Roberto Calasso (foto di Ferdinando Scianna) |
L'intervista a Roberto Calasso (in gran parte inedita), su uno dei suoi libri di maggior successo, Le nozze di Cadmo e Armonia (Adelphi), si svolse in una stanza, stipata di libri e carte, della sua casa al centro di Milano (un palazzo del Seicento) nel mese di ottobre 1988.
Come una narrazione tramandata oralmente, prossimo alle favole, alle leggende, ai canti celti dei Bardi è racconto inventato, senza fondamento storico, ma, piuttosto, è tradizione riguardante oscuri tempi antichi: così il mito viene definito. Ad essere sempre affascinato dai miti è Roberto Calasso, fondatore, insieme a Luciano Foà, della casa editrice Adelphi. Mito per lui vuol dire «una conoscenza che è già in sé sovrana, che non tollera un sapere che si pretenda ulteriore (normale atteggiamento invece dell'Occidente)»; e «le figure del mito vivono molte vite e molte morti, a differenza dei personaggi del romanzo, vincolati ogni volta a un solo gesto». Al mitografo poi non è permesso inventare nulla, il mito è una costruzione fatta di varianti ed egli può solo scegliere un percorso invece che un altro all'interno di queste varianti: a quel punto però, aggiunge Calasso, «deve dirle, deve raccontare la storia e dare lui il senso di questa storia. Perciò si ritrova, in realtà, a dover dar forma non meno di un romanziere che invece s'inventa, da zero, dei personaggi.»
Dopo L'impuro folle, del 1974 (ripensato oggi «come una specie di prologo a ciò che è venuto successivamente, proprio un prologo che avviene in cielo, tra tutti quei tanti cieli che stanno nella testa di Schreber con i vari arconti che li dominano ecc.»), dopo La rovina di Kasch (1983), Calasso è alla sua terza prova narrativa con Le nozze di Cadmo e Armonia (appena uscito, già in ristampa). In quest'ultimo libro ha voluto addentrarsi nell'Olimpo greco per narrarne le avventure, grondanti di sangue e di eros (vendette e tradimenti sono i protagonisti). Ed ecco Zeus rapire, sotto forma di toro bianco, la principessa Europa; ecco Fedra smaniare invano per Ippolito; ecco come Odisseo («l'ultimo degli eroi») soggiornò presso Calipso; ecco, infine, come gli Olimpi scesero a Tebe per partecipare alle nozze di Cadmo (l'eroe dell'alfabeto) e Armonia.
Nessun accadimento, nessun nome sembra estraneo a Calasso. Quarantasette anni, fiorentino, scontroso e affabile, sguardo pungente, è oltretutto appassionato di cinema: ama in particolare Robert Aldrich e, al contempo, un regista del tutto diverso quale Ernst Lubitsch. E, ancora, i film noirs e Jean-Pierre Melville: «Il cinema, per me, coincide con l'America per una larghissima parte».
Doriano Fasoli: Suo nonno materno, Ernesto Codignola, aveva fondato la casa editrice fiorentina La Nuova Italia... Quali sono state le figure centrali della sua formazione culturale?
Roberto Calasso: Innanzitutto Bobi Bazlen, un uomo post-storico, un taoista, una figura che va molto al di là dei soliti apprezzamenti sull'uomo di grande cultura, sull'uomo che sapeva tutto. Era qualcosa di molto più complicato e direi qualcosa che mantiene la sua novità, il suo aspetto sconcertante, oggi come lo aveva trent'anni fa. Allora si sarebbe potuto dire che era così sconcertante perché era in anticipo sui tempi, perché si basava su cose che ancora non erano filtrate, ma penso che oggi lo sarebbe allo stesso modo. Era il taglio mentale che era completamente diverso, non era semplicemente un fatto di conoscenze.
Qual è il suo atteggiamento nei confronti della psiconalisi?
Essa rappresenta un passaggio obbligato, trattando di cose del nostro tempo. Sia Freud, sia Jung, li ho sempre però considerati come scrittori, come inventori, come mitografi, in un certo senso. La visione scientifica della psicoanalisi mi è sempre stata estranea, perché penso che sia una grande illusione in cui in un certo senso Freud stesso ha pescato energie, ma il fondo della sua opera è diverso. È un fondo, semmai, più mitopoietico che altro. E lo ha accennato lui stesso, in vari punti.
