9 dicembre 2013

«Le lezioni di Lucio Colletti sul I libro del 'Capitale' di Marx», di Luciano Albanese




Il presente articolo di Luciano Albanese costituisce una nuova versione, qui proposta per la prima volta, della «Nota del curatore» al libro postumo di Lucio Colletti Il paradosso del Capitale. Marx e il primo libro in tredici lezioni inedite, edito dalla fondazione liberal nel dicembre 2011 e curato, appunto, dallo stesso Albanese.

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Il volume di lezioni sul I libro del Capitale di Marx si compone di 13 capitoli, corrispondenti a 13 lezioni tenute da Lucio Colletti all’Università La Sapienza di Roma, Istituto di Filosofia, all’inizio degli anni ’70. Il corso risente dell’impostazione del primo Colletti, il Colletti ancora marxista. Elementi caratteristici di tale impostazione erano – come in Della Volpe – la tesi del carattere assolutamente scientifico dell’opera di Marx, ma anche – diversamente da Della Volpe – quella del carattere assolutamente scientifico della stessa teoria dell’alienazione e del feticismo sviluppata da Marx a partire dagli anni giovanili e massicciamente presente soprattutto nel I libro del Capitale. Questa seconda tesi venne abbandonata da Colletti, come è noto, nell’Intervista politico-filosofica del ’74, nella quale la teoria dell’alienazione veniva giudicata un residuo hegeliano. Essa tuttavia è ancora presente, e in modo decisivo, in queste lezioni, dove si affianca – e in certo senso alimenta e arricchisce – alla teoria quantitativa del valore.

La teoria quantitativa del valore dice che il valore di una merce dipende dalla quantità di lavoro mediamente necessario a riprodurla nelle condizioni storiche date. E che il valore del lavoro speso in tale operazione – cioè più esattamente il valore della forza-lavoro – dipende esso stesso dalla quantità di lavoro necessario a riprodurla, ossia dal valore dei mezzi di sostentamento dell’operaio: alimenti, vestiario, affitto, ecc.: quindi dalle ore di lavoro contenute in tali mezzi. Il plusvalore necessario alla riproduzione e all’accrescimento del capitale investito (D-M-D’) viene ottenuto in una prima fase facendo lavorare l’operaio per un tempo superiore a quello necessario a riprodurre il valore della sua forza-lavoro, cioè dei suoi mezzi di sostentamento. Ma in seguito alla riduzione dell’orario di lavoro da 12 a 8 ore il capitalismo deve cercare di recuperare il plusvalore perduto (passaggio dal plusvalore assoluto al plusvalore relativo).

Tale recupero può avvenire, secondo Marx, solo riducendo il valore della forza lavoro, e tale riduzione si ottiene aumentando la produttività della stessa grazie alle innovazioni introdotte nel processo produttivo. Infatti tale aumento comporta automaticamente la riduzione del prezzo delle merci che entrano a far parte dei mezzi di sostentamento dell’operaio, e che riproducono la sua forza lavoro. Questo aumento della produttività del lavoro consente di ridurre il valore della forza lavoro, e conseguentemente di abbreviare il primo segmento della giornata lavorativa (quello in cui l’operaio riproduce il valore della propria forza lavoro) per poter prolungare il secondo segmento, cioè il tempo di pluslavoro. I capitoli 11, 12, 13 del I libro del Capitale (Cooperazione, Divisione del lavoro e manifattura e, in particolare, Macchine e grande industria), studiano i modi con cui il capitalismo rivoluziona costantemente il processo produttivo al fine di incrementare la produttività del lavoro.

Nell’analisi di Marx, quindi, si intrecciano tre motivi diversi. Il primo riguarda l’aspetto esclusivamente quantitativo della teoria. Da questo punto di vista, essa risulta essenzialmente uno strumento di calcolo, che dovrebbe spiegare, insieme, il sostanziale equilibrio del sistema e il meccanismo di formazione dei prezzi. In queste lezioni Colletti, apparentemente, sembra ancora sostenere la validità della teoria quantitativa del valore. Tuttavia i dubbi sulla tenuta della teoria stessa non potevano non essere sorti nella sua mente. Era noto da molto tempo, dopo la pubblicazione del III libro del Capitale e la scoperta della non coincidenza fra prezzi e valori, ma soprattutto dopo quella di Produzione di merci a mezzo di merci di Piero Sraffa (1960), che tale teoria o era sbagliata o era inutile ai fini della determinazione dei prezzi delle merci. Si potrebbe aggiungere che la teoria quantitativa del valore comporta quasi automaticamente la teoria della caduta irreversibile del saggio di profitto, in base alla quale il capitalismo dovrebbe essere morto e sepolto da un bel pezzo, ma Colletti non affronta il problema in queste lezioni (ne parlerà invece estesamente in Il futuro del capitalismo: crollo o sviluppo?).

