella stoica e a quella epicurea. La scuola epicurea, Filodemo in particolare,
ha messo in rilievo in modo molto energico, da un lato, come il senso sia alogon kriterion, quindi una fonte
conoscitiva nettamente distinta dall’attività logico-discorsiva o argomentativa;
dall’altro, come i sensi siano fondamentalmente affidabili, offrendoci un
puntuale rispecchiamento della realtà
esterna.
Naturalmente la
metafora del rispecchiamento, come quella della cera e del sigillo, peccano per
eccessivo ottimismo. Gli scettici – Accademici prima e Neopirroniani dopo –
hanno avuto buon gioco nel dimostrare che le percezioni o i simulacri non sono poi così simili agli oggetti rispettivi, nemmeno
nel caso delle immagini speculari, che sono completamente invertite rispetto
all’oggetto che rispecchiano. Non parliamo poi delle percezioni tattili o
olfattive o sonore, nelle quali non è riscontrabile nulla di simile agli oggetti corrispondenti, ai
quali vengono associate, in realtà, solo per abitudine. Tuttavia questo, per i materialisti dell’antichità, non
inficiava affatto l’attendibilità dei sensi e della percezione, che restavano
l’unica base solida sulla quale fosse possibile acquisire conoscenze certe.
La teoria
dualistica delle due fonti della conoscenza, attraverso le correnti
materialistiche francesi e inglesi, arriva fino a Kant, che la sostiene
soprattutto contro Leibniz e il razionalismo. Essa sembra tuttavia subire una
attenuazione nella II ed. della Critica
della ragion pura, in particolare nella trattazione della II Analogia, dove
molti interpreti hanno individuato una vera e propria teoria causale del tempo [vedi Marcello Pera, Hume, Kant e l’induzione, Il Mulino, Bologna 1982], vale a dire una
teoria secondo la quale la sensibilità, senza l’intervento della categoria di
causa, non potrebbe fornire nessuna conoscenza certa di una successione
temporale t-t1 oggettiva e irreversibile. Si capisce che in tal modo
il ruolo della sensibilità come fattore autonomo di conoscenza accanto all’intelletto verrebbe
notevolmente ridimensionato, e si capisce altresì perché Heidegger, che puntava
tutto sulla preminenza del tempo, continuasse, contro gli interpreti
neokantiani, a preferire la I ed. della Critica
alla II.
Alla corrente
dualistica, infine, appartiene la definizione filosoficamente più rigorosa
della teoria marxista della conoscenza, vale a dire quella delineata da Lenin
in Materialismo ed empiriocriticismo,
un libro apprezzato anche da un avversario del marxismo come Karl Popper.
Sviluppi dell’opera di Lenin possono essere considerate le opere di Galvano
della Volpe e soprattutto di Lucio Colletti.
L’altro versante,
quello che abbiamo definito monistico,
è caratterizzato dal fatto che la distinzione fra intelletto e sensibilità
salta completamente. Ma occorre fare una ulteriore precisazione. La fusione
delle due fonti della conoscenza in un’unica fonte può avvenire infatti sia
dalla parte dell’intelletto che da quella della sensibilità.
Per motivi che qui
non è il caso di approfondire, il pensiero antico non superò mai completamente
la posizione dualistica. La prima affermazione decisamente monistica, perciò,
si ha con Cartesio. Il superamento del dualismo si ha nella celebre
affermazione cogito ergo sum, che è
la spia di una conoscenza immediata,
perché, come osservava argutamente Hegel, non basta un ergo per fare un sillogismo. Tale superamento, evidentemente,
avviene dalla parte dell’intelletto, perché «nel nostro modo di sentire si
include il pensiero». L’intelletto solo, infatti, è in grado di farci vedere cerchi dove la percezione sensibile,
fuorviata dalla prospettiva, ci fa vedere ovali,
o bastoni diritti in acqua che la
percezione ci presenta distorti, o un
sole diciotto volte più grande della terra quando per la percezione sembra
grande un piede (quasi pedalis, come
diceva Cicerone).
