Il riso è una componente essenziale del primo teatro di
Samuel Beckett, caratterizzato da situazioni umanamente catastrofiche, prive,
quasi, di speranze e spiragli. Questo imbarazza il critico più che lo
spettatore, il quale è chiamato a reagire in modo più incondizionato. Le gag di
Aspettando Godot sono buffe, esilaranti, non v'è il minimo dubbio,
costruite dall'autore irlandese con tecniche variegatissime, tese, appunto, a
far ridere. Ma quando il nostro stesso riso abbia per oggetto personaggi con
cui, attraverso gli espedienti che Beckett adotta, dovremmo immedesimarci, e
quando questi personaggi vivano la loro condizione senza uno scampolo di
speranza, allora il discorso sul riso si fa più arduo. Il riso diventa
inquietante, per nulla finalizzato qual è a correggere i vizi secondo la
celebre tesi di Henri Bergson, poiché qui sono saltate tutte le categorie del
sociale che il riso dovrebbe emendare. Il dramma si pone piuttosto come
testimonianza della condizione umana contemporanea, una condizione avvilente,
di morte in vita, senza crescita interiore e sociale, sospesa per sempre in una
sorta di limbo.
Questa lettura esistentiva di Beckett, in cui i clochards
Estragon e Vladimir, protagonisti del dramma, rappresentano l'uomo per esteso,
si oppone fortemente al riso. La grande letteratura modernista è fondata su
continue contraddizioni, per cui non è in sé preoccupante osservare la
dicotomia tra comicità ed elegia in Beckett. In fondo l’espressione
«tragicomico» è impropria: nei drammi di Beckett in genere non si consuma
alcuna tragedia. Aspettando Godot non è una tragedia, non perché vi sia
comicità, ma perché la comicità non smette mai di esserci fino in fondo; e non
vi è alcuna pena che i protagonisti debbano scontare a seguito di un loro
risoluto comportamento. È la struttura tragica stessa a essere negata al
dramma, fondata qual esso è non su agnizioni, peripezie, snodi e catastrofi, ma
sulle incessanti gag. La catastrofe, se la si trova nel dramma, v'è stata prima
del dramma stesso, mentre al suo interno risulta, con l'ingresso di Pozzo nel
secondo atto, affatto parodica (WG 69): non tanto e non solo in quanto
grottesca parodia del proprietario terriero decaduto e letteralmente caduto per
terra, ma della tragedia stessa come genere.
Nella letteratura modernista, le contraddizioni, anche quelle
apparentemente senza senso, hanno, se non un senso, almeno due o tre. Il riso
di Beckett è la luce della speranza all'interno del dramma. Non una luce solare
o divina, un invitante bagliore che faccia uscire i protagonisti del dramma
dalla triste condizione umana in cui sono sprofondati, ma un'intermittente
presenza luminosa che tenga sempre in contatto personaggi e spettatori. Qui quando si ride non è perché proviamo dileggio per la
miseria altrui, ma perché in fondo qualsiasi situazione, anche la più
sgradevole, è scongiurata dalla vis comica, da quest'emozione che se la
ride delle situazioni e dei discorsi esistenziali. Il riso che suscita Beckett
viene dal profondo, finanche commovendo, e ciò di cui si ride siamo noi stessi.
Lo spettatore è invitato a liberarsi delle sventure di Estragon e Vladimir, in
cui si rispecchia, in cui si immedesima.