Intravede qualche vera novità nel desertico paesaggio della cultura europea?
Certo che di cose molto impressionanti, del tutto nuove, in questi ultimi anni non ne sono apparse molte. L'Italia in fondo è un paese in una posizione relativamente migliore, in questo senso, perché non aveva alcuni scrittori con una influenza grandiosa come i maîtres à penser francesi, alcuni dei quali oggi morti (Foucault, Barthes, Lacan). D'altra parte, invece, ha sempre avuto delle notevoli figure di scrittori, perlopiù abbastanza solitarie e incomunicanti, che sono sempre lì. Perciò l'Italia non mi pare nella posizione peggiore in questo momento. Quella che mi pare più triste è la situazione tedesca. È di sicuro la più appiattita, perché, dopo la morte di Adorno, francamente sono rimasti ingabbiati: da una parte, nel terrore verso tutto il mondo esterno e tutta la storia esterna e anche la storia interna a loro. Fanno tuttora fatica ad acquisire quella che è, per esempio, l'eredità romantica, perché si sentono anchilosati, hanno della paure politiche proprio rispetto a questo; e dall'altra, la Scuola di Francoforte non ha dato più nulla di utile. Non credo che Habermas abbia portato alcunché di nuovo rispetto a Adorno. D'altronde, mentre le cose succedono, c'è sempre qualcosa che sfugge al momento: perciò può darsi che, visti a distanza, poi anche questi anni si rivelino un po' diversi. A uno sguardo intorno, immediato, effettivamente non mi pare sia un momento di grande ricchezza.
A proposito di mode italiane, non si sente un po' responsabile di questa sfrenata divulgazione della cultura mitteleuropea?
Spero di sì e mi va benissimo. Noi abbiamo pubblicato certi scrittori, ovviamente non perché mitteleuropei, ma perché ci sembravano di grande rilevanza in sé. Dopodiché si è creato una specie di circuito obbligato tra queste figure che, d'altra parte, sono nate nello stesso contesto. Questo ha creato sicuramente anche una moda, nulla in contrario. Tutto parte dai libri. E di libri ancora di autori mitteleuropei molto importanti ce ne sono. Non è che non li pubblicheremo perché c'è stata una moda.
So che ha deciso di raccogliere in un volume, di uscita imminente, i risvolti editoriali Adelphi, scritti soprattutto da lei: perché?
È un modo di fare qualcosa di utile (speriamo) per i venticinque anni di Adelphi. Invece di fare una storia di se stessi, che è sempre un po' imbarazzante, abbiamo pensato che la cosa più semplice era di mettere in fila quei testi che hanno accompagnato i libri dall'inizio e che per noi sono stati il modo più diretto di comunicare quello che volevamo con i lettori. Credo che, leggendoli di seguito, vari disegni appaiano: non solo perché li ho scritti io per la maggior parte, ma perchè in sé, nel programma, c'era un disegno, o più disegni...
A quale genere letterario appartiene La rovina di Kasch?
Non saprei dire... In esso c'è una mescolanza irriducibile di invenzione romanzesca, di riflessione, di aforistica, trattatistica...
E allora, che rapporto fra Le nozze di Cadmo e Armonia e l'opera precedente?