La vera percezione,
perciò, si ha solo grazie all’intelletto, che sottopone i dati dei sensi ad una
sorta di riorientamento gestaltico. Su questa linea si muoveranno sia Hegel (in
Hegel la mediazione è apparente, perché «toglie se stessa») che i Neokantiani
della Scuola di Marburgo (Cohen, Natorp e Cassirer), che estremizzano il Kant
della II ed. della Critica riducendo
le due fonti della conoscenza ad una fonte sola, l’intelletto, e infine Popper,
con la teoria del «carico teorico della percezione».
Sull’altro piatto
della bilancia troviamo soprattutto Hume. Hume risolve il dualismo individuando
nella percezioni della mente l’unica
base di partenza della riflessione filosofica. Sotto il nome di percezioni, scrive Hume,
io comprendo tutte le sensazioni, passioni ed emozioni, quando fanno la loro prima apparizione nella nostra anima (Trattato I,1,1).
Come si intuisce, in Hume scompare ogni differenza fra le percezioni suscitate da oggetti esterni e percezioni relative a stati passionali o emozionali. Il problema della corrispondenza fra interno ed esterno, contenuti mentali e mondo fuori di noi viene infatti giudicato insolubile, perché la mente non ha mai presenti se non percezioni, e non è in grado di dire nulla sulla presunta corrispondenza fra percezioni e oggetti. Su questa stessa linea su muoverà un autore che rappresenta la fonte principale di Husserl, vale a dire Franz Brentano, autore della Psicologia dal punto di vista empirico.
Ogni presentazione nata dalla sensazione o dalla fantasia è un esempio di fenomeno psichico, laddove con il termine «presentazione» no intendo qui ciò che viene presentato, ma l’atto di presentare: Esempi di presentazione così intesa sono l’udire un suono, il vedere un oggetto colorato, il sentire caldo e freddo, così come gli analoghi stati di fantasia; ma lo è anche il pensare un concetto generale, ammesso che ciò accada davvero. Inoltre, sono fenomeni psichici ogni giudizio, ricordo, attesa, deduzione, convinzione, opinione, dubbio. Così come tutti i moti d’animo: gioia, tristezza, paura, speranza, coraggio, viltà, ira, amore, odio, desiderio, volontà, intenzione, stupore, meraviglia, disprezzo, ecc. (I, 144-45).
Queste percezioni interne della mente,
sottolinea Brentano, sono non solo immediatamente evidenti, ma anche le uniche
vere. Infatti esse «appaiono così come sono», indipendentemente dal fatto che
per alcune di esse vi siano cause esterne nella forma di oggetti corrispondenti,
sull’esistenza dei quali è inutile pronunciarsi (I, 84, 157). Ma anche parlare
di una sostanza psichica che farebbe
da supporto alle percezioni è arbitrario. Il riferimento a Hume, a tale
proposito, è fatto esplicitamente da Brentano.
Hume, a suo tempo, prese posizione con grande fermezza contro i metafisici che ritenevano di poter individuare un se stessi una sostanza portatrice degli stati psichici (I, 81).
Brentano, da questo
punto di vista, può essere considerato il promotore di quel «ritorno a Hume»,
parallelo e concorrenziale al «ritorno a Kant» che caratterizza la cultura
tedesca del primo Novecento. Non è casuale che autori legati a Brentano, come
Lipps e Meinong siano autori, il primo, della traduzione tedesca del Trattato (18951, 19042),
che contribuì non poco alla conoscenza diretta di Hume, il secondo di
importanti Studi su Hume (1913-14).
La prima opera
importante di Husserl è la Filosofia
dell’aritmetica (1891). Muovendo dalla psicologia di Brentano (al quale
l’opera era dedicata), della quale vuole essere un “raffinamento”, il testo di
Husserl analizza diffusamente gli atti psichici che stanno alla base dei
concetti fondamentali dell’aritmetica, primo fra tutti quello di numero.
Husserl dipende strettamente, in questo, dal grande matematico Weierstrass, ma
è consistente anche la presenza di Bolzano. Il concetto base dell’opera è
quello di aggregato (Inbegriff), termine che indica l’atto di
riunire insieme un gruppo di oggetti. Tali oggetti formano i concreta sui quali si eserciterà l’atto
astrattivo volto a produrre il concetto di molteplicità, e quindi quello di
numero cardinale.
