30 maggio 2011

«Cicerone e l'epicureismo» di Luciano Albanese


Dettaglio del busto di Cicerone.
Musei Capitolini, Roma
Marco Tullio Cicerone nasce ad Arpino il 3 gennaio 106 a.C. e muore a Formia il 7 dicembre del 43. Egli è stimato dal mondo moderno soprattutto come oratore, uomo di legge e politico, ma almeno fino al Settecento lo era anche come filosofo. Anzi, gran parte dei proemi di stile aristotelico che ricorrono nei suoi dialoghi sono dedicati a difendersi dall’accusa, che gli veniva rivolta frequentemente, di cimentarsi in una attività completamente inutile, posto che chi sapeva il greco conosceva già la filosofia, mentre chi non lo conosceva non avrebbe mai capito.

I rapporti di Cicerone con la filosofia sono in effetti di vecchia data. Nell’80 Cicerone, già noto come avvocato, accettò la difesa di Sesto Roscio Amerino, accusato di parricidio per un intrigo a sfondo politico che faceva capo a un liberto di Silla. Cicerone vinse la causa, ma subito dopo intraprese un viaggio in Grecia e in Asia, si mormorò per sottrarsi alla vendetta di Silla.

In tale occasione si recò ad Atene, dove prese contatto e ascoltò le lezioni dei principali rappresentanti degli indirizzi allora in voga: accademici, peripatetici, stoici ed epicurei. Il bagaglio di conoscenze così acquisito gli suggerì ben presto l’idea di divulgare la filosofia greca a Roma, città in cui questo genere di studi languiva da tempo. Tale programma, tuttavia, fu concretamente realizzabile in modo sistematico solo in età avanzata, e particolarmente tra il 46 e il 44, vale a dire quando l’avvento di Cesare costrinse Cicerone ad una sorta di esilio volontario dalla vita politica. Questa circostanza gli offrì molto tempo libero dagli impegni pubblici, e gli permise di dedicarsi a quella che forse era sempre stata la sua attività preferita, quella di scrittore e divulgatore di dottrine filosofiche.

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Esaminata in linea generale, l’opera filosofica di Cicerone presenta due aspetti. Per un verso essa, sviluppando in modo sistematico un indirizzo già sorto nel circolo di Scipione Emiliano, rappresenta il più importante tentativo intrapreso dalla cultura romana di assimilare e divulgare la cultura filosofica greca, creando nel contempo, a tale scopo, e praticamente dal nulla, un linguaggio filosofico latino, destinato a lasciare una impronta decisiva nella storia della cultura occidentale. Le opere filosofiche di Cicerone furono un punto di riferimento costante sia per il pensiero tardo antico e medievale – esse costituivano nel secondo caso una delle poche fonti a disposizione – che per quello umanistico e rinascimentale, e anche per la cultura europea in generale fino a tutto il Settecento. Si pensi solo a David Hume, che scrive il suo capolavoro postumo, i Dialoghi sulla religione naturale, ispirandosi direttamente al De natura deorum, e riutilizzandone massicciamente gli argomenti principali, in particolare quelli contro il finalismo e il disegno intelligente.

La sfortuna di Cicerone come filosofo è un fenomeno moderno, ed inizia nell’Ottocento. Probabilmente condizionata dal pesante giudizio di Madvig, la cultura moderna cominciò a disinteressarsi del Cicerone filosofo, formulando la nota accusa di eclettismo. In realtà la posizione filosofica di Cicerone è assolutamente coerente: egli fu sempre un accademico, vale a dire un seguace di quella tendenza scettica dell’Accademia platonica che, iniziata da Arcesilao, sviluppata al massimo grado da Carneade e terminata con Filone di Larissa, rappresenta il primo grande esempio di filosofia critica nel senso kantiano dell’espressione, e – al di là delle differenze di impostazione – il precedente immediato del neoscetticismo o neopirronismo di Enesidemo e Sesto Empirico.

Da questo punto di vista gli Academici possono essere considerati un manifesto programmatico. Lo scopo che si prefigge Cicerone in quell’opera è infatti quello di sottoporre ad esame le tre branche della filosofia (logica, fisica ed etica) e di evidenziare per ciascuna di essa la mai raggiunta né raggiungibile univocità di posizioni delle scuole di pensiero, che impone quindi cautela e sospensione del giudizio, ovvero – dal momento che bisogna pur vivere, vale a dire prendere qualche decisione – un assenso tiepido e provvisorio.

Questa impostazione degli Academici trova un puntuale riscontro nelle conclusioni aporetiche dei principali dialoghi filosofici, come il De natura deorum, il De divinatione, il De finibus ecc., dove si incontrano e si scontrano le principali scuole filosofiche del mondo antico senza trovare mai un comune terreno di intesa. È vero che in questi dialoghi il pensiero di Cicerone sembra subire delle oscillazioni, ma ciò è dovuto essenzialmente al fatto che Cicerone assume di volta in volta parti diverse, e quindi può essere una volta scettico e un’altra dogmatico, senza per questo aderire intimamente alle idee esposte dal personaggio che sceglie di interpretare.

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Il programma filosofico di Cicerone, soprattutto per l’aspetto divulgativo, incontrava a Roma, tuttavia, un forte ostacolo. Esso era rappresentato dall’epicureismo e dalla sua forte capacità di penetrazione soprattutto fra l’aristocrazia e le classi colte. Pensiamo subito a Lucrezio, naturalmente, che aveva intrapreso un analogo tentativo di coniare un vocabolario atomistico latino, riversando negli esametri del De rerum natura l’intero Peri physeos di Epicuro, che egli teneva costantemente sott’occhio.

