Remo Bodei |
Doriano Fasoli: Un tempo si puntavano le telecamere sulla realtà sociale e politica, oggi vengono puntate sul buco della serratura della camera da letto. Perché il pubblico segue con tale morbosità e assiduità i reality-show? Per non pensare? E in cosa differisce dunque l'immaginario del presente da quello del passato? Nell'essersi impastato maggiormente con il quotidiano? E se il fittizio sembra ormai sempre più sostituirsi al reale, attraverso quale via di fuga salvarsi? Come disinquinarsi psichicamente?
Remo Bodei: Ciascuno di noi vive nell'immaginazione altre vite, alimentate dai testi letterari e dai media. Per loro tramite tentiamo, da una parte, di porre rimedio alla limitatezza dell'esistenza individuale, al dipendere da condizioni non scelte, che, a posteriori, appaiono casuali (luogo e data di nascita, corpo e famiglia, lingua e società), dall'altra, di contrastare il progressivo restringersi del cono dei possibili nel corso degli anni. Siamo, infatti, costretti a conquistare la nostra identità attraverso scelte dolorose, amputando o potando una dopo l'altra le successive ramificazioni del nostro essere e cancellando abbozzi di io che avrebbero potuto fissarsi. Il problema è che oggi, specie in Occidente, questo completamento di se stessi viene ottenuto attraverso una mimesi dei valori più degradati, dei sogni di successo e di notorietà che quotidianamente vengono proposti dai media, così che milioni di persone sono guidati dall'esterno, quasi fossero uomini e donne d'allevamento. Per disinquinarsi psichicamente occorrerebbe proporre mete allo stesso tempo più elevate e più soddisfacenti: cosa non semplice.
Remo Bodei: Ciascuno di noi vive nell'immaginazione altre vite, alimentate dai testi letterari e dai media. Per loro tramite tentiamo, da una parte, di porre rimedio alla limitatezza dell'esistenza individuale, al dipendere da condizioni non scelte, che, a posteriori, appaiono casuali (luogo e data di nascita, corpo e famiglia, lingua e società), dall'altra, di contrastare il progressivo restringersi del cono dei possibili nel corso degli anni. Siamo, infatti, costretti a conquistare la nostra identità attraverso scelte dolorose, amputando o potando una dopo l'altra le successive ramificazioni del nostro essere e cancellando abbozzi di io che avrebbero potuto fissarsi. Il problema è che oggi, specie in Occidente, questo completamento di se stessi viene ottenuto attraverso una mimesi dei valori più degradati, dei sogni di successo e di notorietà che quotidianamente vengono proposti dai media, così che milioni di persone sono guidati dall'esterno, quasi fossero uomini e donne d'allevamento. Per disinquinarsi psichicamente occorrerebbe proporre mete allo stesso tempo più elevate e più soddisfacenti: cosa non semplice.
La massa di informazioni contraddittorie che circolano, gli stimoli che arrivano alla coscienza, alla mente, attraverso la vista e l'udito, sono così caotici, violenti, si sovrappongono fra loro, al punto da creare un rumore assordante. Non è più un messaggio percettibile che viene comunicato, ma un colpo di manganello, un qualche cosa di asfissiante, una serie di messaggi contraddittori, assolutamente opposti fra loro, che, nella maggior parte dei casi, l'individuo non riesce a sbrogliare, a separare. Tutto viene assorbito dall'individuo e la somma è uguale a zero o all'infinito. Starobinski, ad esempio, arrivò persino a dire che nel mondo contemporaneo c'è una specie di disperazione davanti all'impossibilità di educare l'individuo prima che sia sommerso da messaggi incoerenti che lo lasciano completamente disorientato. Si sente in sintonia con questo punto di vista?
Come aveva già osservato Georg Simmel nella Filosofia del danaro del 1900, l'uomo moderno, soprattutto l'abitante delle metropoli, è bombardato da una quantità di stimoli che non riesce a elaborare se non con una selezione drastica e mirata che lo rende insensibile a tutto quanto esclude. Per questo i messaggi, più che massaggi, tendono a essere violenti. Si deve 'bucare' lo schermo; i terroristi devono farsi sentire anche attraverso i media con comunicati che facciano colpo; la politica è fatta di annunci più che di programmi e così via. In questo modo anche l'educazione diventa frastornata dalla pluralità e dall'incoerenza dei messaggi. Le due principali agenzie educative tradizionali (la famiglia e la scuola) hanno perso il loro duopolio e sono insidiate da televisione, videogiochi, pubblicità, mentalità di gruppo o di branco di coetanei dei bambini o dei ragazzi. Sì, Starobinski ha ragione.