Husserl, come è
noto, sottopose l’opera al giudizio di Frege, che le dedicò una recensione
ampia, ma che nella sostanza equivaleva a una stroncatura. Secondo Frege
Husserl, nonostante la buona intenzione di andare oltre Brentano e oltre la
psicologia, falliva proprio nel compito principale, quello di dare una
spiegazione logica del concetto di
numero. La Filosofia dell’aritmetica restava impantanata
nella psicologia di Brentano.
La stroncatura di
Frege fece una profonda impressione su Husserl, che da quel momento cominciò a
vedere nella psicologia la sua “bestia nera”. Le Ricerche logiche (1900-1901) sono il frutto più noto di questo
rifiuto della psicologia, e tuttavia la presenza di Brentano si avverte ancora.
Alla base delle Ricerche, infatti,
troviamo lo stesso autore che è alla base della Psicologia di Brentano, vale a dire David Hume. La Seconda ricerca, in particolare, si
chiude con una dettagliata analisi della teoria dell’astrazione di Hume – un
tema, questo, che è al centro anche degli Studi
su Hume di Meinong, ma che sotterraneamente percorreva la stessa Filosofia dell’aritmetica.
La tesi di Hume,
svolta nel I libro del Trattato, era
che non esistono idee generali o astratte, come il triangolo o il
cavallo. Ogni percezione è individuale e singolare. Le rappresentazioni
astratte o idee astratte sono perciò in se stesse individuali, perché nella
nostra mente l’immagine è esclusivamente l’immagine di un oggetto singolo. La
singola immagine può «rappresentare» tutte le altre immagini singole della
stessa classe (i triangoli, i cavalli) perché la funzione generalizzante è
assunta da un nome ad essa associato,
comune a tutti gli individui della stessa classe. Il nome dà alla singola
immagine un significato più ampio e fa sì che di fronte ad un singolo triangolo
o cavallo vengano richiamate alla memoria altre idee singole simili. (A
conferma della “labilità” di tale procedimento associativo, altrove Hume dirà
che l’uso dei nomi comuni genera spesso la falsa impressione che si stia
parlando della stessa cosa, quando in realtà sotto lo stesso nome gli uomini
intendono spesso cose diverse, proprio perché hanno in mente percezioni diverse alla radice).
In modo analogo
procedeva la spiegazione data da Hume alla distinctio
rationis, vale a dire a quel procedimento mentale per cui possiamo astrarre
il bianco, ad es., da una serie di oggetti di diversa figura geometrica, e
prendere in considerazione solo il colore, ovvero prescindere dal colore e
prendere in considerazione solo le forme geometriche. Anche in questo caso Hume
nega che esista qualcosa come il
colore in generale o la figura in
generale. Gli oggetti in esame sono sempre singolari, e il collegamento nasce
solo dall’adottare questo o quel punto di
vista, che funge da ordinatore della serie di immagini singole.
Pur non
condividendo tutti i risvolti “psicologici” dell’analisi di Hume, Husserl
giudica «preziose» le riflessioni contenute nel I libro del Trattato. Secondo Husserl infatti il
concetto che – nella quasi totale inconsapevolezza di Hume – sottende le
riflessioni sull’astrazione e sulla distinctio
rationis è quello di intenzionalità,
un concetto chiave dell’analisi fenomenologia. È esattamente la modalità della
coscienza, cioè la modalità dell’intenzione
– del punto di vista – che orienta in un modo o nell’altro la serie delle
singole percezioni, gettando un ponte verso le essenze o i concetti puri. La conclusione di Husserl è che «con
qualche opportuna modificazione, sulla base delle idee di Hume è certamente
possibile elaborare una teoria praticabile» dal punto di vista fenomenologico
(I, 468). Un giudizio, questo, fondamentalmente positivo, che ricorre in tutte
le opere di Husserl e che conferma la persistenza dell’approccio humeano di
Brentano.
Se infatti seguiamo
l’esposizione più lineare del pensiero di Husserl, che egli stesso ha offerto
nel ciclo di cinque lezioni del 1906-7 raccolte sotto il titolo L’idea della fenomenologia, ci rendiamo
immediatamente conto che il punto di partenza di Husserl, come di Brentano,
restano le «percezioni della mente» di Hume. Esse appaiono infatti l’una base
solida che rimane dopo l’ epoché
effettuata da Husserl contro ogni forma di trascendenza, sia esterna che interna.