Ma l’avversario di Cicerone non era Lucrezio, che egli stimava (vedi la famosa lettera al fratello Quinto) e di cui forse è stato addirittura l’editore. In realtà noi non sappiamo nemmeno se il poema di Lucrezio fosse in circolazione in quegli anni in cui Cicerone scriveva le sue opere filosofiche. Di Lucrezio non parla lui come non parla nessuno, e tale silenzio perdura in tutta l’età augustea, per venire rotto molto tempo dopo solo da Seneca. Non ci divulghiamo oltre in questa sede su quella che è stata giustamente definita una congiura del silenzio e sulle sue cause. Quello che è importante ribadire è che gli avversari di Cicerone erano altri.

Nella seconda stesura degli Academici, Varro, scopriamo i nomi di due concorrenti di Cicerone, Amafinio e Rabirio, che a quanto sembra avevano già scritto opere divulgative della dottrina epicurea ed atomistica. Essi avevano fatto il primo tentativo di traduzione latina dei termini filosofici greci connessi all’epicureismo, e sappiamo che Lucrezio di queste prime traduzioni tenne il dovuto conto. Da quanto afferma Varrone non dovevano essere al livello di un Lucrezio, ma nonostante questo – o proprio per questo – avevano avuto un enorme successo, lasciando poco spazio ad iniziative di segno diverso. Significativo, in questo senso, un passo del IV libro delle Tusculanae. Cicerone dice che poiché nessuno dei dotti si era preso prima di lui la briga di diffondere la filosofia greca – il velato rimprovero che viene fatto a Varrone in Varro – si fece avanti Amafinio.

Mentre quelli tacevano, prese la parola Amafinio, e la gente sotto l’influsso dei libri da lui pubblicati si rivolse soprattutto a quella dottrina, sia perché era molto facile da capire, sia perché le dolci attrattive del piacere erano invitanti, sia anche perché, non essendosi prodotto nulla di meglio, si attenevano a quel che c’era. Dopo Amafinio molti seguaci della medesima dottrina lo imitarono scrivendo molte opere, e invasero tutta l’Italia. E mentre la miglior prova della grossolanità di quelle idee sta nel fatto che sono così facilmente apprese e approvate dagli ignoranti, essi credono che questo confermi la verità della loro dottrina (Tusc. IV 3, 6-7).

Il passo è chiaro, e inoltre conferma che Lucrezio non doveva essere stato ancora pubblicato, altrimenti Cicerone non potrebbe scrivere che a Roma non esisteva nulla di meglio sulla dottrina epicurea e sulla filosofia greca in generale. Ma esisteva nel Meridione un avversario ancora più pericoloso agli occhi di Cicerone. Questi era Filodemo di Gadara, che ospite ad Ercolano della villa dei Pisoni, organizzava e gestiva una enorme biblioteca, utilizzandola come centro di diffusione dell’epicureismo. La biblioteca, i cui papiri semidistrutti dall’eruzione del Vesuvio sono oggetto di studio a partire dal Settecento, comprendeva non solo tutte le opere di Epicuro e della sua scuola, ma anche testimonianze cospicue della letteratura e della filosofia sia greca che latina.

Che questi, e non Lucrezio, fosse il mortale nemico di Cicerone è dimostrato dal velenoso e – come vedremo – ingeneroso attacco sferrato contro di lui, pur senza nominarlo mai, da Cicerone nell’Adversus Pisonem. Il programma filosofico di Filodemo era infatti esattamente uguale e contrario a quello di Cicerone. Si trattava di divulgare su tutto il territorio della Repubblica il punto di vista dell’epicureismo, e, parallelamente, la sua critica di tutte le altre dottrine filosofiche e soprattutto delle nozioni correnti sulla natura delle divinità.

L’atteggiamento fortemente negativo di Cicerone verso l’epicureismo nasceva quindi, in primo luogo, da fattori che potremmo definire di «concorrenza culturale». L’epicureismo si era posto nei confronti della cultura filosofica romana gli stessi scopi di Cicerone, ma ovviamente con segno diverso. L’ostilità e l’inimicizia nascevano quindi da una circostanza oggettiva. Era una lotta per la conquista della supremazia sul terreno della divulgazione filosofica. Tanto più che Cicerone, diversamente dagli epicurei, non aveva un bagaglio dottrinale da difendere. Come Cotta, il suo portavoce nel De natura deorum, gli era più facile distruggere che costruire. Cicerone non aveva nulla di positivo da contrapporre all’epicureismo. Poteva solo essere urtato dagli aspetti dogmatici di tale dottrina. E tuttavia anche qui, come vedremo, saranno necessarie delle precisazioni.

Il secondo motivo dell’avversione di Cicerone verso Epicuro si lega alla concezione epicurea degli dèi come esseri inattivi. Tale concezione è giudicata da Cicerone pericolosa e inattendibile soprattutto per motivi politici. Essa distrugge infatti le basi religiose e culturali della costituzione repubblicana, perché la protezione accordata dagli dèi alla città fa parte delle convinzioni più radicate trasmesse al popolo romano dai suoi padri e dalla tradizione. Significativo e accorato, in questo senso, è il prologo al De natura deorum, nel quale viene ribadito che l’eliminazione della pietas verso gli dèi comporterebbe necessariamente quella di ogni devozione e pratica religiosa, soppresse le quali il disordine e il disorientamento si impadronirebbero della vita umana, minando le basi stesse dei rapporti sociali e politici.

Ugualmente pericolosa, dal punto di vista politico, appare a Cicerone la raccomandazione di Epicuro di liberarsi dal carcere degli affari e della politica (SV 58). In realtà la maggior parte degli epicurei era schierata politicamente col Senato e con Pompeo, e quindi dalla stessa parte di Cicerone. Ma naturalmente Cicerone sollevava in questo caso una questione di principio, non di fatto.

E tuttavia, come avremo modo di vedere, Cicerone stesso dimostrerà, per bocca del suo portavoce Cotta, che non è possibile offrire nessuna dimostrazione razionale della provvidenza degli dèi, e quindi nemmeno della provvidenza verso Roma. Al contrario, l’dea che gli dèi abbiamo pronoia e preveggenza si dimostrerà pericolosa e suscettibile di sviluppi in senso ateistico, al punto che Cotta sarà spinto, drammaticamente, a recuperare la tesi epicurea dell’inattività divina come la massima espressione filosofica della pietas verso gli dèi, e a fondare la tesi della pronoia esclusivamente su basi irrazionali, ossia sulla tradizione.