L'attuale volume è nato come parte di un'opera che avevo pensato in più volumi, ma non so esattamente quanti saranno alla fine. Un'opera unica: di cui La rovina di Kasch è una parte e questo libro è un'altra parte. Però questa non è cosa che deve riguardare molto i lettori, ma piuttosto me, e credo che la forma apparirà più chiara col tempo. Infatti su Le nozze di Cadmo e Armonia non si dice affatto che è collegato all'altro, e di fatto deve essere letto come un tutto autosufficiente. Questo libro è nato da un primo disegno, che risale all'inizio degli anni Settanta, poi molto modificatosi e come distaccato da un insieme di cose che stavo scrivendo, che erano parte di quello che poi sarà un altro libro di quest'opera. Si è distaccato perché mi sono accorto che queste cose greche dovevano essere trattate in un certo modo, con un criterio formale opposto a quello de La rovina di Kasch, che è un libro fondato sull'ibridazione, dove si cambia continuamente di registro, di stile e di tempi anche cronologici. Così, all'interno della stessa pagina, uno oscilla tra i Veda, Maria Antonietta e la prima guerra mondiale. Questa è proprio l'essenza del libro. Mentre ne Le nozze di Cadmo e Armonia tutto è interno alla Grecia: i riferimenti esterni alla Grecia si contano sulle dita di una o forse due mani in tutto il libro, e sono come delle spezie che vengono aggiunte. La ragione fondamentale per cui sussistono è che queste spezie sono come una traccia del tempo passato. Impediscono cioè quell'eccessiva vicinanza che altrimenti ci sarebbe. Per il resto, lo stile segue delle regole completamente diverse da quella de La rovina di Kasch. Avrà visto, infatti, che non ci sono scarti di linguaggio e mantiene un tono assolutamente neutro dall'inizio alla fine. Poi, all'interno del libro, ci sono delle differenze, delle somiglianze che credo stia più al lettore di scoprire. Io sono un grande ammiratore della formula di Disraeli «never explain»; e penso che dovrebbe applicarsi soprattutto agli scrittori di non spiegare mai troppo. Però direi che ci sono delle rispondenze tematiche evidenti. Il centro de La rovina di Kasch: la nozione di sacrificio. Anche nelle Nozze, se uno va verso il cuore del libro, sempre più appare evidente che quella nozione è essenziale: però è come rovesciata su un altro versante e domina quello che appariva solo nella favola de «La rovina di Kasch», al centro del libro, cioè la nozione di ierogamia e viceversa. Perciò i nessi sono certamente moltissimi, non sono forse i più evidenti e direi che sta essenzialmente al lettore di scoprirli. Sono dei nessi che qualcuno potrà divertirsi a trovare.
Calasso, una cattiveria se permette: Le nozze di Cadmo e Armonia si può vedere come una forma ancora, diciamo così, di sorridente nichilismo?
Io diffido molto di questa parola. Lei ha visto come in questo libro il linguaggio filosofico tradizionale è perlopiù evitato. Si usano quelle poche decine di parole essenziali che si ritrovano già nelle origini greche, se uno estende quelle origini fino a Platone. La parola 'nichilismo' non è necessaria all'interno di tutto questo, perciò francamente si può allontanare. All'interno de La rovina di Kasch potrebbe essere una presenza più visibile: ma qui mi pare che sarebbe sviante.
Parliamo allora di quella sorta di 'ansia di connettere' che sembra dominare il catalogo Adelphi. Esiste una qualche affinità tra Le nozze di Cadmo e Armonia, «La morte della Pizia» di Dürrenmatt e Il bagno di Diana di Pierre Klossowski?
«La morte della Pizia» è un bellissimo racconto, ma direi che l'affinità è inesistente. Dürrenmatt: pur sempre il gesto dello smascheratore. Di solito un gesto che porta alla cattiva letteratura. Nel suo caso ha portato a un bellissimo racconto, ma è del tutto alieno dal gesto del mio libro, che è un gesto che prende i miti alla lettera: non pretende di sovrapporre ai miti un sapere ulteriore, una astuzia ulteriore che sveli che cosa sono. Per quel che riguarda Klossowski, invece, credo che ci sia una reale affinità. Nel senso che, a parte la bellezza del testo di Klossowski, tutta la sua opera in fondo gira intorno a un'ossesione per l'epifania, per il simulacro, per il fantasma, che sono costitutivi proprio del mito di cui qui si parla. Ma direi che la cosa si ferma a questo.
Nel suo libro sembra avere messo in scena un ininterrotto dramma della conoscenza: dove il problema non è più 'svelare' il mito, anzi... È un vero invito a nozze, se la battuta è permessa.