L'oggetto della psicoanalisi – dice Salomon Resnik – è questa ricerca mutua, e il transfert è un oggetto mutante o mutativo. L'uno e l'altro, paziente e psicoanalista, sono pieni di varianti in gioco, di categorie in azione, cioè di uno stato di trasformazione continua. Anche la categoria «silenzio» cambia da un istante all'altro. Dunque, se l'oggetto della psicoanalisi è mutabile, qual è l'oggetto della filosofia?
La filosofia è stata paragonata all'impero bizantino, nel senso che perderebbe una provincia dopo l'altra a favore delle scienze, le quali escono dal suo seno, ma si emancipano presto da una tutela divenuta ingombrante. Essa cambierebbe perché diventerebbe sempre più povera. Questa immagine è inappropriata, se non altro perché esprime una concezione statica del sapere che non corrisponde, nell'insieme, ad alcuna pratica effettiva: i confini delle varie discipline mutano, infatti, continuamente, così come il valore di paradigma assunto dalle singole scienze per la filosofia (la matematica e la fisica nel Seicento; più tardi la biologia, la fisiologia, la psicoanalisi o la linguistica; oggi l'intelligenza artificiale o l'antropologia culturale). Più che alla decadenza inarrestabile dell'impero di Bisanzio, le vicende della filosofia sono paragonabili – per usare una metafora tratta dalla geologia – alla registrazione dei movimenti tettonici generalmente lenti, ma talvolta «catastrofici» del globus intellectualis, i quali manifestano, non raramente, il senso delle fratture e delle collisioni tra le grandi «zolle» concettuali da cui tutte le civiltà sono sostenute. Le culture umane subiscono, in effetti, incessanti trasformazioni molecolari, che ritraducono e riqualificano i loro contenuti e le loro forme, con un processo analogo a quello delle lingue che inavvertitamente si modificano (non vi sarebbe, del resto, alcun mondo vitale umano se non esistessero questi sistemi simbolici che accomunano la specie nella facoltà di emettere suoni articolati e significanti). Le mappe mentali ed emotive – e con loro il valore implicitamente attribuito a persone, luoghi e percorsi – si trasformano quindi in maniera generalmente lenta, ma inesorabile. Solo ad un certo punto si producono o vengono avvertite le discontinuità 'catastrofiche'. Attraverso le generazioni si consacrano così istituzioni e spazi nuovi o si desacralizzano e si dimenticano antichi idoli e luoghi di culto. Qualcosa di analogo, ma con maggiore consapevolezza delle implicazioni, avviene nel campo delle idee. Proprio in questi periodi di accentuata crisi la filosofia svolge il suo compito più importante: ridisegna criticamente le variazioni delle mappe di senso, orienta nuovamente gli individui rispetto ai continui mutamenti di assetto delle idee e dei valori, distrugge modi di pensare e di rappresentare inadeguati, settari o menzogneri.
Lei si considera fondamentalmente un realista? Uno che crede fermamente nella verità dei fatti?
Non imposterei così il problema. Sono lontano tanto dal dire, secondo un certo Nietzsche, che «non esistono fatti, ma solo interpretazioni», quanto dal ritenere che la nostra mente sia uno specchio che riflette la realtà. Credo che, attraverso i nostri organi di senso (diversi da quelli di un'ape, che vede l'ultravioletto, o di una gallina, che vede l'infrarosso, o di un cane, che ha un olfatto mille volte più potente del nostro, o di un pipistrello che usa il suo speciale radar), con il nostro cervello e il nostro corpo noi uomini siamo programmati per percepire la 'realtà' in un certo modo, ma che poi siano tradizioni plurimillenarie ad organizzare e specificare la percezione e il pensiero. Penso cioè che non esistano «nudi fatti», ma che i fatti siano sempre vestiti. Il problema è vestirli bene, secondo i criteri di una buona sartoria intellettuale e non secondo l'approssimazione dei grandi magazzini, che conoscono solo le misure Small, Medium, Large e Extra-Large.