L’ epoché (o sospensione del giudizio o messa
tra parentesi), come è noto, era una delle armi principali dello
scetticismo antico (cfr. Diogene Laerzio, IX, 70) contro ogni forma di
conoscenza. Dopo il revival scettico
seguito alla «crisi pirroniana» (Popkin) che è all’origine del pensiero
moderno, tutti dovettero fare i conti con lo scetticismo, e l’onda lunga di
questa moda culturale – di cui c’è solo il pericolo di sottovalutare
l’importanza – attraversa il pensiero europeo giungendo fino alle soglie
dell’età contemporanea.
In prima battuta,
Husserl trova nell’epoché scettica un
prezioso alleato, perché gli consente di operare la “riduzione fenomenologia”
sia verso gli oggetti studiati dalle scienze naturali che verso quella sorta di
“oggetto interiore” rappresentato dall’EGO empirico, il presunto supporto delle
percezioni. Mettendo ogni cosa in dubbio Husserl si avvicina immediatamente,
come si comprende facilmente, al percorso cartesiano, culminante nel dubbio iperbolico (la realtà, comprese
le stesse idee chiare e distinte della matematica, come opera di un genio maligno – una figura già presente
nello scetticismo antico).
E tuttavia sotto la
mannaia dell’epoché è destinato a
cadere anche il cogito, perché l’EGO
cartesiano, soggetto del cogito ergo sum,
costituisce ancora, secondo Husserl, ossessionato dallo spettro della
psicologia dai tempi della stroncatura di Frege, un residuo “impuro” e intriso
di psicologismo, che va esso stesso eliminato. Alla fine di questa inesorabile
potatura, Husserl si ritrova fra le mani lo stesso punto saldo e indubitabile
di Brentano: le percezioni della mente.
Comunque io percepisca – dice Husserl – rappresenti, giudichi, inferisca, comunque possano stare qui le cose relativamente alla sicurezza o insicurezza di questi atti, alla loro oggettualità o mancanza d’oggetto, rispetto al percepire è assolutamente chiaro e certo che io percepisco questo o quest’altro (66).
L’esperienza
vissuta (Erlebnis) della coscienza
non è altro che un «puro guardare» (Schauen).
Ogni vissuto (Erlebnis) dell’intelletto e ogni vissuto in generale può essere ridotto all’oggetto di un puro guardare e afferrare (eines reinen Schauens und Fassens), e in questo guardare esso costituisce una datiti assoluta (absolute Gegebenheit). Esso è dato come un essente, come un questo-qui (ein Dies-da), dubitare del cui essere non ha proprio nessun senso (67).
Nella
reinterpretazione husserliana del cogito
cartesiano la nuova formula del sapere immediato potrebbe suonare più o meno
così:
Ich erlebe, ergo sum.
Ho un’esperienza,
un “vissuto”, quindi sono. Una formula, questa, che corre tuttavia il rischio
di diventare una tautologia, nel senso di “vivo, quindi vivo”. Questo puro
guardare non rischia di trasformare l’esperienza fenomenologia in una
esperienza mistica, quindi in
qualcosa di totalmente irrazionale, peggiore di qualsiasi approccio
psicologistico? È quanto sembra emergere dalla IV lezione, dove Husserl
contrappone alla conoscenza dell’intelletto, cioè alla conoscenza scientifica,
quella che già Hegel chiamava la “mistica della ragione”.
La conoscenza guardante [orribile traduzione di Schauende Erkenntnis] è la ragione (Vernunft) che si prefigge appunto di portare l’intelletto (Verstand) alla ragione. All’intelletto non è lecito interferire in questo discorso e contrabbandare i suoi assegni scoperti fra quelli coperti: e il suo metodo di scambio e conversione che si basa su dei semplici buoni, qui è del tutto fuori questione. Perciò, intelletto meno che si può e intuizione più pura che si può (intuitio sine comprehensione); torna davvero alla mente il discorso dei mistici allorché descrivono lo sguardo intellettuale (das intellektuelle Schauen), che non sarebbe affatto un sapere dell’intelletto (93-4).
