Franco Rella |
Doriano Fasoli: «A un certo punto ho preferito rivolgermi al piacere della lettura,
che era ancora molto ingenuo, piuttosto che al piacere di giocare con degli
oggetti. E sono rimasto per tutta la vita un uomo di libri, un uomo di
scrittura»: sono parole di Jean Starobinski. Lei come si definirebbe, professor
Rella? Qual è la sua biografia, qual è stato l’itinerario della sua vita?
Franco Rella: Forse
quello che dice Starobinski vale per tutti gli scrittori. E con la parola ‘scrittore’
intendo chiunque faccia della scrittura – quella degli altri, la sua – una
modalità di relazione con il mondo. Prima sono state le storie raccontate da
mia nonna, poi le storie che io stesso mi raccontavo, e poi la lettura ogni
giorno della mia vita. E, a un certo punto, la scrittura.
Poi, con la stessa passione, l’insegnamento. Per questo penso di essere un docente universitario abbastanza anomalo, forse perché non ho mai frequentato una lezione universitaria da studente (lavoravo), non ho mai fatto assistenza. Per un caso fortunato sono passato dall’insegnamento nelle scuole a quello universitario senza salire la strada abituale, senza mai scrivere una riga che non fosse ‘necessaria’, e dunque mai funzionale a un concorso.
Poi, con la stessa passione, l’insegnamento. Per questo penso di essere un docente universitario abbastanza anomalo, forse perché non ho mai frequentato una lezione universitaria da studente (lavoravo), non ho mai fatto assistenza. Per un caso fortunato sono passato dall’insegnamento nelle scuole a quello universitario senza salire la strada abituale, senza mai scrivere una riga che non fosse ‘necessaria’, e dunque mai funzionale a un concorso.
Che cos’è filosofia? Una conoscenza? Un prototipo storico
culturale di una ricerca sull’identità/finalità del mondo? L’oggetto stesso di
una ricerca?
La filosofia interroga il mondo, le cose e i soggetti che
abitano il mondo, per trovare un senso al mondo stesso. In una parola: rivolge
a chi la pratica, a coloro cui si rivolge, al mondo e all’esistenza, quelle che
si definiscono «domande radicali».
Anche l’arte, anche le scienze interrogano il mondo. La ricerca
filosofica, come dice Bataille, si spinge però fino alla sua «scadenza», fino
al fallimento, per ricominciare di nuovo a porre infinitamente le sue domande.
Là dove il reale si presenta opaco, inattraversabile, la filosofia deve trovare
la forza di incrinarlo, di aprire crepe, faglie in cui insinuarsi, mettendo a
rischio in questo anche il suo linguaggio, anche i presupposti da cui essa
parte. Questo, per esempio, è lo stile
della filosofia di Leopardi, di Nietzsche, di Benjamin. Fare filosofia non è
un’attività tranquilla, non deve essere un ‘mestiere’. Oggi spesso lo è: la
filosofia che interroga solo se stessa ottiene risposte che sono già iscritte
nella sua tradizione. La «fatica rischiosa» dell’infinita ricerca filosofica,
per usare le parole di Adorno, ha invece l’obiettivo di trovare nella
generalità la singolarità, e nella singolarità un senso che va al di là della
sua semplice presenza, perché, come ha detto ancora Bataille, «ciò che è è sempre
più di ciò che è.» I Greci, diceva Nietzsche, amano la superficie, vale a dire
il mondo delle cose, per amore di profondità: per quel più di essere e di
verità che sta dentro la cosa, nascosto in essa.