Qual è, per lei, il primo passo da compiere per una propria trasformazione?
L'autosovversione deve essere continua, pur nel quadro di una fedeltà a se stessi che salvi sia dall'opportunismo, sia dalla sclerotizzazione. La stella polare dovrebbe essere quella di una crescita comune della propria persona e della comunità in cui si vive. Il detto di Pindaro – ripreso da Aristotele e da Nietzsche – «Diventa quel che sei!» ha un valore soprattutto morale, come invito alla coerenza, ma verrebbe da dire che, imparando dagli altri, bisognerebbe anche diventare quel che non si è, modificarsi. Quando Socrate incontrò un fisionomista, mi pare si chiamasse Zopiro, questi dedusse dai tratti del suo viso che il filosofo aveva un temperamento lussurioso. I discepoli di Socrate si indignarono, ma Socrate pacatamente osservò che Zopiro aveva ragione: la sua natura sarebbe stata quella, ma lui era riuscito a cambiarla.
Quanto è presente uno psicoanalista come Wilfred R. Bion nei suoi lavori?
Non molto, anche se l'ho sempre letto volentieri e ho apprezzato quanto la sua formazione anglo-indiana sia riuscita ad incidere su una psicoanalisi di origine mitteleuropea.
Si è mai interessato all'opera dell'antropologo René Girard?
Sì, lo ho anche conosciuto personalmente in alcune occasioni. Oltre a essere un uomo delizioso, mi sembra uno dei principali punti di riferimento del pensiero contemporaneo. Le sue teorie sul «desiderio mimetico» (l'esperimento dei dieci bambini chiusi in una stanza con dieci giocattoli assolutamente uguali che litigano perché ciascuno desidera quel che l'altro desidera), sul «capro espiatorio» e su Gesù che, attraverso il perdono, spezza la catena della vendetta, mi sembrano dei pilastri della nostra cultura.
Ne Le logiche del delirio. Ragione, affetti, follia (pubblicato da Laterza) lei si è sforzato di capire come i deliranti percepiscano il mondo, costruiscano i loro concetti, dispongano i loro argomenti e intreccino desideri e paure a percezioni e idee. Che cos'è, essenzialmente, il delirio?
Il delirio schizofrenico in fase acuta (ne esistono altri dovuti all'avvelenamento da alcool, a droghe, ad assenza di sonno o allo stadio cronico della schizofrenia stessa che hanno manifestazioni diverse) è un modo estremo di vivere l'invivibile. Quando un individuo si trova di fronte a situazioni soggettivamente avvertite come intollerabili, allora si crea un mondo parallelo in cui credere fermamente. Lo difende così da quanti ne mettono in dubbio la realtà e la consistenza giudicandoli dei persecutori. Riformula in tal modo le proprie condizioni di esistenza secondo desideri e criteri arcaici.
Le sembra che a tutt'oggi la cultura continui ad adottare un atteggiamento difensivo nei confronti della psicoanalisi?
L'impatto della psicoanalisi, il suo scandalo, è stato sostanzialmente assorbito nel corso di un secolo e la sua pratica si è spesso trasformata in una sorta di officina di riparazione dell'anima a prezzi elevati. Negli ultimi decenni le neuroscienze e la farmacologia hanno invece compiuto progressi impressionanti, diffondendo l'impressione che la psicoanalisi sia inutile e antiquata (a ciò si aggiunge, negli Stati Uniti, l'accusa di ipocrisia e di scorrettezza politica a Freud, perché, dopo aver riconosciuto gli abusi sessuali sui minori, egli li ha per lo più degradati a false reminiscenze o a fantasie inconsce). In realtà, la psicoanalisi, se ben condotta, è in molti casi tuttora indispensabile, sebbene richieda tempo e coraggio, proprio perché insegna a guardare in faccia la Gorgone dei propri traumi e problemi e non a inebetirsi o a non pensare grazie a mezzi chimici.