È superfluo
sottolineare la massiccia presenza di suggestioni hegeliane in questo passo,
che riprende e recupera il rapporto Intelletto/Ragione nel senso preciso in cui
Hegel lo aveva sviluppato in antitesi al Kant della Critica della ragion pura. Anche il concetto di intuizione
intellettuale, vale a dire il modo di funzionare di un intelletto divino, che
crea ciò che pensa, nell’immediata identità di pensiero ed essere, è ripreso da
Hegel, in particolare dai primi scritti critici, nei quali l’influsso romantico
è più presente.
Questo sviluppo in
senso mistico dell’analisi fenomenologica, tuttavia, sembra rappresentare solo
un “sentiero interrotto”, mai adeguatamente sviluppato. Nelle stesse lezioni
sull’Idea della fenomenologia l’asse
principale del discorso tende a mettere al centro dell’analisi i concetti
tradizionali della logica. Il problema di Husserl, da questo punto di vista, è
esattamente il seguente: come passare dalle percezioni della mente, singole,
individuali e irripetibili, ai concetti più generali e alle essenze? Dell’esistenza di tali concetti
– vale a dire di un diverso tipo di
trascendenza – Husserl, come a suo tempo Cartesio, in realtà non ha mai
dubitato seriamente.
Non a caso Husserl
si era pronunciato contro ogni visione relativistica e scettica della legalità logica fin dalla prima lezione.
Più precisamente – e la cosa non è priva di interesse – si era pronunciato
contro ogni visione evolutiva o evoluzionistica (e quindi relativistica) dello
sviluppo delle leggi del pensiero. Il punto di vista evoluzionistico è così
riassunto da Husserl:
Non esprimono dunque le forme logiche e le leggi logiche lo specifico accidentale modo di essere della specie umana, che potrebbe anche essere altrimenti, e altrimenti sarà davvero nel corso dell’evoluzione futura? La conoscenza sarebbe dunque soltanto conoscenza umana, legata alle forme dell’intelletto umano, e incapace di cogliere la natura delle cose stesse, le cose in sé (60).
La risposta di
Husserl è significativa:
Le conoscenze con le quali opera una tale veduta, e anche solo la possibilità che essa prende in considerazione, hanno ancora un senso, se le leggi logiche vengono abbandonate a un tale relativismo? La verità che tale e tale possibilità sussiste, non presuppone implicitamente la validità assoluta del principio di contraddizione, secondo cui, data una verità, resta esclusa la sua contraddittoria? (60).
La verità è che in
Husserl l’esistenza di «altre datità assolute, oltre quelle delle cogitationes ridotte» (cioè delle
percezioni pure, potate sia di un oggetto che di un soggetto trascendente),
vale a dire l’esistenza di altre
trascendenze, stavolta di segno positivo, è presupposta fin dall’inizio.
È lampante che la possibilità di una critica della conoscenza dipende dall’esibire altre datiti assolute, oltre quelle delle cogitationes ridotte. Più esattamente, noi le oltrepassiamo già coi giudizi predicativi che pronunciamo su di esse. Già quando diciamo: «Questo fenomeno di percezione contiene questi o quei momenti, contenuti di colore e simili», e anche quando, in base ai presupposti, facciamo queste asserzioni nella più pura aderenza alle datiti della cogitatio, noi, con le forme logiche che si rispecchiano anche nell’espressione linguistica, andiamo ben al di là delle semplici cogitationes […]. Per chi possa mettersi nella posizione del puro guardare (des reinen Schauens) […] è facile riconoscere che non solo delle individualità, ma anche delle universalità, cioè oggetti universali e stati di cose universali, possono pervenire ad assoluta datiti diretta (84).
Questo
riconoscimento, continua Husserl è di importanza decisiva per la possibilità
della fenomenologia. Infatti il peculiare carattere della fenomenologia è
quello di essere analisi di essenze e indagine sulle essenze nel quadro di una rein schauender Betrachtung e di una
assoluta Selbstgegebenheit, una
datiti che si offre da sola allo sguardo. L’analisi delle essenze è infatti eo ipso un’analisi nel modo della
generalità, indirizzata o intenzionata
a oggettualità universali., e questo tanto nella logica quanto nell’etica e
nella dottrina dei valori. Di questa
trascendenza, sottolinea Husserl più avanti, nessuno deve scandalizzarsi,
perché si tratta di cosa bene diversa dalla trascendenza degli oggetti tagliati
via dall’epoché e dalla riduzione
fenomenologia.