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Cicerone, come tutti sanno, non perde la minima occasione per attaccare Epicuro e l’epicureismo. Le accuse sono quindi sparse a pioggia su tutta la produzione filosofica di Cicerone, ma le opere più significative in proposito mi sembrano gli Academici, il De natura deorum e il De finibus. Bisognerebbe aggiungere anche il III libro delle Tusculanae, che tuttavia è essenzialmente un compendio del II libro del De finibus.

Gli Academici, seconda stesura, contengono quello che abbiamo già visto parzialmente. Varrone, interrogato da Cicerone a proposito del suo apparente disinteresse per la divulgazione filosofica (tanto più strano perché egli era filosofo e seguace di Antioco di Ascalona, e in tale veste viene chiamato da Cicerone a sostituire Lucullo nella seconda stesura del dialogo), risponde che secondo lui non ne vale la pena, perché tutto lo spazio disponibile alla divulgazione è occupato, appunto, da Amafinio e Rabirio, che con la loro filosofia epicurea ridotta in pillole hanno invaso l’agone filosofico romano.

I romani si sono quindi abituati a una filosofia facile, e non potranno mai apprezzare una filosofia difficile e complessa come quella del platonismo originario di Platone, Speusippo, Senocrate o dello stesso Aristotele, che è appunto la filosofia dogmatica alla quale Varrone/Antioco intende rifarsi, ma che è anche la filosofia che lo stesso Cicerone, pur aderendo alla versione scettica, anziché dogmatica, del platonismo, dovrà cercare di divulgare insieme a quella stoica. Questa filosofia, precisa Varrone, non è comprensibile senza la geometria, e figuriamoci se un epicureo potrà mai occuparsi di geometria!

Tale atteggiamento fortemente negativo e derisorio è ampiamente presente nel primo dialogo del De finibus, quello fra Cicerone e Torquato. La critica di Cicerone si può divedere in due parti. La prima, nella quale su sollecitazione di Torquato Cicerone espone brevemente tutto il pensiero epicureo. In questa parte, abbastanza breve, Cicerone esamina a volo radente il pensiero di Epicuro su fisica, logica ed etica, riservandosi ovviamente di tornare su quest’ultima, essendo l’argomento principe dell’opera.

Di questa prima parte, breve ma densa, vanno rilevate in particolare, a mio avviso, alcune affermazioni. Per Cicerone la fisica epicurea è una ripresa peggiorativa di quella di Democrito. Epicuro disdegnava la geometria, e anzi, invece di impararla da Polieno, la fece disimparare anche a lui. Se avesse saputo di geometria, avrebbe evitato di dire due assurdità. La prima, affermare l’esistenza di minimi indivisibili, gli atomi, negando così l’incommensurabilità e la divisibilità infinita: vale a dire l’intera dottrina delle grandezze e dei numeri irrazionali, vanto della geometria greca. In secondo luogo, e come conseguenza di ciò, pensare che il Sole sia grande quanto appare, cioè un piede, anziché diciotto volte più grande della Terra, come affermano i fisici e lo stesso Democrito, che invece la geometria la conosceva (De fin. I 6, 20). Ricordiamoci di queste due affermazioni di Cicerone, perché in seguito ci torneremo sopra.

L’esame dell’etica epicurea si svolge nel II libro del De finibus. La strategia di Cicerone – la stessa seguita nel III libro delle Tusculanae – consiste essenzialmente: 1) nel ridisegnare il concetto di piacere epicureo a proprio uso e consumo, facendolo diventare quello che in Epicuro non è – come risulta a chiare lettere dall’epistola a Meneceo (utilizzata peraltro da Cicerone per costruire il discorso di Torquato), vale a dire quello, privo di phronesis, degli smodati e dei crapuloni; 2) nel presentare come pure e semplici contraddizioni rispetto a questo concetto di piacere tutte le affermazioni di segno contrario che si ritrovano in Epicuro (la mancanza di rigore e di coerenza di Epicuro è un vero e proprio ritornello). La tesi di fondo di Cicerone, in sostanza, è che se metti il piacere al centro dei tuoi comportamenti pratici non puoi fare l’asceta, perché il piacere è una forza incontrollabile, e prima o poi ti travolgerà (un argomento, questo, che viene adoperato anche contro il principio peripatetico della metriopatheia: cfr. Tusc. IV 17, 38 sgg.). Subordinatamente, i beni del corpo e i beni esterni, che costituiscono la base materiale del piacere, non sono sotto il tuo controllo, perché non hai reali poteri né sul tuo corpo né sui tuoi beni, che sono preda della fortuna. Anche su queste affermazioni dovremo tornare.

Il I libro del De natura deorum è interamente dedicato all’esposizione della dottrina epicurea da parte di Velleio e alla replica di Cotta/Cicerone. L’esposizione di Velleio si divide nettamente in due parti. Una pars destruens, la cosiddetta «dossografia di Velleio», nella quale vengono rapidamente esaminate e distrutte tutte le teorie filosofiche sulla natura degli dèi, da Talete agli Stoici contemporanei, passando per due grossi calibri come Platone e Aristotele, ai quali non è riservato un trattamento migliore. Da evidenziare in questa rassegna, di nuovo, la critica della geometria, cioè dei cinque solidi del Timeo, i cristalli dei cinque elementi, che conferma l’atteggiamento negativo di Epicuro in materia, già sottolineato da Varrone e da Cicerone stesso. Qui bisogna osservare – l’ha fatto recentemente Stefano Maso – che questo quadro fortemente critico verso la tradizione filosofica è in realtà opera dello stesso Cicerone, ed è perfettamente in linea con le sue vedute scettico-accademiche. È quindi già possibile parlare di un primo caso di concordanza oggettiva tra Cicerone e l’epicureismo.

