La presente conversazione prende spunto dalla pubblicazione dalla recente traduzione della raccolta di saggi dello psicoanalista britannico Wilfred Bion Riflettendoci meglio (Second Thoughts), edita da Astrolabio Ubaldini e a cura di Loredana Micati e Luciana Zecca. Loredana Micati è psicoanalista e analista di training della Società Psicoanalitica Italiana e autrice, tra l'altro, de La dinamica degli inconsci (Dedalo, 1977) e del romanzo Don Riccardo (Mursia, 2014). Luciana Zecca è medico chirurgo, specialista in psichiatria, membro associato della Società Psicoanalitica Italiana e dell’International Psychoanalytical Association (IPA).
Doriano Fasoli: Dottoresse Micati e Zecca, quando viene pubblicato per la prima volta Second Thoughts?
Loredana Micati e Luciana Zecca: Nel 1967; Second Thoughts ha come sottotitolo Selected Papers on Psycho-Analysis.
Com’è articolato il libro?
Quando, nel 1967, viene pubblicato Second Thoughts, Bion aggiunge, a una raccolta di articoli, scritti e pubblicati negli anni '50, una lunga riflessione chiamata «Commentary».
Erano passati quasi vent'anni e il punto di vista dell'autore era profondamente cambiato. Egli sceglie di non riscrivere gli articoli, ma di aggiungere un lungo «Commentario», che si richiama ai paragrafi degli articoli e li discute.
È la prima volta che appare tradotto in italiano o esisteva già una versione precedente?
Quando Second Thoughts fu pubblicato in Inghilterra nel 1967, in Italia la comunità psicoanalitica stava ancora facendo i conti con la lunga interruzione dovuta al fascismo, che aveva soppresso la Società Psicoanalitica Italiana (SPI), costringendo le personalità più in vista all'espatrio o al silenzio. Dopo la guerra la SPI incominciò subito a riorganizzarsi. C'era desiderio di recuperare il tempo perduto e mettersi al passo con le culture analitiche più interessanti. In quegli anni in Italia si traduceva molto. Sergio Bordi fu studioso infaticabile e generoso nel mettere i suoi studi a disposizione dei colleghi italiani. La prima traduzione di Second Thoughts fu curata proprio da Sergio Bordi, e comparve nel 1970, edita da Armando, con il titolo Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico. La traduzione seguì quindi il testo inglese a brevissima distanza e l'urgenza non fu buona consigliera. Uno degli obiettivi della traduzione del '70 sembra sia stato quello di semplificare il compito al lettore scegliendo l'interpretazione del testo più plausibile, date le conoscenze di cui si disponeva. Lo stile di quella traduzione risulta molto diverso dallo stile del testo originale, e tende a sciogliere le ambiguità, a operare scelte, a delimitare e definire. Piuttosto che incontrarsi e scontrarsi con un testo spiazzante e geniale cerca di domarlo per comprenderlo e renderlo più accessibile.
Conseguentemente anche il contenuto cambia e il discorso che si sviluppa scorre parallelo al testo originale, ma se ne discosta molto. Così si è perso ciò che a Bion stava più a cuore: il significato di un modo particolare di entrare in rapporto con l'esperienza, l'emozione, il pensiero.
È andata persa, ad esempio, l'attitudine al dubbio, la capacità di attendere, di tollerare di non sapere, d'incontrare l'ignoto.
Che cosa esprime precisamente Bion in quella riflessione posta in fondo al volume e chiamata «Commentario»?