Fenomenologia,
dunque, come scienza di essenze. Ma qual è il carattere peculiare di questa
scienza, che la distingue e la deve
distinguere dalle scienze naturali, ivi comprese psicologia e scienze storiche
alla Dilthey (criticato da Husserl nell’ultima parte della Filosofia come scienza rigorosa)? Va precisato, intanto, che questa
scienza rifiuta in modo categorico uno dei principi fondamentali della scienza
nata nel XVII secolo e successivamente sviluppatasi in modo rigoglioso, vale a
dire la distinzione fra qualità primarie e qualità secondarie. E del resto, se
si parte dalle percezioni della mente la cosa è perfettamente comprensibile,
dal momento che nella percezione i due tipi di qualità sono indistinguibili.
Nella IV lezione
Husserl sgombra il campo da ogni equivoco in proposito, perché espone, a
beneficio degli astanti, un caso esemplare di «datità dell’universale» proprio
in relazione al colore, una qualità
tipicamente secondaria fin dai tempi
di Democrito. Io – dice Husserl – ho una singola intuizione – ovvero più intuizioni
singole di rosso. Procedo alla
riduzione fenomenologia, e taglio via ogni elemento trascendente, ad es. il
rosso in quanto proveniente da una carta assorbente che sta sulla scrivania o
da altri oggetti, e a questo punto realizzo, entro il puro guardare, il senso del rosso
in generale o del rosso in specie, vale
a dire l’identico universale rilevato
in questo o quel caso di rosso. Ora l’intentio
è diretta non più verso questo o quel caso singolo, ma verso il rosso in generale, vale a dire il rosso secondo la sua essenza. «potrebbe una
divinità o un intelletto infinito possedere dell’essenza del rosso più che il
fatto di guardarlo appunto nel modo della generalità?» (88).
Questo esempio di
Husserl – nel quale si percepisce chiaramente, tra l’altro, in che senso
Husserl abbia riutilizzato la teoria dell’astrazione e della distinctio rationis di Hume – è già di
per sé significativo. Ma ancora di più lo sono le considerazioni seguenti. La
fenomenologia – dice Husserl – non teorizza e non matematizza, non effettua
cioè alcuna spiegazione nel senso di una teoria deduttiva. Essa finisce là dove
la scienza obbiettivante comincia (89). Il senso del discorso è chiaro. Alla
fenomenologia non interessano le spiegazioni – in questo caso dei colori –
fornite da una teoria deduttiva, ad es. l’ottica di Newton, che ipotizza un
modello di spettro solare e di assorbimento di tutte le lunghezze d’onda meno
una, che una volta respinta dal corpo è esattamente quella che gli dà il
colore. Contro la teoria di Newton, non a caso, si era già pronunciato Goethe
nella Teoria dei colori, e il punto
di vista fatta qui valere da Husserl non è molto distante da quello di Goethe,
confermando che la cultura tedesca non ha mai digerito la rivoluzione
scientifica.
***
L’analisi del
fenomeno della percezione impegnerà a lungo il pensiero di Husserl, in
particolare nelle Idee per una
fenomenologia pura (1913) e in Esperienza
e giudizio, pubblicate entrambe dopo la morte del filosofo. Benché La
fenomenologia di Husserl intendesse tornare «alle cose stesse», secondo il
famoso motto, la sensazione è che le «cose stesse» restino per Husserl un
obiettivo inattingibile, posto che mentre da un lato il mondo rimane qualcosa
di «accidentale», dall’altro si conferma che necessario e indubitabile resta solo
«il mio puro io e il suo vissuto»:
Ogni cosa spaziale, anche se data in carne ed ossa, può non essere, mentre un Erlebnis dato in carne ed ossa non può non essere» (Idee, 101).