Mi sovviene che nel corso di una conversazione con Wilfred Bion – uno studioso che ha creato proprie categorie semantiche – lo psicoanalista Salomon Resnik gli chiese cosa pensasse di un rapporto di tipo formale o categorico, e di un dialogo possibile tra filosofia e psicoanalisi. La risposta di Bion riportò all’attenzione alcuni problemi. Primo fra questi: se la filosofia (che si basa sulla riflessione e sulla conoscenza) sia scienza oppure no (il che ne mette in discussione il carattere formale). In secondo luogo, se la questione stessa del rapporto tra queste due prospettive sia corretta. Bion, con fermezza, gli disse: la psicoanalisi deve trovare al proprio interno, nella sua esperienza, gli strumenti per il filosofare e proporre le sue proprie categorie «scientifiche». Egli poneva il problema dell’interdisciplinarità, che è molto complesso e difficile da definirsi. Si parla spesso dei rapporti tra linguistica e psicoanalisi, tra sociologia e psicoanalisi, ma tutta la questione verte sul senso che si dà al rapporto stesso… Lei cosa ne pensa?
Mi sovviene che nel corso di una conversazione con Wilfred Bion – uno studioso che ha creato proprie categorie semantiche – lo psicoanalista Salomon Resnik gli chiese cosa pensasse di un rapporto di tipo formale o categorico, e di un dialogo possibile tra filosofia e psicoanalisi. La risposta di Bion riportò all’attenzione alcuni problemi. Primo fra questi: se la filosofia (che si basa sulla riflessione e sulla conoscenza) sia scienza oppure no (il che ne mette in discussione il carattere formale). In secondo luogo, se la questione stessa del rapporto tra queste due prospettive sia corretta. Bion, con fermezza, gli disse: la psicoanalisi deve trovare al proprio interno, nella sua esperienza, gli strumenti per il filosofare e proporre le sue proprie categorie «scientifiche». Egli poneva il problema dell’interdisciplinarità, che è molto complesso e difficile da definirsi. Si parla spesso dei rapporti tra linguistica e psicoanalisi, tra sociologia e psicoanalisi, ma tutta la questione verte sul senso che si dà al rapporto stesso… Lei cosa ne pensa?
Se guardo all’indietro, al mio passato, mi pare di aver iniziato a
pensare con Freud dai saggi pubblicati alla fine degli anni Sessanta inizio
anni Settanta su Nuova Corrente al mio primo libro del 1977 La
critica freudiana, fino a Il silenzio e le parole…
Penso che Freud abbia
fatto nel XX secolo l’unico passo decisivo dopo Nietzsche. Partendo dalla messa
in questione della «verità», Freud ha proposto una verità costruita, una verità che si costruisce attraverso narrazioni, che
si modifica e che ci modifica. Una verità che non si dà, platonicamente, come idea atemporale, ma che s’interseca con
il tempo, perverte la temporalità – come ho cercato di dimostrare ne Il silenzio e le parole – costringendoci
a pensare a una pluralità di tempi relativi a un soggetto che non è più individuo, che è esso stesso pluralità.
Questo è l’immenso lascito di Freud, al di là di ogni «applicazione» della
psicoanalisi (una «diversione», come scriveva Freud nel 1935, riferendosi anche
alla terapia). Cercare di costruire uno statuto formale o categoriale del
pensiero di Freud significa piegare l’analisi e ricondurla all’interno di una
epistemologia generale che detta le sue regole. Legittimo che gli psicoanalisti
più avvertiti lo facciano. Ma, a mio giudizio, la questione è altra. La posta
in gioco è altra.
Tutti gli studiosi di Heidegger, tutte le
grandi voci che lo rappresentano (che si chiamano Marcuse, Hannah Arendt,
Löwith, Polack, Derrida… ma se ne possono citare trenta, quaranta) sono tutti
ebrei. Benjamin tiene d’occhio Heidegger fin dall’inizio; Lévinas dice
testualmente: «Non soltanto incomparabile, ma del livello di Platone e di Kant»;
la filosofia francese vive di quest’uomo (quella di Foucault, per esempio).
Anche per lei Heidegger è stato una passione?