Nel commentario Bion parla di ciò che è cambiato nel suo pensiero. Si tratta di cambiamenti di grande interesse. Preferisco citare direttamente l'autore. «Solitamente,» scrive Bion nell'introduzione a Riflettendoci meglio, «in un libro costituito da una raccolta di articoli psicoanalitici, vi sono numerose storie cliniche; questo libro non rappresenta un’eccezione. Apparentemente si tratta di un'esposizione della storia del paziente, di alcuni dettagliati resoconti delle sedute, corredati dalle associazioni del paziente e dalle interpretazioni date dall’analista. Mi è sempre sembrato che resoconti di questo genere si prestassero all'obiezione che la narrazione e le interpretazioni date fossero solo due differenti modi per dire la stessa cosa o due differenti cose riferite allo stesso fatto. Con gli anni il mio dubbio è maturato in convincimento. Ho cercato di esporre questo convincimento in tre libri, Apprendere dall’esperienza, Elementi della psicoanalisi e Trasformazioni, ciascuno dei quali ha fatto progredire la discussione e ha reso le formulazioni più precise. Ora che è giunto il tempo di ristampare i vecchi articoli, l'aver cambiato opinione a proposito del metodo psicoanalitico, mi rende riluttante a darli a pubblicarli nuovamente senza esplicitare in cosa consista un cambiamento di questo genere. Per quanti volessero leggere gli articoli, così com’erano stati originariamente stampati, gli articoli sono qui, ma ho aggiunto un commentario che comprende l'evoluzione del modo in cui sono cambiate le mie opinioni. Non prendo in considerazione alcuna narrazione pretendendo che sia il resoconto di un fatto – né di ciò che il paziente ha detto, né di ciò che io ho detto – che meriti di essere considerato un “racconto basato sui fatti” accaduti. In primo luogo non attribuisco alla memoria il significato che le è dato comunemente. Il fatto che vi siano distorsioni involontarie è così ben accertato dalla psicoanalisi stessa che sarebbe assurdo comportarsi come se i nostri resoconti fossero in qualche modo dispensati da ciò che noi stessi abbiamo scoperto. La memoria nasce ed è predisposta per prendere forma unicamente dall'esperienza dei sensi. Poiché la psicoanalisi si occupa di un’esperienza che non è dei sensi – chi sosterrebbe che l’ansia ha una forma, un colore o un odore? – trascrizioni basate sulla percezione di ciò che è sensibile sono psicoanaliticamente irrilevanti. Perciò in ogni resoconto di una seduta, indipendentemente da quanto tempestivamente sia stato trascritto o dalla competenza dell’autore, la memoria non dovrebbe essere considerata qualcosa di più di una comunicazione figurativa di un’esperienza emotiva. I resoconti dei casi, in questo libro, sebbene all'epoca li avessi considerati rispondenti ai fatti (escludo le alterazioni introdotte per motivi di discrezione), dovrebbero essere ora riconsiderati come formulazioni verbali di immagini sensoriali costruite per comunicare, in una data forma, ciò che era probabilmente comunicato in un’altra; come per esempio accade nella teoria psicoanalitica, sia in uno stesso articolo, sia in alcune parti della letteratura psicoanalitica. Se questa può sembrare una revisione radicale, replico che, nel lavoro psicoanalitico lo sviluppo cesserebbe se tale revisione non fosse considerata essenziale. Dovrebbe invece essere il punto di partenza di un nuovo atteggiamento nel lavoro scientifico, di altri non meno che dei nostri. Per chi trovi più semplice considerarli dei resoconti di fatti i lavori sono ristampati nella loro forma originale. Ho aggiunto il commentario per manifestare il cambiamento del mio punto di vista.»
Quali sono le difficoltà principali incontrate nel corso della traduzione?