È sintomatico, da
questo punto di vista, l’atteggiamento di Husserl nei confronti di Berkeley, un
autore al quale egli viene spesso avvicinato. A parole, Husserl protesta la sua
originalità rispetto a Berkeley:
Non ha afferrato il senso delle nostre discussioni chi obietta che ciò significa travolgere il mondo intero in apparenza soggettiva e gettarsi tra le braccia dell’idealismo di Berkeley. Alla piena validità dell’essere del mondo […] abbiamo tanto poco sottratto quanto poco possiamo sottrarre all’essere geometrico del quadrato negando che è rotondo.
Fin qui la presa di
distanza sembrerebbe chiara. Tuttavia seguono immediatamente alcune considerazioni
estremamente interessanti:
La realtà effettiva non è «stravolta e tanto meno negata; semplicemente, se ne è eliminata una interpretazione assurda, che contraddice al suo proprio senso intuitivamente chiarito. Tale interpretazione deriva da una assolutizzazione filosofica del mondo, che è del tutto estranea alla considerazione naturale del mondo stesso» (Idee, 123).
Quella che Husserl
chiama «assolutizzazione filosofica del mondo» non è altro che la tesi di senso
comune secondo la quale il mondo esiste indipendentemente da noi (cosa
facilmente dimostrabile se si pensa che un tempo esistevano il mondo, i
dinosauri e le zanzare, ma l’uomo non c’era). Nessuno si stupirà, quindi,
nel ritrovare tracce consistenti del vescovo Berkeley cento pagine più avanti:
ciò che è dato in ogni singolo Erlebnis visivo,
scrive Husserl,
è anch’esso, logicamente parlando, un oggetto, ma che assolutamente non sta da sé. Il suo esse consiste esclusivamente nel suo percipi (Ivi, 224).
Il fatto che poi
Husserl aggiunga «questa proposizione non va intesa nel senso di Berkeley»
ritengo possa essere tranquillamente trascurato, perché evidentemente qui ci
troviamo di fronte ad una mera petizione di principio.
La stessa ambiguità
può essere rilevata nelle analisi sottili e certamente per altro verso molto
suggestive – sebbene sia difficile venire a capo del fenomeno della percezione
per via puramente filosofica – sparse nelle mille pagine delle Idee, in particolare la famosa
distinzione fra noesi e noema. Il primo termine designa gli atti
che mirano ad afferrare l’oggetto (percepire, ricordare, immaginare), il
secondo dovrebbe designare l’oggetto stesso (il percepito, il ricordato,
l’immaginato), ma in realtà l’oggetto stesso o la cosa stessa restano in
Husserl un gatto del Cheshire (il gatto di Alice
nel paese delle meraviglie), vale a dire qualcosa di inafferrabile, che
appare e scompare continuamente. L’oggetto in Husserl è un polo di identità che si realizza in ciascun momento della
coscienza, ed è solo l’indice di una intenzionalità noetica (Meditazioni cartesiane, § 19). La
percezione di Husserl non è, come la percezione di Reid, qualcosa che ci
permette di attingere il mondo esterno: essa resta fatalmente un’esperienza della coscienza.
Nemmeno il
materiale raccolto da Landgrebe sotto il titolo Esperienza e giudizio permette di uscire da questa ambiguità,
sebbene siano in esso rinvenibili parecchi spunti in direzione del realismo.
L’opera, invece, sviluppa una critica della scienza nella stesso senso della Crisi delle scienze europee, e Galileo
viene chiamato personalmente in causa.
La matematizzazione della natura, preparata dalla creazione della geometria euclidea con le sue formazioni ideali e sin da Galileo divenuta modello per la ricerca fisica generale, è talmente divenuta cosa ovvia che, già nella creazione galileiana, al mondo della nostra esperienza è stato assegnato a priori il mondo «esatto» e si è interamente trascurato di rifarsi al problema delle operazioni originariamente sensanti per le quali lo spazio esatto della geometria proviene dallo spazio della intuizione con la sua topica vaga e variabile. […] Quest’universo di determinatezza in sé, in cui la scienza esatta coglie l’universo dell’essere, non è altro che un rivestimento di idee gettato sopra il mondo dell’intuizione e della esperienza immediate, sul mondo del vivere (Esperienza e giudizio, 41).