No. Non ho mai amato Heidegger, pur
riconoscendo in lui una incomparabile capacità di maneggiare la problematica
filosofica. Heidegger, affermando di superare la metafisica (la metafisica
«ontica» che trova il fondamento dell’ente al di là dell’ente stesso), ha
costruito, come dice Galimberti, un’immensa metafisica ontologica che ha
esercitato un fascino immenso. È stata vissuta come la riproposta della «grande
filosofia», un discorso che pur dandosi come non sistematico, aveva la pretesa
di porsi come una spiegazione complessiva, totale del reale e dell’al di là del
reale, come era accaduto in passato all’interno dei grandi sistemi filosofici,
in Platone o Hegel. L’enfasi con cui Heidegger si propone come il primo pensatore
al di là della metafisica è l’enfasi della dichiarazione di un nuovo inizio. Di
qui l’enorme influenza, il fascino immenso. Penso a Lévinas, che, come lei
dice, trova Heidegger incomparabile o paragonabile solo a Platone e a Kant: eppure
ha anche affermato che la «cura per l’essere» ha portato Heidegger a trascurare
del tutto gli esseri. Ha affermato che il suo Mitsein (essere-con) è in realtà un mitmarschieren (un marciare insieme) del tutto compatibile con il Nazismo.
Ciononostante Lévinas – ebreo come lei ricorda – riconosce che il proprio pensiero
affonda le radici e si muove da Heidegger.
Ha conosciuto personalmente il filosofo Gilles Deleuze, ala più
grande macchina pensante del XX secolo» (secondo Carmelo Bene)? Se sì, che
ricordo ne conserva? Cos’è che lo distingueva da Foucault e Derrida?
Ho conosciuto Deleuze durante un convegno, e non è stato un
incontro memorabile. Ho dedicato a Deleuze, a Foucault, a Lacan e a Derrida già
nel 1978 un piccolo libro di aspra polemica, Il mito
dell’altro (che è stato tradotto anche negli Stati
Uniti).
Cerco di chiarire facendo anche un passo indietro, perché la questione
è importante (e riportandomi, per un istante, a Bataille, che viene un poco
prima di Deleuze e di Foucault). Bataille verifica – e lo verifica drammaticamente
– che la filosofia di Hegel non è più in grado di parlare del mondo in cui egli
vive. Il pensiero sembra preso in una antinomia irrisolvibile: o sacrificare il
singolo al sistema, o confrontarsi con la singolarità al di fuori di ogni
sistema, dunque al di fuori di ogni fondamento, al di fuori di ogni possibilità
di darne ragione. Anche Nietzsche – filosoficamente più avvertito di Bataille –
aveva verificato drammaticamente la stessa difficoltà, facendola risalire a
tutta la storia della filosofia. Ma distrutte le «vecchie tavole», distrutto il
sistema di valori e il fondamento metafisico su cui essi posavano, egli si
trova nell’impossibilità di proporre nuove tavole, se non rinviandole ad un
mitico oltreuomo.
Nietzsche e Bataille si trovano di fronte alla stessa difficoltà. Non è
un caso se Bataille inizia il suo Su
Nietzsche affermando che se non esiste comunità Nietzsche è un filosofo, in
quanto la filosofia di Nietzsche non è in grado di affrontare il tema della
comunità: tema che è centrale e che ossessiona Bataille, senza che egli sappia
trovare soluzione. La comunità presuppone eticità, valori, interesse. Nietzsche
rianima su questa lacerazione una filosofia tragica; Bataille la filosofia
dell’impossibile, che è la parola chiave della sua opera. A questo vanno
riportati tutti i suoi scritti: quelli filosofici e quelli narrativi.
Deleuze, Foucault,
Derrida sono eredi di Nietzsche, ma sono eredi anche di Bataille e di
Heidegger. Anch’essi esprimono l’esigenza di interpretare la realtà in cui
vivono, il loro mondo. Il ricorso a Heidegger offre la strada per uscire
dall’antinomia che travaglia il testo di Nietzsche e quello di Bataille. In
Heidegger gli enti coprono letteralmente l’essere. Risalire all’origine,
all’essere, alla verità e al suo disvelamento significa in qualche modo
liquidare la questione dell’ente. Per i filosofi francesi tra gli anni Sessanta
e metà degli anni Ottanta questo significa liquidare la questione del soggetto,
o almeno, nella variante italiana di Gianni Vattimo, indebolirlo.