Il nostro obiettivo nel tradurre è stato quello di offrire ai lettori italiani un'esperienza il più possibile affine all'esperienza del lettore di madrelingua inglese di fronte al testo originale. Tradurre Bion vuol dire accostarsi al suo tentativo di traslare l'immagine nel pensiero e nel discorso senza anticipare, dirigere, forzare il testo, e senza definirne anticipatamente il senso. Possedere il senso equivarrebbe a tradirlo, a operare una violenza per costringerlo in un contenitore definito, e a privarlo della sua forza vitale, la forza appunto del pensiero. Lo stile di Second Thoughts, come quello di tutte le altre opere di Bion, è asciutto ed essenziale, il suo discorso mira alla precisione e alla semplicità. Uno dei paradossi è proprio qui: sempre sospeso del divenire, egli chiede a se stesso e al lettore grande tolleranza per l'incertezza, si tiene in bilico tra definire i passaggi e includere, in ogni transitoria definizione, la maggiore apertura di senso possibile. È come se ogni passaggio si aprisse sull'ignoto. Il possedere non è possibile. Qualunque possesso toglierebbe al processo di conoscenza le sue potenziali capacità di sviluppo. Una delle difficoltà di traduzione è quasi ovvia: è un testo geniale che l'autore scrive muovendosi al suo livello di funzionamento che non è quello di chi traduce e di chi legge. È un testo sempre in transito, che cerca di trasmettere, anche attraverso lo stile e la scelta di utilizzare modelli piuttosto che teorie, l'impervietà del movimento verso la conoscenza e la provvisorietà di ciascun passaggio.
Questa particolare esperienza di traduzione e immersione nel testo ci ha portato all'interno di sensazioni che diventano pensiero e del pensiero stesso mentre si sta creando. La curiosità di Bion sembra essere più nel metodo di ricerca che nei risultati, certamente è più nel modo in cui nasce e si sviluppa il pensiero che nei suoi contenuti.
L’immersione-traduzione nelle opere di Bion ci ha portato a familiarizzare con la «capacità negativa», ossia con la capacità di tollerare il dubbio. In un testo di questo genere se la comprensione non è prevalentemente difensiva ogni nuova lettura può sorprendere il lettore, che si troverà a passare attraverso fasi diverse. Il lettore sufficientemente esperto può intuire velocemente e operare sintesi che gli danno la sensazione di aver capito; in realtà non possiede ancora i passaggi in grado di articolare l’intuizione, collegare i dati, rappresentare a se stesso i collegamenti, per poterli poi esprimere e comunicare chiaramente.
Afferrare e ricordare è certamente importante, purché si sia sempre disponibili a ricominciare e a permettere ad altre intuizioni di presentarsi.
Più che di una lettura si tratta dunque di un’esperienza. A questo proposito Bion scrive (si vedano le pp. 166-167 di Riflettendoci meglio):
Non tutti gli psicoanalisti sottoscriverebbero l’opinione che i lavori psicoanalitici dovrebbero essere trattati come esperienze che influenzano lo sviluppo del lettore. Non sostengo che non sia in gioco una scelta cosciente determinata dai desideri del lettore, ma che certi libri, come certe opere d’arte, fanno nascere emozioni potenti e, volenti o nolenti, stimolano la crescita. Come tutti sanno, così accade con Freud.
Come dire che per tradurre bisogna capire e ricordare, ma capire e ricordare possono diventare strettoie che non lasciano passare pensieri nuovi.
Tradurre Second Thoughts è stato come lavorare un campo fino a che anche le più piccole zolle siano diventate grani di terra e poi nuovamente afferrarlo, con un processo intuitivo, nella sua complessità e renderlo rappresentabile, comunicabile e traducibile. Ecco, in poche parole, la sintesi del paradosso in cui si trova il traduttore di Bion.
Di qualunque traduzione si potrebbe dire che si tratta di un testo diverso dall’originale, perché, per essere fedele, dovrebbe ricreare il pensiero in un’altra lingua e operare un tradimento non arbitrario, che nasca dalle viscere del testo.
Spesso, in questa traduzione, abbiamo sacrificato la fluidità di una bella lingua italiana alla fedeltà.
Più precisamente si può dire che questa traduzione è un resoconto delle trasformazioni che l’esperienza della lettura ha operato nella mente delle traduttrici, e nelle emozioni, nelle difese, nella capacità di pensare e di riproporre il testo.