Segue poi la pars construens, nella quale vengono date tre prove dell’esistenza degli dèi, e descritta la loro forma e la loro natura. Gli dèi hanno forma umana, con un corpo che è un quasi corpo e un sangue che è un quasi sangue, e soprattutto, non intervengono nella creazione del cosmo (possono anzi essere considerati parti del cosmo stesso), né nelle vicende umane. Il cosmo è opera della natura, che sine fabrica e sine consilio, grazie unicamente all’incontro fortuito di atomi, ha formato, forma e formerà innumerevoli mondi come questo. Se il mondo fosse opera di un disegno razionale, del resto, non avremmo moltissime regioni della terra incolte o inabitabili, perché o troppo calde o troppo fredde, né tutta una serie di eventi e di fenomeni che parlano contro l’esistenza di un progetto razionale.

La replica di Cotta contesta punto per punto le tesi epicuree. Innanzitutto la cornice fisico-filosofica, negando l’esistenza di atomi, cioè di indivisibili (torna il tema del disinteresse epicureo per i fondamenti della geometria), e di vuoto, quindi contestando i due cardini della fisica democritea. Dagli stessi principi di questa fisica, poi, si dovrebbe necessariamente concludere che dèi fatti di atomi non possono essere immortali, perché ogni composto atomico nasce e muore. Infine, altre due tesi di Epicuro, la artificiosità e arbitrarietà della logica e la piena affidabilità dei sensi, sono giudicate da Cotta tesi inattendibili.

Per quanto riguarda specificamente gli dèi, Cotta nega ogni validità al consenso universale – argomento comune anche agli Stoici – come prova della loro esistenza, e ugualmente inattendibili gli appaiono le altre due prove, le immagini scolpite nella mente e l’isonomia. Poi ironizza a lungo sulla tesi che essi abbiano forma e volto umano. Se sono umani, saranno più o meno belli, più o meno pieni di difetti, e avranno tutte le preoccupazioni degli umani per il proprio corpo. Priva di qualsiasi senso poi è l’idea che esistano corpi che non sono corpi e sangue che non è sangue, ecc. Infine, il difetto più grave. L’aver trasformato gli dèi in esseri oziosi e nullafacenti, per nulla preoccupati delle vicende umane e narcisisticamente protesi solo verso se stessi, ha distrutto alle basi la pietas verso di loro, che è il fondamento di ogni religione e quindi – è un romano che parla – di qualsiasi costituzione politica.

Apparentemente, come si vede, il contrattacco di Cotta/Cicerone è violento e distruttivo. Tuttavia occorre notare che l’argomento principe di Velleio, l’assenza di razionalità nel cosmo, conseguenza inevitabile di un movimento di atomi che avviene sine consilio e sine fabrica, vale a dire frutto di una natura che non è artefice o artificiosa, non viene affatto contestato da Cotta. Anzi, nell’unico punto in cui questo tema viene sfiorato (I 36, 100) per invocare un minimo di comprensione umana da parte di Velleio per chi sostiene la tesi del disegno intelligente – cioè soprattutto per gli Stoici – Cotta stesso deve ammettere – anticipando la critica a Balbo nel III libro – che essi aberrant a coniectura, si fanno sostenitori di una cosa insostenibile. Questo fatto, insieme ad altre cose che abbiamo via via rilevato, deve spingere a riprendere in considerazione il rapporto tra Cicerone e l’epicureismo da un diverso angolo visuale.

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Va rilevato, innanzitutto, che Cicerone non ha né difficoltà né remore ad usare abbondantemente fonti epicuree nella costruzione dei dialoghi e dei personaggi. Ciò vale in particolare per i due maggiori rappresentanti dell’epicureismo in Italia, Lucrezio e Filodemo. Il discorso di Velleio è infatti costruito in gran parte con materiali di entrambi. Da Lucrezio, che pubblicato o non pubblicato che fosse, Cicerone conosceva benissimo, proviene ad esempio il passo in cui Velleio si chiede perché mai gli dèi dovrebbero aver preso improvvisamente la decisione di costruire il mondo, dopo aver dormito per lungo tempo. In secondo luogo, il passo che abbiamo già citato, in cui si osserva che, se il mondo fosse frutto di un disegno intelligente, avrebbero provveduto a che non esistessero zone della Terra troppo calde o troppo fredde, ovvero ad evitare tutta una serie di altri fastidi e pericoli che ci derivano dall’esistenza di animali o insetti nocivi.

Da Filodemo, bistrattato nell’Adversus Pisonem, proviene invece tutta la dossografia di Velleio, ricalcata dall’opera di Filodemo Sugli dèi. La cosa è nota da tempo agli studiosi, ma il recente intervento di Obbink ha dimostrato le corrispondenze e i prestiti fra i due testi in modo puntuale e definitivo. Nel De finibus poi, come ho già avuto modo di dire, Cicerone mette in bocca a Torquato l’intera Lettera a Meneceo. Questo significa, in buona sostanza, che Cicerone considerava quanto meno chiare ed affidabili le fonti epicuree.

Inversamente, bisogna correggere l’impressione che Cicerone tratti gli Epicurei peggio degli altri. Nel De finibus il lettore appena uscito dal fuoco di fila delle repliche di Cicerone a Torquato è quasi spinto a pensare che Cicerone consideri gli epicurei una sorta di alieni, e che sia molto vicino alle posizioni stoiche. Questa sensazione sembrerebbe trovare un riscontro in quanto lo stesso Cicerone afferma nel III libro delle Tusculanae.

Per me il sommo bene è nell’anima, per lui [Epicuro] nel corpo; per me nella virtù, per lui nel piacere (Tusc. III 21, 50).