I dispositivi di Foucault (vale a dire i discorsi che definiscono una
soggettività seconda e derivata), il rizomatismo di Deleuze, la disseminazione
di Derrida mettono fuori luogo la soggettività (la fine del soggetto, la morte
dell’autore). Prima parlavo di Freud e di una verità che si costruisce
narrativamente. La morte del soggetto, la fine dell’autore significano la messa
in questione del soggetto di questa narrazione, del soggetto dell’enunciato.
Significano, in altre parole, la sparizione di un soggetto che si assuma la
responsabilità di ciò che enuncia. È una questione capitale. Se il discorso non
ha fondamento né in un correlato oggettivo (l’arbitrarietà del significante di
cui parla Saussure), né in un’istanza metafisica che lo garantisca, ciò che
solo può garantisce il discorso è la responsabilità del soggetto che lo
enuncia. Rimosso il soggetto, sparisce questa responsabilità: la questione
della verità viene messa «fuori luogo» insieme a ogni dimensione etica del
discorso.
Questa filosofia non ha e non vuole avere attrito sul reale. Il mondo
diventa una sorta di spettacolo virtuale. Il «corpo senza organi» di Deleuze
non ha carne, non ha sangue, è indifferente e indifferenziato. E può
illimitatamente tutto, come hanno creduto gruppi eversivi degli anni Settanta
che a questo pensiero si sono richiamati. Ma, al di là di queste uscite
eversive, è un pensiero che scorre sullo scorrimento della realtà. È a questo
che reagivo ne Il mito dell’altro. Le ragioni di allora mi sembrano tuttora valide.
Il successo di questa filosofia negli Stati Uniti è dovuto al fatto che
essa è l’altra faccia della filosofia analitica americana, una filosofia che si
piega sui linguaggi e che rifugge alla problematizzazione del reale. È l’altra
faccia di quella che oggi viene chiamata ‘consulenza filosofica’: una filosofia
che funziona come antidoto dell’ansia, invece che provocare ansia, l’ansia
della ricerca.
Siamo in un’epoca difficile e problematica. Si parla di «postumano». Le
biotecnologie mutano il nostro rapporto con la sofferenza, con il tempo, con la
vita e con la morte. Questo comporta, come ha detto Adorno, che il pensiero
debba pensare contro se stesso, non rinunciare alla responsabilità del
pensiero.
La modernità è legata all’idea di accelerazione. Però è sempre
rimasta viva una nostalgia per un tempo in cui non esisteva questa
accelerazione che è anche una forma di erosione della nostra esistenza. Siamo
sotto osservazione in tempo reale. E questo crea anche una omogeneizzazione nei
modi di agire. Senza predicare un ritorno all’interiorità, si può credere –
secondo lei – alla capacità rigeneratrice del silenzio per non essere subissati
da un'enorme massa di informazioni senza filtro?
Come dicevo siamo in un’epoca di omogeneizzazione dei modi di
agire, ma anche di pensare e di vivere. Il problema non è difendersi dal ‘rumore
bianco’ – vale a dire l’immenso brusio indistinto che finisce per essere
silenzio – con il silenzio. Il problema è sempre quello di trovare le parole
che dicano anche il silenzio, che testimonino anche l’impossibilità di parlare.
La grandezza della poesia e dell’arte del XX secolo è stata anche quella di
testimoniare l’afasia, di testimoniare la caduta della parola. Paul Celan,
Beckett, Kertész, ma anche Pollock e Lucio Fontana, sono questo. E risalendo
all’inizio del moderno, anche Kafka, Montale, Eliot e, appunto, Freud,
Bataille.