Arriviamo ora a Destini personali (edito da Feltrinelli): come si situa rispetto ai suoi lavori precedenti (Scomposizioni, Geometria delle passioni)? Qual è lo spirito che lo informa e su quali idee poggia?
Evitando di praticare una filosofia che sfoci in forme di adorniana «conciliazione forzata», mi sono proposto di espandere la regione dell'intelligibilità senza esaurire gli aspetti di alterità (passione, delirio, storia, bellezza) mediante la loro assimilazione, colonizzazione o assoggettamento non violento alla razionalità stessa. Per parafrasare Lévi-Strauss, che parlava di pensée sauvage (intesa non come pensiero dei selvaggi, ma come pensiero spontaneo, perché la pensée sauvage in francese è anche un fiore, la viola tricolor), ho cercato di combattere la vie sauvage, la vita inselvatichita per essere stata abbandonata dal pensiero alla ricerca dell'esattezza assoluta. Mi rifiuto di credere che vi siano fenomeni che non possono – entro certi limiti – essere compresi: in maniera, certo, non definitiva. Non ritengo che questo atteggiamento conduca a una filosofia impressionistica. Non amo affatto il pensiero seduttivo, in cui l'uso della letteratura diventa una foglia di fico per fare a meno di argomentazioni stringenti. Preferisco la filosofia agonistica, in cui ciascuno porta un argomento che vuole essere migliore degli altri, ma è pronto a cedere se ne incontra uno ancora più persuasivo. Nella discussione ragionevole essere con-vinti significa essere vinti insieme, senza umiliazioni personali, dalla forza dell'argomento.
Nel mio ultimo libro, Destini personali, questo tentativo si è cristallizzato in un'opera che, nelle mie intenzioni, completa un trittico comprendente Scomposizioni e Geometria delle passioni. Al loro centro si pone la genealogia dell'individualità moderna occidentale, vista, per così dire, a partire da due estremi, da due nuove sorgenti del nec tecum nec sine te. Una è rappresentata da Locke, che pone l'accento sul valore dell'individuo, fondando la teoria dei diritti umani e del liberalismo politico; l'altra da Schopenhauer, secondo il quale la nostra individualità è semplice apparenza, mentre quello che conta è l'anonima volontà di vivere che abita in noi e rende il nostro io nient'altro che «una voce che rimbomba in una cava sfera di vetro»: quello che ci sembra più nostro, la coscienza di essere un io o un soggetto, in realtà non è qualcosa di estraneo, che non ci appartiene. Ricostruendo queste due linee fino al presente, ma partendo soprattutto dagli ultimi decenni dell'Ottocento e giungendo sino a oggi, ho cercato di elaborare modelli teorici ed etici per comprendere il nostro presente. Si tratta, quindi, di un libro pensato in termini storici, perché parlo di fenomeni precisi, ma con una soluzione teorica, preparata nel corso di tutto il volume, ma rivelata soltanto nelle ultime pagine.
È un bene che la lingua scientifica si banalizzi per entrare a far parte del patrimonio scientifico di ciascuno?
Dipende dal pubblico che si vuol raggiungere e coinvolgere. Se si tratta di bambini o di persone con bassa cultura, la divulgazione è lecita, ma non nel senso spregiativo di andare verso il 'volgo'. Si può essere chiari, dicendo l'essenziale. «La chiarezza è la cortesia dei filosofi», sosteneva Unamuno. Bisogna poi che ciascuno, se interessato a una questione, proceda avanti, perché la difficoltà del linguaggio non dipende dal sadismo degli scienziati o dei filosofi, ma è intrinseco alla complessità della cosa.
Ritiene che occorra sempre confrontare i saperi e – se possibile – incrociarli, mostrandone i contatti ma anche le divaricazioni?
Sì ritengo che il confronto sia sempre illuminante, purché dalle due parti della frontiera si sappia di cosa si parla. Purtroppo, data la specializzazione dei saperi, quest'impresa di lavorare ai margini comuni fra diverse competenze è diventata sempre più difficile. Ma non impossibile. Anche all'interno delle singole discipline, bisogna operare distinzioni, sapere ad esempio, che nella filosofia europea esistono concetti che non sono facilmente traducibili, come mostra il bellissimo Vocabulaire européen des philosophies, a cura di Barbara Cassin (Seuil, Paris 2004). Già rendersi conto di questo significa, tuttavia, fare un passo avanti.