Ma poi passa alla lettura dei secondi due libri, il terzo e il quarto, e si rende conto che gli Stoici non sono affatto trattati meglio. Gli Stoici (antichi, bisogna precisare) hanno saccheggiato il patrimonio concettuale accademico e peripatetico, e, come i ladri che cambiano i marchi di proprietà su ciò che rubano, lo hanno fatto proprio, riuscendo tuttavia a renderlo più complesso e «pieno di spine». Quando hanno aggiunto farina del proprio sacco, hanno fatto affermazioni talmente rigide e paradossali che converrebbe rispondergli con una risata, anziché con argomenti ponderati. Va rilevato, a questo proposito, che quando Cicerone dice qualcosa di simile a proposito di Epicuro («Epicuro fa delle asserzioni tali che viene da ridere»), Epicuro sta ripetendo una tesi stoica, vale a dire che il sapiente è felice anche quando è torturato (cfr. Tusc. II 7, 17; fr. 601 Usener; Epicuro riprende tesi stoiche più spesso di quanto si possa immaginare: un’altra è quella famosa, che quando c’è la morte non ci siamo noi, e viceversa, tesi sostenuta anche da Aristone di Chio). E in effetti, è facile vedere che contro questa tesi, stoica prima che epicurea, Cicerone reagisce con veemenza ed ironia non solo nel De finibus, ma anche nelle Tusculanae, sostenendo che «nessuno può essere felice quando si trova fra i mali; d’altra parte il sapiente può trovarsi tra i mali, dato che esistono dei mali del corpo o della fortuna» (Tusc. V 8, 22; cfr. II 12, 29; 18,42; 22, 51).

Tutte queste critiche di Cicerone agli Stoici, sia nel De finibus che nelle Tusculanae, sono sempre corredate da affermazioni pesanti, che possono essere accostate ad affermazioni di tono analogo che troviamo nel De divinatione, un’opera che è fondamentalmente un lungo attacco agli stoici, i principali sostenitori della divinazione:

Magari gli dèi avessero elargito la saggezza agli Stoici, per evitare che prestassero fede a tutte le superstizioni! (De divinatione II 86).

Il sistema stoico pretende di essere vicino alla natura, ma in realtà è contro natura, perché presuppone un essere tutta anima e razionalità, interamente privo di corpo. Questo li rende identici agli epicurei, che invece presuppongono un essere tutto corpo e privo di anima, con l’aggravante che gli Stoici si contraddicono, perché la loro anima è materiale quanto quella degli epicurei, e quindi dovrebbero avere del corpo maggior rispetto e maggior cura.

Che Cicerone metta gli Stoici sullo stesso piano degli epicurei, quanto ad affidabilità filosofica, è dimostrato dall’esatto parallelismo nella distribuzione dei pesi. Alla esposizione di Torquato, nel I libro, corrisponde quella di Catone nel III. Alla replica di Cicerone a Torquato, nel II libro, corrisponde quella di Cicerone a Catone nel IV. A questo punto sembrerebbe che Cicerone sposi la tesi accademico-peripatetica di Antioco, esposta da Pisone nel libro conclusivo. Ed effettivamente Cicerone per tale posizione – che è anche quella di esponenti dello stoicismo medio a lui particolarmente cari, come Panezio – sembra avere delle preferenze, che tuttavia, ancora una volta, non implicano una totale adesione o un completo assenso. La posizione di Antioco, che il sapiente possa essere felice, ma non felicissimo, beato, ma non beatissimo, appare a Cicerone poco limpida e contraddittoria («non capisco che cosa cerchi per essere felice chi è già felice, giacché se gli manca qualcosa, non è neanche felice», Tusc. V 8, 22). Rispetto alla posizione di Antioco, allora, è preferibile quella stoica, che se è paradossale e umanamente insostenibile ha tuttavia il vantaggio dell’assoluta coerenza. Ovvero quella di Teofrasto, che ha avuto il coraggio di dire esplicitamente che il sapiente può essere infelice (Tusc. V 9, 24 sgg.). E quindi la conclusione resta ancora una volta aporetica. Questo ci rimanda a quanto Cicerone stesso afferma nei primi Academici: «su nessun’altra questione sussiste fra i massimi pensatori un dissenso più grave» (Ac. Luc XLII 129). Ma dal momento che la stessa affermazione viene fatta nella stessa opere riguardo alla logica e alla fisica, e poiché lo stesso concetto è espresso nel proemio al De natura deorum, ne esce confermata l’impressione che il programma filosofico di Cicerone sia contenuto tutto intero negli Academici, e che il dissenso con gli epicurei non sia maggiore che con gli altri esponenti di un pensiero a qualsiasi titolo dogmatico. Sotto un altro profilo, se a volte gli attacchi all’epicureismo possono sembrare – come sono in effetti – più frequenti, questo si spiega, secondo quanto ho già avuto modo di dire, con la loro capacità di penetrazione capillare nell’agone filosofico romano, e quindi con ragioni di pura concorrenza.

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E tuttavia non tutto quello che si poteva dire in proposito è stato ancora detto. Marcello Gigante, in Scetticismo e epicureismo, ha osservato che esistono pressanti ragioni di ordine strettamente filosofico che rendono inevitabile un incontro fra le due scuole. Ebbene, della inevitabilità di questo incontro Cicerone, ancora una volta, è il miglior testimone. Se esaminiamo bene gli Academici e il De natura deorum, infatti, scopriamo che Cicerone non ha nessuna remora ad adoperare, oltre alle fonti, anche gli argomenti degli epicurei e farli propri quando ciò sia necessario e appaia compatibile con il suo scetticismo di marca accademica.

Prendiamo in considerazione, a titolo esemplificativo, i seguenti passi, e confrontiamoli l’uno con l’altro.

Etiamne hoc adfirmare potes, Luculle, esse aliquam vim, cum prudentia et consilio scilicet, quae finxerit, vel, ut tuo verbo utar, quae fabricata sit hominem? Qualis ista fabrica est, ubi adhibita, quando, cur, quomodo? (Luc. XXVII 87).