Oggi esistono dappertutto i «mercanti di diete sane, i mercanti
del rilassamento, i mercanti di concentrazione e di meditazione e soprattutto
quelli che dispensano promesse d’ordine tecnico»… Occorre diffidare «dei
mercanti di meditazione, di quelli che la vendono a caro prezzo, di quelli che
vendono la loro parola a caro prezzo, come facevano i sofisti della Grecia»?
Il rispetto che Platone porta nei confronti di Protagora o di
Gorgia mentre li combatte ci dice che i sofisti in realtà non promettevano «rilassamento».
La loro è una visione problematica: la visione di un mondo senza certezze, in
cui l’unica verità possibile, come diceva Gorgia, è in un inganno consapevole.
Oggi si propone (e si veda la ‘consulenza filosofica’ o libri come Platone meglio del Prozac) una meditazione che è massaggio, rilassamento. Non disalienazione, ma
sopore.
Cosa ci insegna essenzialmente la storia?
C’è un racconto di Kertész, «Il cercatore di tracce», in cui il protagonista, sopravvissuto ad Auschwitz, cerca le tracce di
questo passato. Incontra l’indifferenza di chi è stato complice dell’orrore, e,
quando giunge sul luogo, non lo riconosce: bandiere, bookshops, pullman. E, al di là di questo, il revisionismo. La
nostra epoca è ossessionata dalla memoria. Vorrebbe conservare tutto in un
museo e al tempo stesso disinnesca la memoria. Pensi alle «Giornate della
memoria»: dopo quella dell’olocausto, quelle delle foibe, oggi quella delle
vittime del terrorismo. Cento giornate della memoria, e alla fine, gli eventi ricordati diventano uguali,
indifferenti.
Attribuisce molta importanza alla funzione dell’insegnamento?
Un’importanza decisiva. È per me uno scambio reale. In più di
trent’anni di insegnamento universitario non ho mai ripetuto un corso. Voglio
costantemente misurarmi con i miei giovani e giovanissimi interlocutori, che mi
hanno dato almeno altrettanto di quanto io ho dato a loro. Cercare di spiegare
la filosofia, l’estetica ai giovani, confrontarli con le grandi opere del
pensiero costringe anche noi a ripensarle. Le idee più significative dei miei
libri sono nate di lì.
Professor Rella, se glielo chiedessero, verso chi o cosa
indirizzerebbe il suo «J’accuse»?
All’infame sistema universitario italiano che esclude
l’ingresso ai giovani. L’età media dei docenti della mia università si avvicina
ai sessant’anni e da anni non si sono attivati concorsi per giovani
ricercatori. Le selezioni raramente, anche a livello di dottorati, sono per
merito. L’università è un organismo che rischia di implodere su se stesso.
Che posto occupa Georges Bataille nel panorama della
letteratura francese del secolo scorso, in particolare? In che cosa consiste la
potenza eversiva del suo pensiero? E quali sono state le sue più profonde
intuizioni arrivate fino ad oggi, per così dire, intatte?
Credo di aver risposto a questa domanda nel corso di tutta il
nostro dialogo. L’aspetto scandalistico dell’opera di Bataille ha oscurato la
sua immensa portata filosofica, le drammatiche questioni che essa pone. È
proprio nel mio corso dell’anno scorso, nel confronto con gli studenti e
dialogando con una giovanissima collaboratrice, Susanna Mati, oggi docente a
contratto per pochi spiccioli, è nato un libro, Bataille.
Filosofo, che ripropone l’urgenza delle questioni
sollevate da Bataille, che sono in parte quelle di cui ho parlato sopra. Vorrei
richiamare soltanto che Bataille afferma che Madame
Edwarda non può essere letto se non sullo sfondo de L’esperienza
interiore, e che, nella prefazione a questo piccolo
grande racconto, ci sono tutte le ragioni della sua filosofia dell’impossibile.
