4 febbraio 2011

«'Inoltre': conversazione con Fiorangela Oneroso» di Doriano Fasoli


Fiorangela Oneroso è ordinario di Psicologia Generale nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Salerno. Si è da sempre occupata di questioni teoriche ed epistemologiche riguardanti il rapporto tra il campo delle scienze e quello della creatività artistica. Nell'ambito specifico delle teorie psicoanalitiche ha studiato in particolare il pensiero di Ignacio Matte Blanco, teorico della bi-logica, per gli aspetti che riguardano la riflessione sui nessi tra pensiero razionale e pensiero emozionale, e sulle relative forme di conoscenza. Per ciò che attiene l'influenza delle emozioni nei processi conoscitivi ha esplorato problematiche inerenti al campo dell'arte e della letteratura alla luce delle diverse estetiche e delle diverse poetiche. Fra i suoi lavori più recenti: i due volumi curati con Anna Gorrese nel 2004 Mente e pensiero. Incontri con l'opera di W. R. Bion (premio Gradiva) e Le emozioni fra cognitivismo e psicoanalisi; «Emozioni e reversibilità: l'origine e la coscienza del tempo» (2007); Nei giardini della letteratura (2009); «Il tempo, la coscienza, l'estasi» (2010).

Pretesto del mio incontro con la studiosa (che vive a Roma), la pubblicazione recente (presso Anterem Edizioni) della sua prima raccolta poetica, intitolata Inoltre (con gesti segnici di Nelio Sonego).

Doriano Fasoli: Oneroso, partiamo appunto dal titolo: cosa suggerisce «inoltre»?

Fiorangela Oneroso: Inoltre è un avverbio aggiuntivo che qui è intenzionalmente adoperato non nella sua valenza specifica, ma come significante puro, avulso dal linguaggio ordinario e impiegato per indicare l’indipendenza del linguaggio poetico dal contesto della realtà, ma anche, al contrario, il suo legame con un reale potenziale, che non è, non è rappresentabile, né è descrivibile nelle forme consuetudinarie e condivise del discorso comunicativo. Detto questo, Inoltre può essere considerato come un criterio generativo di infinite variazioni sul flusso ininterrotto e indistinto del linguaggio, entro il quale soltanto può avvenire la traduzione e il dispiegamento dell’omogeneo originario che sta alla base di ogni creazione linguistica e tanto più poetica. 

Lei studia principalmente i rapporti della psicoanalisi con la filosofia e con le scienze, e, in generale, si interessa delle connessioni tra arte e scienza. Come si colloca in questo contesto la sua esperienza poetica? E quando ha scoperto l’esigenza di esprimersi poeticamente?

Ho più volte affrontato nei miei lavori scientifici la dibattuta questione della collocazione della psicoanalisi nell’ambito delle scienze o in quello delle discipline ermeneutiche che, a mio parere, va risolta in favore di questa seconda posizione. L’equivoco che ha dato luogo a numerose contestazioni sulla scientificità della psicoanalisi è partito dalla constatazione secondo la quale gli enunciati della psicoanalisi non sono verificabili sperimentalmente e pertanto non sono falsificabili sul piano della logica delle scienze in generale. Secondo tale argomentazione, riconducibile a Georges Politzer, Karl Raimund Popper e Adolf Grünbaum, la psicoanalisi non sarebbe classificabile come scienza. Ma gli enunciati della psicoanalisi non appartengono al mondo della «verità» nel senso delle scienze. Essi si collocano, se mai, in quegli ambiti di «verità» complesse, presunte, probabili, parziali,  argomentabili e mutabili, quali sono tutte quelle provenienti dalle produzioni di senso i cui concetti di riferimento non sono trasformabili in definizioni operative. Il mio interesse per questi due mondi, distinti nei metodi ma non privi di comunicazioni proficue tra di loro (come ha ben evidenziato, tra gli altri, Robert Musil nel suo saggio La conoscenza del poeta), mi ha portato da moltissimi anni a frequentare criticamente la letteratura e la poesia in particolare. Ciò mi ha consentito di  sperimentare il «fare poesia» come esigenza di un modo di comprendere, conoscere ed esprimersi (secondo la linea da lungo tempo perseguita da Flavio Ermini e dalla sua rivista Anterem) che è sostanzialmente 'altro' rispetto ai linguaggi scientifici o argomentativi, ma non per questo meno rigorosamente intenzionale. 

È una raccolta poetica destinata ad un pubblico particolare?