Ne aedificatum quidem hunc mundum divino consilio existimo (Luc. XL 126)

‘Si domus pulchra sit, intellegamus eam dominis’ inquit [Crisippus] ‘aedificatam esse non muribus; sic igitur mundum deorum domum existimare debemus’. Ita prorsus existimarem, si illum aedificatum, non quem ad modum docebo a natura conformatum putarem. […] Naturae ista sunt Balbe, naturae non artificiose ambulantis ut ait Zeno, quod quidam quale sit iam videbimus, sed omnia cientis et agitantis motibus et mutationibus suis. Itaque illa mihi placebat oratio de convenientia consensuque naturae, quam quasi cognatione continuatam conspirare dicebas, illud non probabam, quod negabas id accidere potuisse nisi ea uno divino spiritu contineretur. Illa vero coharet et permanet naturae viribus non deorum, estque in ea iste quasi consensus, quam συμπάθειαν Greci vocant; sed ea quo sua sponte maior est eo minus divina ratione fieri existimanda est (De nat. deor. III 10, 26 sgg.).

Questi tre passi, nei quali si nota una piena corrispondenza fra il Cicerone degli Academici e il Cotta del De natura deorum, richiamano visibilmente alcuni passaggi dell’intervento di Velleio (cfr. De nat. deor., I, 8, 19):

Quibus enim oculis animi intueri potuit vester Plato fabricam illam tanti operis, qua construi a deo atque aedificari mundum facit? Quae molitio quae ferramenta qui vectes quae machinae qui ministri tanti muneris fuerunt?

E ancora:

Natura effectum esse mundum, nihil opus fuisse fabrica […] natura efficere sine aliqua mente possit (I 20, 53).

Sia Cicerone e Cotta da un lato, che Velleio dall’altro, stanno dicendo esattamente la stessa cosa, e cioè che il mondo è opera della natura, non degli dèi. Di una natura, va precisato, che non è quella favoleggiata dagli Stoici – che in realtà riprendono posizioni comuni sia a platonici che aristotelici – vale a dire una natura artificiosa e progettuale, espressione di un disegno intelligente, ma di una natura che si muove sine ratione, sine mente, sine consilio, sine fabrica (termini adoperati sia da Cicerone/Cotta che da Velleio), cioè senza interventi divini, ma secondo moti suoi propri, che a chi di noi non è affetto da pregiudizi risultano incomprensibili e diversi dai nostri. Cicerone riprende quindi dagli epicurei l’idea di una natura disanimata, vale a dire un concetto di natura ripulito da infiltrazioni antropomorfiche: quello stesso concetto che verrà fatto valere, in ultima analisi, dalla fisica moderna.

Una verifica del fatto che i fenomeni naturali e più in generale il cosmo non sono frutto di un progetto divino sono i mille «difetti» in essi riscontrabili. Ho già detto che De nat. deor. I 9 24 riprende Lucrezio V 200 sgg. Ma Cicerone in persona, negli Academici, fa proprio tale punto di vista:

Quaero cur Deus, omnia nostra causa cum faceret (sic enim vultis), tantam vim natricum viperarumque fecerit, cur mortifera tam multa ac perniciosa terra marique disperserit? Negatis haec tam polite tamque subtiliter effici potuisse sine divina aliqua sollertia: cuius quidam vos maiestatem deducitis usque ad apium formicarumque perfectionem, ut etiam inter deos Myrmecides aliquis minutorum opusculorum fabricator fuisse videatur (Luc. XXVIII 120).

Punti di concordanza fra Cicerone e gli epicurei, ancora, si registrano a proposito della divinazione, oggetto del dialogo omonimo, in cui Cicerone la critica e il fratello Quinto la difende:

Sequitur μαντική vestra, quae Latine divinatio dicitur, qua tanta inbueremur superstitione si vos audire vellemus (De nat. deor. I 20 55).

Questo è Velleio, e Cicerone gli fa eco:

Nec enim divinationem, quam probatis, ullam esse arbitror (Luc. XL 126).

Occorre precisare, peraltro, che la posizione di Cicerone nel De divinatione riflette esattamente quella di Cotta nel De natura deorum. Cicerone stesso era un augure, e non era certo sua intenzione abolire la divinazione, come non era certo intenzione di Cotta, un pontefice, abolire la religione tradizionale. Si tratta piuttosto, in entrambi i casi, di affermare l’impossibilità di darne una fondazione filosofica per mezzo di argomenti razionali. Le seguenti affermazioni sono molto chiare in proposito.

Cominciamo dall’aruspicina, che io ritengo si debba osservare per il bene dello Stato e della religione professata da tutti – ma qui siamo soli, e possiamo ricercare la verità senza procurarci l’odio di alcuno, io specialmente che dubito riguardo alla maggior parte delle cose […] Ritengo che il diritto augurale, sebbene all’inizio sia stato costituito in base alla credenza nella divinazione, sia stato poi conservato e rispettato per utilità politica (De divinatione II 28 e 75).

Anche a proposito del fato si registra una identità di vedute fra Cicerone e gli epicurei. Epicuro, nella Lettera a Meneceo, aveva affermato che «sarebbe stato meglio credere al mito degli dèi che farsi schiavo del fato [heimarmene] dei fisici», e Velleio si pronuncia contro il fato in modo analogo.

Quanti autem haec philosophia aestimandast, cui tamquam aniculis, et his quidam indoctis, fato fieri videantur omnia? (De nat. deor. I 20 52).

Cicerone, che al tema del fato ha dedicato una intera opera, non dice cose diverse.

Fatumque illum etiam, quo omnia contineri dicitis, contemno (Luc. XL 126).

Ma i punti di contatto fra Cicerone e l’epicureismo non finiscono qui, perché – come osserva Gigante – essi risiedono nella natura stessa delle due dottrine. Quando parla come uno scettico accademico coerente, Cicerone sferra un attacco a due scienze particolarmente importanti nella cultura e nella paideia antica, greca: la logica e la matematica, geometria in particolare, anticipando, anche qui, l’operato di Sesto Empirico. E in questi passi riemerge, di nuovo, il sostanziale accordo con la filosofia epicurea.

