Felice Cimatti insegna Filosofia del linguaggio all’Università della Calabria. Fra le sue recenti pubblicazioni, La vita che verrà. Biopolitica per Homo sapiens (Ombre Corte, 2011) e Filosofia dell’animalità (Laterza, 2013). Ha curato, insieme a Silvia Vizzardelli, Filosofia della psicoanalisi. Un’introduzione in ventuno passi (Quodlibet, 2012); con Alberto Luchetti Corpo, Linguaggio e psicoanalisi (Quodlibet, 2013); e con Leonardo Caffo A come animale. Per un bestiario dei sentimenti (Bompiani, 2015). Nel 2012 ha ricevuto il Premio Musatti dalla Società Psicoanalitica Italiana. È docente dell’Istituto Freudiano, sede di Roma. È uno dei conduttori del programma di attualità culturale Fahrenheit di Rai Radio 3. L'intervista che segue si incentra sull'ultimo libro di Cimatti, Il taglio. Linguaggio e pulsione di morte, uscito in questi giorni per i tipi Quodlibet.
Doriano Fasoli: A cosa rimanda il titolo del suo libro?
Felice Cimatti: L’idea è quella di un taglio, è una espressione di Lacan, una linea netta che lascia sul corpo umano una ferita che non si rimargina. Viene in mente uno dei tagli di Fontana, come questo riprodotto qui sotto. Il taglio è una ferita netta, che lascia una traccia indelebile nel corpo umano. Al taglio è connessa anche l’idea che i bordi della ferita non possono più ricongiungersi. Nel corpo rimane quella linea, e il dolore che lo accompagna. Il punto è che si tratta di una ferita che non si rimargina. L’animale umano è questo taglio.
In questo senso il sottotitolo del libro è Linguaggio e pulsione di morte. Il taglio, seguendo Lacan (ma anche il Wittgenstein del Tractatus, che prima di Lacan aveva lucidamente intravisto gli effetti del linguaggio sul corpo umano), è il linguaggio. Gli esseri umani parlano, e il fatto del parlare installa nel corpo umano un dispositivo impersonale ed autosufficiente che persegue un proprio obiettivo, che non coincide con quello del corpo che lo ospita. Sembra una idea misteriosa, in realtà se si legge Chomsky, ad esempio, il più grande linguista del ’900, si scopre che la facoltà del linguaggio è appunto un dispositivo che ‘genera’ (è esattamente l’espressione di Chomsky) enunciati in modo del tutto non intenzionale. Li genera perché non può non generarli, il linguaggio è questo dispositivo. Il linguaggio, per Chomsky, impersonalmente parla. Non siamo noi che usiamo il linguaggio, al contrario, il linguaggio è un dispositivo che genera enunciati. Per questo, è ancora Chomsky a dirlo, la funzione principale del linguaggio non è la comunicazione. La comunicazione serve a noi umani, ma il linguaggio umano non è fatto per questo (la comunicazione è la funzione dei linguaggi animali). Il linguaggio può generare enunciati di lunghezza infinita, che noi non usiamo perché non abbiamo la capacità di usarli (limiti di memoria, di attenzione, e così via). Il linguaggio è molto più potente di noi. Lacan la pensa così. Il linguaggio è la pulsione di morte allora, perché innesta nel nostro corpo finito, mortale, limitato, un dispositivo che lo proietta oltre sé stesso, dove il corpo non può andare. Prendiamo il caso del desiderio umano, distinto da un bisogno (ad esempio la fame) che una volta soddisfatto si acquieta. Un desiderio è indipendente dalla sua eventuale realizzazione, proprio perché non è un bisogno. Don Giovanni seduce migliaia di donne spinto da un desiderio che non ha nulla di biologico e di umano. È un desiderio che è spinto da un meccanismo interno – la pulsione di morte – che non può essere soddisfatta. Si pensi alla sequenza dei numeri naturali: 1, 2, 3 … n. Il linguaggio come dispositivo è questa forza interna che non si arresta, perché la sua esistenza consiste in questa stessa procedura. Il corpo umano, in quanto corpo parlante, è questa procedura. Il taglio è allora l’effetto sul corpo di un dispositivo che lo proietta sempre oltre sé stesso. Oltre i propri bisogni e le proprie possibilità corporee (si pensi alle dipendenze, alle ossessioni e così via).