Non credo che si debba pensare ad un pubblico particolare. Del resto i livelli di lettura possibili per la letteratura e per le arti figurative sono diversi, così come diverse sono le tipologie di lettori: c’è infatti il lettore rivolto alla ricerca del significato immediato, alla parola o al verso che susciti un’emozione, il quale esprime, kantianamente, un giudizio soggettivo secondo il proprio gusto; e c’è il lettore informato, che coglie i diversi e stratificati livelli di una scrittura-struttura e che pertanto esprime un giudizio critico. Nella poesia, più che il significato (che spesso, soprattutto a partire dalle avanguardie, non è immediatamente decifrabile, quand’anche ci sia), è importante l’orizzonte del senso, che è sempre irraggiungibile e sempre differibile. Io credo che ciò che primariamente conti nella poesia sia il livello di poeticità. La poesia, infatti, è un «sentire» i pensieri, un pensare «altrimenti» che, quanto più è «poetico», tanto più si discosta dalla percezione della realtà condivisa e dall’uso normativo del linguaggio, anche quando diventi riflessione sul suo stesso linguaggio. Perciò il pensare poetico deve distinguersi da ogni modalità argomentativa del pensiero discorsivo, pur dovendo dialogare con ogni altra forma di poesia, del passato e del presente, per essere consapevole di dove si trovi, di cosa intenda fare e di cosa stia facendo. E dunque la poesia, in quanto pensiero e in quanto scrittura, si fa soprattutto con la coscienza, benché il suo campo di esplorazione sia il mondo dell’inapparenza. In questo senso la poesia è paradosso poiché richiede una coscienza rarefatta e nel contempo un eccesso di coscienza.

Per Bion, il grande psicoanalista inglese, Bach, Milton, Beethoven erano dei grandi psicoanalisti. Quali sono i poeti che ritiene degli psicoanalisti?

Questi tre grandi artisti sono giustamente ritenuti da Bion psicoanalisti in senso metaforico. Infatti, come dovrebbe accadere nel rapporto analitico, essi colgono e attivano le strutture primitive emozionali e indifferenziate, sincretiche e prepercettive, dispiegandole e traducendole nei linguaggi normativi della parola e della musica, e rendendo in tal modo comprensibile l’incomprensibile, accessibile l’inaccessibile. Da questo punto di vista, per ogni altro grande artista, può valere lo stesso discorso.

Quando qualcuno chiese a Giuseppe Ungaretti a cosa servisse la poesia, lui rispose: «A niente»… Si sente in sintonia con questa opinione?

Rispetto alla «verità» delle scienze, che in qualche modo, in rapporto alle ipotesi formulate e alle verifiche realizzate, appare conclusa almeno fino alla sua sempre possibile riapertura, quella della poesia è una «verità» aperta e sempre inconclusa, che non si lascia recludere tra un prima e un dopo, e nel suo libero sconfinare può anche perdersi nell’originario, prendendo forme non immediate né decifrabili, in quanto si rivolge a ciò che scorre in apparenza ininfluente. Il suo procedere è in funzione di un’ontologia libera dai discorsi dimostrativi o argomentativi che, nel loro contesto, producono comunicazioni implicanti verità o falsità e generano sistematizzazioni. In questo senso Ungaretti ha ragione quando afferma che la poesia non serva «a niente». Ma il «niente» di cui parla Ungaretti è provocatorio, in quanto afferma il suo contrario: la poesia non serve «a niente» solo perché è svincolata dall’utile. L’utile della poesia sta in quell’ignoto che la poesia stessa non può in alcun modo descrivere, ma solo tentare di comunicare.

Che cosa è per lei un classico?

Nel rispondere a questa domanda mi viene naturale ricordare un saggio di Thomas  Stearns Eliot dal titolo, per l’appunto, «Che cos’è un classico?», in cui il concetto di classico è definito principalmente in rapporto alla sua prospettiva storica. Pertanto occorre oltrepassare il senso corrente di classico, individuato, nella sua valenza «relativa», come la grandezza e la fortuna di uno scrittore inteso come autore di una specifica letteratura. Un classico «assoluto» è invece per Eliot soltanto Virgilio. Perché proprio Virgilio? Perché solo Virgilio, secondo Eliot, possedeva quel  profondo senso critico del passato, quella grande consapevolezza del presente e quella compiuta maturità di mente e di lingua, che caratterizzano l’ideale stesso dell’essere classico. Nell’analisi di Eliot, Virgilio rappresenta infatti la straordinaria sintesi di una coscienza unica e complessiva, la «coscienza di Roma» (che è alla base della coscienza d’Europa), la coscienza della storia e la coscienza di essere «la voce suprema della sua lingua».

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