Mentre da un lato
questi passi, e quelli paralleli della Crisi,
confermano un atteggiamento sfavorevole, in linea generale, nei confronti della
scienza moderna, dall’altro essi rinviano ad un problema più generale, emerso
in piena luce in autori come Heidegger e Landgrebe. In breve: la
matematizzazione galileiana non è meno intenzionale
degli altri atti intenzionali che Husserl intende privilegiare, è essa stessa
frutto di una esperienza vissuta. La rivoluzione galileiana è un prodotto
storico, di fatto soppiantato prima dalla rivoluzione newtoniana e poi da
quella relativistica, e dietro l’angolo stanno spuntando da tempo molte novità,
che portano oltre Einstein. Lascio la
parola a Landgrebe:
Non è forse vero che ogni rivolgersi intenzionale ad una unità oggettuale (ed ogni unità oggettuale stessa) è esso stesso originariamente derivato da un comportamento vitale, ed è solamente comprensibile, nel suo significato di vita, in rapporto con quello, in derivazione da esso, così che noi non possiamo affatto comprendere il senso di questo fluire, se lo indaghiamo solamente come la funzione nella quale unità intenzionali si costituiscono come unità oggettualmente polarizzate? In breve: questo scorrere del flusso della coscienza non è solo un riflesso della storicità concreta del corso vitale che giunge a manifestarsi improvvisamente in una situazione astratta? (Fenomenologia e storia, 23-4).
Le osservazioni che
risultano dalla posizione di Dilthey – conclude Landgrebe – sono almeno su
questo punto analoghe a quelle di Heidegger, il quale nota come attraverso
l’essere del mondo venga distrutta l’immanenza della coscienza. Landgrebe
riconosce senza difficoltà l’esistenza di un contrasto fra immanenza della
coscienza estranea al mondo (una posizione certamente più rigorosamente
husserliana) e vita come essere-nel-mondo (Heidegger), ma ritiene che le due posizioni
non siano del tutto irriducibili.
Tuttavia, se
pensiamo, da un lato, che dalla Crisi
prese le mosse Koyré, uno dei maggiori storici
della scienza, dall’altro che Essere e
tempo, sebbene dedicato ad Husserl, rivaluta ampiamente il pensiero di
Dilthey, che Husserl aveva aspramente criticato nella Filosofia come scienza rigorosa, la sensazione è che la forbice fra
le due tendenza della fenomenologia qui delineate sia molto difficile da
richiudere.
Bibliografia
Opere di E. Husserl
- E. Husserl, Filosofia dell’aritmetica, Bompiani, Milano 2001;
- E. Husserl, Ricerche logiche, Il Saggiatore, voll. I-II, Milano 1968;
- E. Husserl, Meditazioni cartesiane, Bompiani, Milano 1970;
- E. Husserl, La filosofia come scienza rigorosa, Paravia, Torino 1958;
- E. Husserl, Logica formale e trascendentale, Laterza, Bari 1966;
- E. Husserl, L’idea della fenomenologia, Il Saggiatore, Milano 1981;
- E. Husserl, Kant e l’idea della filosofia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 1990;
- E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 1961;
- E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, Franco Angeli, Milano 1992;
- E. Husserl. Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologia, Einaudi, Torino 1965;
- E. Husserl, Esperienza e giudizio, Silva, Milano 1965;
- E. Husserl, Fenomenologia e teoria della conoscenza, Bompiani, Milano 2000.
Letteratura secondaria
- F. Brentano, La psicologia dal punto di vista empirico, Voll. I-III, Laterza, Roma-Bari 1997;
- G. Frege, Recensione di E. Husserl, Filosofia dell’aritmetica, in Logica e aritmetica, Boringhieri, Torino 1965;
- F. d’Agostini, Breve storia della filosofia del Novecento, Einaudi, Torino 1999;
- L. Landgrebe, Fenomenologia e storia, Il Mulino, Bologna 1972;
- E. Lévinas, La teoria dell’intuizione nella fenomenologia di Husserl, Jaca Book, Milano 2002;
- G. Lukács, La distruzione della ragione, Einaudi, Torino 1959;
- R. Raggiunti, Introduzione a Husserl, Laterza, Roma-Bari 1970.
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