Pensiamo che passando attraverso un’esperienza di questo genere, sia possibile avvicinarsi molto di più al rispetto del testo originale.
Qual è l’attualità del pensiero bioniano?
È un pensiero di una straordinaria utilità clinica. Il duro lavoro necessario per comprenderlo in profondità è ampiamente ripagato proprio dalla grandissima utilità clinica.
Bion è un genio che ha precorso di molti decenni lo sviluppo successivo della psicoanalisi. Ancora non abbiamo fatto i conti con il suo pensiero proprio a causa della sua genialità e complessità. Bion smonta i luoghi comuni, destruttura il già pensato delle teorie note e, piuttosto che proporre altre teorie, suggerisce, attraverso l'uso di modelli, un metodo per lo sviluppo del pensiero.
Ha conosciuto personalmente Bion, dottoressa Micati?
Ero una giovane candidata intimidita quando andavo ad ascoltare i seminari italiani e mi sentii in presenza di un autentico genio, ironico e spiazzante; la stessa autenticità, lo stesso spietato coraggio, si trova negli scritti, nella bellissima autobiografia e nei seminari.
Quali erano i suoi rapporti con la letteratura e la filosofia?
Intensi e profondi. Bion ricorre alle citazioni solo quando sono strettamente indispensabili per sviluppare il suo pensiero, tutto il resto è implicito e chi vuole e ce la fa può cercare di individuarlo.
Ad esempio fa riferimento a Il paradiso perduto di John Milton (1667) quando parla di come il lavoro del pensiero renda possibile individuare i primi elementi discreti estraendoli dell'infinito:
«”tre” lega una congiunzione costante, “conquistata a partire dal buio e da un infinito senza forma”»
(p. 158-159 di Riflettendoci meglio.)
Quando nell'introduzione a Riflettendoci meglio scrive
«La memoria nasce ed è predisposta per prendere forma unicamente dall'esperienza dei sensi»
sta utilizzando, come in molti altri passaggi, il pensiero di Hobbes.
Osserva che il nome ci permette di pensare e di parlare di qualcosa che ancora non conosciamo, il nome, ad esempio il nome «cane» sarebbe una pre-concezione che attende di essere riempita dall'esperienza per realizzarsi e divenire concetto. In altri termini il nome sarebbe il riconoscimento che certi elementi sono costantemente congiunti. Il tema della «congiunzione costante», tema fondamentale nello sviluppo del pensiero in Bion, è stato preso da Hume (A Treatise of Human Nature, 1738). Quando, procedendo nel discorso, Bion arriva al «fatto scelto» prende in prestito il concetto da Poincaré e a più riprese lo cita. Il «fatto scelto», nel pensiero di Bion, è il nome di un'esperienza emotiva, l'esperienza emotiva del senso di scoperta e coerenza. Si richiama spesso a Kant (e, in alcuni passaggi, alla Critica della ragion pura) quando parla ad adempio del concetto di «pensieri vuoti» («il pensare viene chiamato in essere per avere a che fare con i pensieri») e delle qualità primarie e secondarie e della «cosa in sé» che non può essere conosciuta.
Rimane molto colpito dal concetto di «capacità negativa» di cui John Keats scrive nelle Lettere sulla poesia, in particolare nella lettera ai fratelli, «Lettera a Gorge e Tom Keats» del 21 dicembre 1817:
«quando un uomo è capace di stare nell’incertezza, nel mistero, nel dubbio senza l’impazienza di correre dietro ai fatti e alla ragione».
(Lettere sulla poesia, Mondadori, Milano 2005, p. 38)
Del resto Bion ha posto ciò che possiamo riconoscere come dubbio socratico alla radice del suo pensiero.
Conosce, usa e cita la Bibbia e il mito, la filosofia e le religioni indiane.
Nel retroterra dello sviluppo del suo pensiero si può riconoscere molto di più di quanto questi scarni cenni possano rendere.
(Novembre 2016)
Nessun commento:
Posta un commento