De mundo pessimo (Adelphi) s'intitola l'ultimo libro del filosofo Manlio Sgalambro e in uno dei brevi trattati, «Della filosofia geniale», partendo da Schopenhauer «si pone il problema se la filosofia non debba essere sottratta all'università e restituita al "genio"». Lei cosa ne pensa? A questo proposito, cosa suggerisce il titolo del suo ultimo libro, che invita ad accostarsi alla filosofia: Una scintilla di fuoco (pubblicato da Zanichelli)?
Penso che i filosofi possano essere dei 'geni', anche se il termine mi piace poco, sia che insegnino nelle Scuole o nelle Università (come Platone, Aristotele, Epicuro, Tommaso, Vico, Kant, Hegel, Wittgenstein), sia che siano pensatori solitari, ma capaci comunque di comunicare efficacemente agli altri e nell'insegnamento evitare la burocratizzazione. Ciò è possibile anche seguendo la proposta di Platone, il quale afferma con forza che la filosofia non è «una disciplina che sia lecito insegnare come le altre; solo dopo una lunga frequentazione e convivenza col suo contenuto essa si manifesta nell'anima, come una luce che subitamente si accende da una scintilla di fuoco, per nutrirsi poi di se stessa» (Settima lettera, 341 C-D). Lo scoccare di una intensa luce per effetto della scintilla propagata dall'esterno (quella che verrà chiamata illuminatio o lux intellegibillis) non costituisce però una rivelazione mistica. Affinché tale repentina illuminazione abbia luogo, la comprensione dei problemi va preparata in anticipo mediante un processo lento e dapprima costellato di tentativi non riusciti, simile a quello della somatizzazione dei movimenti da parte di un bambino, che, dopo aver camminato carponi ed essere caduto molte volte nello sforzo di alzarsi in piedi, impara infine a camminare in posizione eretta senza più esitazioni. La luce che si alimenta da sé a partire dalla scintilla iniziale spinge chi la possiede a oltrepassare limiti giudicati invalicabili e a negare gli insegnamenti e le tradizioni ricevute. La motivata infedeltà verso le filosofie del passato, la serena confutazione delle idee in precedenza fiduciosamente accolte costituisce l'autentica fedeltà del filosofo, secondo il vecchio motto amicus Plato, sed magis amica veritas. Per questo la filosofia moderna ha intrapreso rischiosi «viaggi di scoperta» in terra incognita, restando spesso fortunatamente insensibile agli insistenti richiami alla saggezza della tradizione e del buon senso.
A proposito di titoli: i libri di estetica hanno da qualche tempo titoli fin troppo originali. Con ciò forse intendono sfuggire, con ragione, alle vecchie partizioni delle cosiddette filosofie speciali. Corrono però anche un rischio: di dare per scontato che esista una dimensione e che lì dentro ci si possa muovere agevolmente per affrontare problemi o particolari o generalissimi, aspetti del costume estetico o visioni involontariamente metafisiche. È curioso, ma, proprio in nome di una presa di distanza dalla vecchia metafisica e dai cosiddetti fondamenti ultimi, da qualche tempo non si fa che parlare di «Esseri tramontanti o tragici», di «Nulla avvolgenti», di «Mitologie fondanti», di Dio e degli Dèi. È il medesimo fraintendimento dei romantici, oggi di nuovo all'ordine del giorno, che pure si muovevano a modo loro, cioè metafisicamente, sulla linea critica di Kant. Condivide questa riflessione?
Sostanzialmente sì. Vi è in questi titoli l'eccentricità di chi crede di trasmettere qualcosa di profondo in maniera anticonvenzionale e l'attrazione fatale per il vago. Ritengo invece che la filosofia sia fatta di buoni argomenti (migliori, almeno, di altri proposti) e non di seduzioni e allusioni. E questo vale anche per i titoli. Tali inviti al nulla e ai miti mi preoccupano, quando non vi scorgo la «serietà del negativo», la lucidità di un Leopardi, di uno Schopenhauer o di un Michelstaedter.
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