Elegiaco e tragico, umano e crudele, provocatorio e riflessivo, pervaso di quel mistero che fa di una storia interiore l'avventura di una vita ignota a chi la viva, il romanzo di Philip Roth Pastorale americana (American Pastoral, Houghton Mifflin, Boston 1997) l’ho trovato affascinate per l'intelligenza dell'autore, la sua duttilità espressiva, l'ampiezza delle tematiche trattate. Tematiche che sono incluse in atmosfere, in situazioni specifiche, dove emerge l'intensità delle convergenze di stati del mondo che sarebbero altrimenti tenuti separati, come in quella splendida sequenza del film di Robert Benton La macchia umana (2003), tratto dall'omonimo romanzo di Roth, in cui Coleman Silk (interpretato da Anthony Hopkins) e Nathan Zuckerman (Gary Sinise) ballano come innamorati, felici della vita che ritorna. È una scena limite, bella da riguardare, tratta da un film mal riuscito, ma tanto basta a ricordarci, nell'intreccio fra immagine filmica e musica jazz, la cruda contraddizione di chi, rinnegata la propria origine negra per il perduto amore di una donna bianca, non può fare a meno di gioire al ritmo della musica afroamericana, abbracciando un uomo scampato al cancro.
I romanzi di Roth sono pieni di malattie, e Pastorale americana non è da meno. Il romanzo si apre con l'incontro di due uomini malati alla prostata, Nathan Zuckerman che sopravvive, Seymour Levov che muore qualche tempo dopo. La malattia attraversa il romanzo sotto forma di balbuzie della figlia di Seymour (AP, p. 90), di depressione di sua moglie Dawn (p. 177), di attacco cardiaco al padre di lei (p. 389) e via dicendo, fino all'evocazione dell'epidemia di vaiolo del 1777 (p. 303). Attraverso queste malattie Roth fa terra bruciata intorno all'individuo, nella misura i cui la vita non è solo pensiero e narrazione: di là dall'immaginazione dell'uomo c'è qualcosa di carnale che va per conto proprio, e che non può essere condiviso con un'altra persona. Pensa Seymour:
Yes, alone we are, deeply alone, and always, in store of us, a layer of loneliness even deeper. There is nothing we can do to dispose of that. No, loneliness shouldn't surprise us, as astonishing to experience as it may be. You can try turning yourself inside out, but all you are then is inside out and lonely instead of inside in and lonely. (225-226)
Sì, siamo soli, profondamente soli, e in serbo per noi, sempre, c’è uno strato di solitudine ancora più profondo. Non c’è nulla che possiamo fare per liberarcene. No, la solitudine non dovrebbe stupirci, per sorprendente che possa essere farne l’esperienza. Puoi cercare di tirar fuori tutto quello che hai dentro, ma allora non sarai altro che questo: vuoto e solo anziché pieno e solo.
Al tempo stesso il ventre molle della malattia evoca il destino individuale, oltre a denunciare disagi sociali, come nel caso della depressione di Dawn e di balbuzie, bulimia e anoressia ideative e ideologiche di Merry (pp. 243-244).