Negli Academici (Lucullus) Cicerone fa leva sul famoso paradosso del mentitore («se dici di mentire, menti o dici il vero? ») per invalidare l’intera logica preposizionale stoica, basata sull’operatore logico «se…allora» («se c’è luce, c’è luce»).

Mi sto attenendo al metodo che ho imparato da Antioco, e non riesco a trovare una maniera per cui dovrei giudicare vera l’espressione «se c’è luce, c’è luce», basandomi su quanto ho imparato – ossia che ogni connessione ipotetica che risulti dagli stessi elementi è vera – mentre non dovrei giudicare che si articoli allo stesso modo l’espressione «se dici di mentire, menti»: perciò o giudicherò vera quest’ultima, oppure, se non giudicherò vera questa, non giudicherò vera neanche quella (Luc. XXX 98).

Ebbene, per rafforzare la sua tesi, distruttiva dell’intera logica proposizionale, Cicerone non trova di meglio che appoggiarsi ad Epicuro.

Epicuro, dispregiatore e derisore dell’intera dialettica, non è disposto a concedere che sia vero il seguente enunciato: «Domani Ermarco o vivrà o non vivrà», mentre dal canto loro i dialettici stabiliscono appunto che ogni disgiuntiva di questo tipo – ad es. «o…o non» – non solo è vera, ma è anche necessaria (guarda quanta cautela ha quell’uomo che costoro giudicano un ritardato mentale! «Se infatti – egli osserva – io ammetto la necessità di una qualsiasi delle due cose, risulterà necessario che domani Ermarco o viva o muoia: ma nella natura del mondo non c’è nessuna necessità siffatta»); ecco perché contro questo suo pensiero darebbero battaglia i dialettici o, per meglio dire, Antioco e gli Stoici: difatti Epicuro smantella tutta quanta la dialettica, giacché se la disgiuntiva formata da contrari (chiamo contrari quelli di cui l’uno è affermativo e l’altro è negativo), se, ripeto, una siffatta disgiuntiva può essere falsa, non ce n’è nessuna che sia vera (Luc. XXX 97).

Questo riconoscimento delle capacità logiche di Epicuro trova un riscontro nel De divinatione.

Guarda un po’ come Epicuro, che gli Stoici sogliono considerare sciocco e rozzo, ha dimostrato che quello che nella natura chiamano «il tutto» è infinito. «Ciò che è finito – egli dice – ha un’estremità». Chi non è disposto a concedere questo? «Ciò che ha un’estremità si può vedere da un punto che si trova al di fuori». Anche questo bisogna concederlo. «Ma ciò che è il tutto non si può vedere da un punto che si trovi al di fuori di esso». Nemmeno questo si può negare. «Non avendo dunque alcuna estremità è necessariamente infinito» (De div. II 103).

Giudizi del genere, naturalmente, sembrerebbero contraddire quanto dice Varrone, ad esempio, nella seconda stesura degli Academici, ma non dobbiamo dimenticare che Varrone difende le posizioni di Antioco, che Cicerone tende polemicamente ad assimilare a quelle degli stoici, e che quindi, da questo punto di vista, i conti tornano.

Una seconda alleanza fra Cicerone ed Epicuro si stabilisce quando viene affrontato il tema dei fondamenti della geometria. Anche stavolta la posizione di Cicerone è distruttiva.

I geometri […] hanno la pretesa non già di persuadere, ma di costringere, e vi danno la dimostrazione di tutte le figure da loro descritte. Non chiedo a costoro quei postulati matematici senza la cui ammissione essi non possono avanzare di un dito, vale a dire che è punto quello che non ha alcuna grandezza, e che è superficie – o per così dire “livello” – quello che non ha affatto spessore, e che è linea una lunghezza priva di larghezza e di ogni profondità (Luc. XXXVI 116).

E anche stavolta Cicerone si appoggia agli epicurei.

Polieno, che gode fama di essere stato un grande matematico, dopo che si mise al seguito di Epicuro fu dell’opinione che l’intera geometria fosse falsa (Luc. XXXIII 106).

Il nome di Polieno non è certo casuale. Diventato epicureo, Polieno aveva scritto un libro intero sulle Aporie matematiche, al quale Demetrio Lacone dedicò un commento che fu massicciamente utilizzato da Sesto Empirico nelle sezioni Contro i geometri dell’Adv. Math. [cfr. Gigante, 207 sgg.].

Il sostanziale accordo che si registra fra Cicerone e gli epicurei su questo tema emerge anche da un particolare non meno significativo. Cicerone si associa ad Epicuro nella convinzione che il Sole sia grande quanto un piede, quasi pedalis, dal momento che le ragioni dei matematici sono prive di fondamento (Luc. XXVI 82). Questa volta, tuttavia, Cicerone sembra essersi completamente dimenticato che nel De fin. I 6, 20 aveva rivolto ad Epicuro proprio queste accuse, di non conoscere la geometria e di pensare che il sole sia grande quanto appare!

Su questo punto, tuttavia, il consenso è più apparente che reale. L’affidabilità o meno dei sensi resta un forte punto di contrasto fra scettici ed epicurei, che da questo punto di vista sono più vicini agli stoici. Lucrezio, nel IV libro del De rerum natura, critica aspramente Pirrone e lo scetticismo accademico per la sfiducia che essi ripongono nei dati sensoriali, ed Epicuro, ovviamente, aveva espresso le stesse convinzioni. Tra Cicerone ed Epicuro si verifica un accordo apparente perché il primo pensa in realtà che il parere dei matematici non abbia più peso di quello dell’uomo comune, che appunto vede un sole quasi pedalis, mentre il secondo pensa che il dato visivo è affidabile perché – da questa distanza, cioè dalla Terra – il sole non può che apparire di quella misura, così come il bastone in acqua non può non apparirci spezzato, e sarebbe un guaio per noi se ci apparisse diritto, perché allora non capiremmo più niente.