Subito dopo la sua morte Tel Quel ne
ha fatto un narratore di avanguardia. Si è ripetuta la parola «maledetta», che
è nel titolo La parte maledetta, senza cercare di capire che cosa Bataille cerchi di dire con questo
termine. È un termine usato anche da Nietzsche in uno dei suoi ultimi Frammenti postumi. La mia filosofia, dice
Nietzsche, si occupa degli aspetti maledetti. Questi aspetti maledetti non
avevano nulla a che fare con il sesso. E Bataille afferma che Madame Edwarda è «indipendente […] dalle transes sessuali propriamente dette».
Molti studiosi, digiuni di cognizioni
psicoanalitiche, esaltano puntualmente alla prima occasione le straordinarie
doti letterarie di Freud, salvo riconoscerne la fondamentale attività
teorico-clinica. Lei cosa ne pensa?
Come ho detto, Freud rappresenta l’unico passo decisivo del
pensiero del Novecento dopo Nietzsche. Freud è stato anche un grande scrittore.
Uno dei miei primi saggi era appunto intitolato «Lo stile di Freud». La sua grandezza di scrittore è nel tentativo, come ho detto, di
proporre una nuova via, la via narrativa, alla verità. Il rischio, nell’enfasi
sulla qualità della sua scrittura, è di chiudere la portata rivoluzionaria del
suo pensiero ad una dimensione estetica.
A distanza di tanti anni dalla sua pubblicazione, come le
appare il suo libro Il silenzio e le parole. Il
pensiero nel tempo della crisi? Come fu accolto
allora dalla critica?
Il libro, all’uscita, ha avuto quattro edizioni in un anno, poi
successivamente un’altra edizione, ed è stato riproposto recentemente in
edizione economica, come Miti e figure del moderno, anch’esso uscito nel 1981. Queste riedizioni a un quarto di secolo
dalla prima edizione, mi pare indichino una vitalità di questo libro, come di Miti e figure o de L’enigma
della bellezza, in economica nel 2006 e già
ristampato all’inizio del 2007.
Ho l’impressione che sempre più ci si stia avvicinando a quello che
proponevo allora, e che ho ribadito anche in questa nostro dialogo. Cosa che
sottolinea una coerenza del mio lavoro che pure si è articolato su vari fronti.
Ciò che allora proponevo era appunto questa via narrativa alla verità e la
necessità che la filosofia si confronti con questa verità che abita soprattutto
nei territori dell’arte. Vorrei citarle, se mi permette, l’Avvertenza a Il silenzio e le parole del giugno 1980:
Questo libro si muove in un campo circoscritto e liminare, dai confini poco definiti: una zona che sta alla frontiera tra letteratura e filosofia. La scelta di questo spazio dipende dalla mia convinzione che qui, nel transito e nel rapporto fra queste due forme del pensiero, si siano prodotti nel nostro secolo alcuni dei modelli più radicali di analisi critica del reale, che evidenziano in modo decisivo il mutamento dei quadri concettuali e delle immagini del pensiero finora dominanti.
Il libro è uscito quando esisteva ancora una passione per la
discussione critica che oggi non esiste più. Non si dialoga più: ci si esibisce
nei convegni e nei festival. Penso a riviste come Alfabeta o come Aut Aut,
ma anche l’attenzione della stampa quotidiana e periodica. Il libro è stato
recensito lo stesso giorno in terza pagina dal Corriere e a piena pagina da Repubblica.
Era il libro di un quasi esordiente. Oggi questo sarebbe impensabile.
Impensabili i dialoghi e le discussioni che stavano dietro ad alcuni episodi
culturalmente significativi. Penso, per esempio, al volume collettivo Crisi della ragione, curato da Gargani nel
1979. Penso alle discussioni su Foucault nel Dipartimento di Storia dell’Architettura
all’IUAV, dove insegnavo e dove insegno ancora oggi, anche se in un'altra
Facoltà. È a queste discussioni che, all’uscita de Il
silenzio e le parole, la piccola cooperativa
universitaria ha venduto 190 copie in una settimana. È a queste discussioni che
si deve che Il dispositivo Foucault – pubblicato sempre da questa cooperativa – sia andato esaurito in
poche settimane.