Colletti accusò il colpo inferto da Produzione di merci a mezzo di merci di Piero Sraffa, e tentò di reagire puntando tutto sul secondo aspetto della teoria del valore, quello qualitativo. A tale scopo recuperò il Lukács del ’23, quello di Storia e coscienza di classe (opera che per altri versi detestava), un autore che aveva fatto riemergere dal dimenticatoio in cui l’aveva relegato il marxismo della II Internazionale l’aspetto qualitativo della teoria. Il nocciolo di questa lettura era che la teoria qualitativa del valore dà conto del fatto che nella realtà ‘rovesciata’ del mondo capitalistico il valore del lavoro svolto in società e per la società si presenta come valore di ‘cose’ assumendo forma autonoma nel denaro e quindi nel capitale. Se uno ha del denaro in tasca, diceva Marx riprendendo Moses Hess, ha in tasca la società trasformata in una cosa solida. Ma la teoria qualitativa del valore del I libro del Capitale si presenta strettamente collegata alla teoria della reificazione e dell’alienazione, e quindi all’impianto – anche se ‘rovesciato’ – della filosofia della storia di Hegel e della sua dialettica (e non è semplice capire, ancora oggi, se possa essere ‘scorporata’ da Hegel e letta in una chiave che potrei definire ‘fenomenologica’).

In ogni caso tale lettura – che costituiva il motivo conduttore del Marxismo e Hegel e di Ideologia e società – si riflette continuamente in queste lezioni, nelle quali siamo costantemente spinti a leggere il processo di valorizzazione del capitale come la manifestazione di una realtà rovesciata, in cui il prodotto domina il produttore, l’astratto impone le sue leggi al concreto. Colletti avvertiva istintivamente che la teoria dell’alienazione era l’ultima spiaggia del marxismo: se svaniva anche quell’approdo, saltava tutto. E paradossalmente fu proprio lui che, qualche anno dopo queste lezioni (1974), si incaricò di sbarrare anche questo approdo, non potendo in alcun modo ‘digerire’ la massiccia presenza hegeliana – un tempo negata, e ora ammessa – all’interno dell’aspetto qualitativo.della teoria del valore.

Esiste tuttavia un terzo aspetto dell’analisi di Marx, che emerge esplicitamente da queste lezioni. Dall’analisi della IV sezione del I libro del Capitale (capitoli 11, 12, 13: Cooperazione, Divisione del lavoro e manifattura, Macchine e grande industria) emerge chiaramente che dietro quelle che appaiono – e vengono presentate, a cominciare dalla Ricchezza delle nazioni di Adam Smith (vedi la classica descrizione della divisione del lavoro nella manifattura degli spilli) – come utili e asettiche innovazioni scientifico-tecniche, si nasconde un disegno perseguito coscientemente dalla classe imprenditoriale: quello di recuperare il plusvalore perso in seguito alla scomparsa della possibilità di prolungare ad libitum la giornata lavorativa. Sebbene Colletti sorvoli forse troppo rapidamente sui capitoli che riguardano le lotta per la riduzione della giornata lavorativa, la sua analisi fa emergere la presenza di una forte sensibilità politica in Marx. Dalla lettura di queste sezioni siamo infatti spinti inevitabilmente ad operare una sorta di riorientamento gestaltico, in virtù del quale assumiamo un diverso punto di vista: non più quello del capitale, ma della forza-lavoro, vale a dire non più quello dell’imprenditore, ma quello dell’operaio. Siamo spinti a leggere il Capitale, in altri termini, per quello che realmente è: la descrizione di una lotta di classe, cioè di uno scontro politico. Questo è l’aspetto ancora vivo dell’opera, che non a caso pensatori borghesi dalla mente aperta, come Schumpeter e Weber, hanno sempre apprezzato o addirittura fatto proprio. «Nell’argomentazione marxista – scriveva Schumpeter – sociologia ed economia si permeano a vicenda; tutti i conflitti e le tesi fondamentali sono economici e sociologici insieme […]. Così la categoria [forza]-lavoro e la classe sociale proletariato vengono, almeno in linea di principio, fatte convergere e, in pratica, identificate».

Sotto questo profilo, il marxismo è una teoria della lotta di classe. Questa idea – che in Marx presupponeva la confidenza coi classici del pensiero politico, da Tucidide a Hobbes – sarà sempre attuale, anche perché i conflitti di classe precedono il marxismo, e la fine del marxismo non comporta certo la fine dei conflitti sociali. La radice dei conflitti sociali è nella divergenza di interessi: anche se la teoria quantitativa del valore non è sostenibile come ipotesi scientifica sulla genesi del conflitto tra capitale e lavoro salariato, il conflitto fra capitale e lavoro salariato resta. Esso, come tutti i conflitti, sia privati che pubblici, ha verosimilmente radici esistenziali, che rinviano ad un ventaglio di interessi divergenti, che finiscono per contrapporre inevitabilmente la classe imprenditoriale a quella operaia. La stessa classe operaia dei paesi ricchi, peraltro, entra in conflitto con quella dei paesi meno ricchi, così come esiste una lotta spietata all’interno della stessa classe imprenditoriale. Marx pensava che tutte queste lotte sarebbero finite nella futura società comunista planetaria, ma probabilmente si sbagliava. Questo, tuttavia, non significa il fallimento del marxismo come teoria della lotta di classe: significa solo il fallimento del marxismo come teoria della fine della lotta di classe.




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