Nicola D'Ugo, in una foto di Lorida Spaho |
Ora sono qui, chiuso in questa arnia della sera. Fuori il vento. E, dentro il vento, la pioggia sottile, maltrattata. L'acqua del cielo presa a schiaffi e, sui vetri, gocce sottili come ragnatele di morte speranze.
Ma più dentro, nella casa, il fuoco arde. Mi perdo a guardare le fiamme. Sono vita che si consuma nel fosforo del cervello amato. Dio è là, come un'ombra ai piedi dell'albero. E ai miei piedi le calze di lana, zuppe per l'ultimo andirivieni tra legnaia e cucina, mi piacciono. Sento l'odore della fine. Un odore penetrante nelle radici animalesche che ho ereditato coi discorsi dei filosofi fini. In questa notte i miei occhi sono pupille di tenebra circondate da scintille natalizie. Sono qui ora, non per scelta, ma per quel che capita nella vita di un uomo, formica o aquila, ma vivo, come sulle ali e sulle zampe sottili del creato.
Aggiungo un ceppo al focolare. Le calze le butto su una sedia e i piedi bagnati me li massaggio con amabile amore per me. Che bello essere vivi nella tragedia umana, nell'ecatombe quotidiana, nella mancanza di rispetto, nell'indifferenza tipica dei carnefici che fanno il bello e cattivo gioco pensando di trovare aperte le vie della gloria e del paradiso. Sono sciocchi come galline, ma astuti e nefasti come uomini. Qui di fronte al fuoco che arde lecci, cerri e castagni, me ne sbatto. Massaggio i miei piedi come se fossero l'ultimo rimasuglio delle passeggiate di Dio.
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