***

Resta da esaminare un ultimo punto di concordanza, che tuttavia non è meno importante degli altri, anzi probabilmente lo è più degli altri. Si tratta della parte finale della replica di Cotta a Balbo, contenuta nel III libro del De natura deorum. Cotta sta contestando punto per punto l’esposizione dello stoico, e nella parte finale affronta il tema della provvidenza degli dèi verso gli uomini. Balbo aveva sostenuto che tale provvidenza si esercita in molti modi, ma uno dei più notevoli è stato sicuramente l’aver dotato gli uomini di ragione. La ragione, il logos universale, è il tratto comune sia alla natura che agli esseri umani, e permea di sé l’intero cosmo. Esso rappresenta uno dei cardini della filosofia stoica, ed è comprensibile che Balbo attribuisca a tale argomento un peso decisivo nella dimostrazione dell’esistenza di una provvidenza onnipervasiva. La stessa virtù, il tema centrale dell’etica stoica, non è altro che ragione.

Purtroppo questa parte – la cui importanza, come vedremo, è capitale – presenta nei manoscritti delle grosse lacune, che gli editori hanno cercato in qualche modo di sanare, ricorrendo soprattutto ad autori come Lattanzio e alla sua Ira Dei e ad altre opere di Cicerone. Questo lavoro, come vedremo, ha dato qualche risultato interessante.

Il tema che Cotta si riproponeva di affrontare nell’ultima parte era in primo luogo se il mondo sia retto dalla provvidenza divina. In secondo luogo, se gli dèi provvedano o meno alle necessità degli uomini. Poi segue la grossa lacuna. Alla ripresa del testo, vediamo Cotta impegnato a contestare una delle affermazioni di Balbo, vale a dire – come abbiamo già anticipato – la tesi che la ragione sia un dono divino, che testimonia insieme della loro esistenza e della loro pronoia.

Cotta utilizza soprattutto fonti letterarie, in questo caso la Medea di Ennio e la Medea e l’Atreo di Accio. Medea fa a pezzi i figli e fuggendo li getta tra le gambe di Giasone per rallentare il suo inseguimento. Evidentemente – commenta Cotta – a costei, come non mancò lo spirito criminale, così non venne meno la ragione. Ma i casi di uso criminale della ragione sono infiniti, sia nella letteratura che nella vita reale, anzi, secondo Cotta il più delle volte la ragione viene usata proprio per fini criminali, a proprio esclusivo vantaggio e a danno di qualcun altro.

In secondo luogo, infiniti sono anche i casi che dimostrano che la giustizia divina viene esercitata meno di quanto sarebbe necessario. A dire il vero, anzi, essa viene esercitata molto raramente, al punto che è quasi una regola di vita che i malviventi passino la propria esistenza indisturbati e muoiano altrettanto indisturbati nel proprio letto.

Quale conseguenza bisogna trarre da tutto ciò, a questo punto, riguardo alla natura degli dèi? Solo tre ipotesi sono possibili: 1) che gli dèi abbiano poteri limitati; 2) che li abbiano ma preferiscano divertirsi alle nostre spalle; 3) che non si occupino affatto di noi. Nel primo caso sono divinità di secondo rango, nel secondo sono malvagi. L’ipotesi più benevola resta la terza, ma è esattamente quella epicurea.

Questo, che potremmo definire «il trilemma di Cotta», e che ribalta una argomentazione stoica (cfr. De div. I 82-83; II 101-102), somiglia in modo impressionante al famoso «quadrilemma di Epicuro» riportato da Lattanzio.

Dio o vuole eliminare i mali e non può, oppure può e non vuole, oppure non vuole e non può, o infine vuole e può. Se vuole e non può, è debole, il che non appartiene alla sua natura. Se può e non vuole è malevolo, cosa ugualmente aliena dalla natura di un dio. Se non vuole e al contempo non può, allora è sia malevolo sia debole, e per questo non è nemmeno un dio. Se è vero che vuole e può – l’unica cosa che possa convenire a un dio – da dove vengono allora i mali? E perché non li elimina? (fr. 374 Usener).

La conseguenza del quadrilemma epicureo, non esplicitata ma evidente, è che è giocoforza riformulare le nostre nozioni sugli dèi, e pensare che essi non si occupino affatto del cosmo e degli uomini. Si tratta dell’ipotesi più benevola nei confronti delle divinità, che ha il vantaggio di saltare a pie’ pari il problema della teodicea, che può nascere solo a ridosso dell’ipotesi tradizionale, che gli dèi siano responsabili del cosmo e delle vicende umane. Questo, secondo Epicuro, è in effetti il vero ateismo, non il suo.

Ma abbiamo visto che questa è anche l’ipotesi più benevola formulata da Cotta, e a questo punto è comprensibile che Velleio, alla fine del dialogo, si dichiari d’accordo con lui. Meno comprensibile è che Cicerone a questo punto si scopra d’accordo con Balbo, dal momento che Cotta è il suo portavoce, ma i motivi di questa scelta si capiscono benissimo quando si consideri che essa è dettata esclusivamente da ragioni di equilibrio.

Infatti se anche Cicerone si fosse dichiarato a favore di Cotta si sarebbe creato un evidente squilibrio a tutto svantaggio di Balbo. Ma questo contrasta col principio accademico dell’equipollenza e del bilanciamento delle opinioni, che Cicerone intende riaffermare. E tuttavia è impossibile sottrarsi all’impressione che Cicerone, anche in questo caso, sia stato costretto dalla logica delle cose a stringere un accordo con gli epicurei. Se ci muoviamo sul terreno degli argomenti razionali, in presenza degli dèi e del male nello stesso tempo, la conclusione di Epicuro è l’unica ragionevole, perché è l’unica rispettosa dell’essenza della divinità. Se abbandoniamo questo terreno, e ci muoviamo nel solco della tradizione, tutto cambia, e da un certo punto di vista, le cose diventano più facili.

[Testo della conferenza del 18 giugno 2008 al convegno Greeks in Rome and Romans in Greece, tenutosi presso la Villa Vergiliana di Bacoli (NA) dal 18 al 21 giugno 2008.]


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