Tutto il mito è un dramma della conoscenza, dalla parte degli dèi e dalla parte degli uomini. L'esempio più evidente è quello dei Misteri di Eleusi, che non sono, almeno come spesso vengono raccontati, un tentativo umano di estorcere in qualche modo agli dèi quell'immortalità che gli dèi greci erano così restii a concedere. Non sono questo. Sono – guardi bene le storie che li circondano – innanzitutto una crisi all'interno dell'Olimpo. Sono un momento in cui l'Ordine dell'Olimpo sta per incrinarsi perché è scomparsa una fanciulla, Core, e se poi in qualche modo torna l'equilibrio (precario) è perché gli dèi hanno accettato la storia stessa di Core. Il che significa che gli dèi hanno accettato un contatto con la morte (cioè con Ade che li inorridisce ancor più degli uomini) che non c'era prima. Questa è la novità. Perciò i Misteri corrispondono a una specie di nuovo gradino della conoscenza da parte degli dèi, prima che da parte degli uomini: paradossalmente. Gli uomini, in un certo modo, seguono. Ma, quando Demetra minaccia di non far crescere più nulla, non minaccia soltanto gli uomini, che non avrebbero cibo: minaccia l'Ordine degli dèi, perché a un certo punto i dodici avrebbero un vuoto, lei non tornerebbe più su... E questa è un'impresa della conoscenza che avviene attraverso fatti, avviene attraverso storie che s'intrecciano (un rapimento, una promessa, un accordo, un ritorno). È anzi l'evento quasi primordiale della conoscenza in Grecia, questo dei Misteri: proprio il punto di riferimento. Tant'è che in Platone, e in altri autori, molto spesso l'immagine della conoscenza viene data attraverso il linguaggio dei Misteri. Però sono accadimenti innanzitutto divini. Questa è la cosa che spesso viene dimenticata. E in questi accadimenti gli dèi hanno bisogno dell'aiuto umano, così come Demetra che vaga viene accolta, a un certo punto, come una qualsiasi vagabonda a Eleusi; così come un ignoto indica a Dioniso la via dell'Ade. Gli dèi stessi, nei rapporti con l'Ade, si trovano in forte difficoltà, perché lo hanno escluso. E allora si crea questo compromesso con la morte, che è il compromesso con l'assenza, con ciò che non appare. È tutto metafisico, francamente. Le interpretazioni moderne di queste storie sono spesso molto ingenue, perché sono delle storie che devono essere semplicemente lasciate vivere nei loro elementi: e sono già talmente palesi, talmente ricche di significati per conto loro...
Come erano visti esattamente gli dèi da parte dei greci? È un problema su cui si è scritto e discusso moltissimo, il suo libro non arriva per primo...
È molto difficile per noi tornare a capire che cosa significava per il greco dire theòs, che è una presenza indeterminata prima ancora di essere un nome. Il modo più normale di banalizzare tutto questo è quello di intendere in modo sbagliato l'antropomorfismo greco, cioè di considerare questi dèi come degli umani esaltati a un di più di potenza, di bellezza ecc. Credo sia assolutamente una via sbagliata, ed è quella che è stata percorsa da tanti nell'Occidente. In realtà, quella invenzione folgorante che è stata l'accettazione di una figura riconoscibile, una figura umana, da parte degli dèi è un'altra scommessa che non li avvicina di più alla terra. È proprio l'errore tipico occidentale quello di pensare che il dio greco sia più vicino, più accessibile. No, anzi, forse la cosa più peculiare della Grecia arcaica è proprio la spaventosa nettezza, quasi ferocia, con cui viene segnata la distanza tra la terra e il divino. E questo diventa tanto più feroce, tanto più netto in quanto gli esseri divini con cui gli uomini hanno a che fare si presentano in figura umana. Cioè è questo il paradosso grandioso della Grecia: altrimenti sarebbe una versione laica della religione, per cui gli dèi sarebbero feuerbachianamente una proiezione umana. Non lo sono affatto, anzi nelle storie greche ogni volta gli uomini sono come feriti e talvolta uccisi e comunque lesi quando toccano questo limite e questa distanza invalicabile. Non c'è una sola traccia, in nessun testo greco, di un reale, maggiore avvicinamento degli dèi agli uomini in quanto si presentano come figura umana. Il fatto di essere figure umane è un paradosso che esalta la distanza, più che attenuarla. È questo che è un po' l'azzardo greco. D'altra parte è un immenso azzardo già il solo fatto di essersi presentati, da parte di questi dèi, con figure così nette, così riconoscibili.
(Milano 1988)
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