Da che cosa è contrassegnato l’epistolario flaubertiano da lei
curato per Fazi con il titolo L’opera e il suo doppio.
Dalle lettere? Che cosa emerge da esso?
Ho incontrato l’epistolario di Flaubert nel 1980. È stata una
scoperta sconvolgente. La scoperta di un altro Flaubert, rispetto all’autore
dei romanzi che conoscevo. Esiste un solo altro epistolario altrettanto denso,
ricco, drammatico: ed è l’epistolario di Kafka. L’edizione che ho curato è un
atto d’amore, una risposta a una passione. È anche il tentativo di restituire
in quattrocento pagine il senso complessivo di un’opera umanamente e
letterariamente immensa che si estende per quasi cinquemila pagine.
Arriviamo al suo ultimo libro, pubblicato per Fazi: Micrologie. Territori di confine. Da quali
sollecitazioni esso muove? Quali aspetti tocca della nostra epoca?
Mi permetta anche qui di citare qualche riga dall’Avvertenza
che apre Micrologie e che è
stata riportata nel risvolto di copertina:
Siamo in un’epoca in cui la filosofia sembra aver perduto il suo «attrito» sul mondo. Micrologie nasce in quest’epoca, ma si oppone, come può, ad essa. Dopo Auschwitz, e dopo l’orrore che Auschwitz ha inaugurato e che dilaga sotto i nostri occhi, si è frantumata, dice Adorno, la compatibilità tra il pensiero filosofico e l’esistenza. Compito del filosofo è oggi cercare di stabilire un ponte, una connessione possibile, tra pensiero e esistenza, tra pensiero e esperienza.
Su questo punto Micrologie insiste, appunto in modo «micrologico». È una sequenza di domande che vengono poste alla filosofia e che, ricevendo risposte solo parziali e frammentarie, vengono via via ribadite accanitamente nel tentativo di pensare o di imparare a pensare, talvolta partendo da una minuscola occasione, i nodi che emergono come spigoli dalla nostra contemporaneità e che resistono alla tentazione dell’indifferenza, a quella che vorrei chiamare apatia del pensiero, cercando di investire il grande problema che sempre è stato al centro di ogni vera riflessione filosofica: il tema della polis, il tema dell’etica e dell’eticità.
In una parola per me Micrologie è un tentativo di combattere l’apatia del pensiero, di rianimare il pathos del pensiero, che potrebbe essere
il titolo del mio prossimo libro.
Musil diceva che tutti gli uomini sono narratori nei confronti
di se stessi, che raccontarsi storie è un modo per tentare di mettere ordine
nel mondo e per tenere a bada una realtà disordinata e angosciosa… Lei cosa ne
pensa?
Gli uomini si narrano storie che danno senso al mondo. Lo
scrittore lo fa scrivendo. Lo dice Starobinski, lo affermano Flaubert e Kafka.
Non sempre questa narrazione tiene a bada la realtà. Certe volte la provoca, la
eccita. Kafka diceva che la scrittura deve tentare i confini del mondo.
Bataille che essa deve giungere all’impossibile. Ma questo avviene non solo per
lo scrittore. Chiunque si narri, chiunque si racconti, anche solo per se stesso
e dentro se stesso, prova il brivido di questo impossibile. Subisce la
tentazione di sollecitare un lembo del disordine e dell’angoscia, magari
nell’insonnia, magari camminando lungo una strada al crepuscolo, magari
specchiandosi all’improvviso sconosciuto nel riflesso di una vetrina. Inizia
una storia possibile, una storia che può sedare la nostra inquietudine, o che
può spingerci verso l’ignoto che è in noi e fuori di noi, verso il mistero.
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