Nakata mostra ai gatti Kawamura e Mimì una foto di Goma. Illustrazione di Lisa Ito. |
Quando scrivo su Haruki Murakami mi rendo conto dello scarso contributo degli studiosi della cultura giapponese su internet. Non so se questo valga anche con le riviste. Ne ho collezionate tante nella vita, ma non essendo come i libri fatti bene, le ho regalate alle biblioteche o buttate nel cassonetto della spazzatura. Una volta facevano pamphlet più o meno clandestini che circolavano a iosa per esprimere le proprie idee. Poi venne la stampa liberale. Ora c’è internet, i blog, i social network, e fuori da questo ambito ogni intervento è marginale. L’affidabilità dei notiziari, e anche la loro rapidità informativa, vien meno.
La critica che oggi non circoli su internet ha la pretesa di diventare un classico, di accedere alla Biblioteca di Alessandria d’Egitto, che, secondo quest’ottica, dovrebbe amorevolmente darle una carezzina sul capo o sulla costa e catalogarla nella sua cuccetta dorata. Intanto a Palo Alto conservano tutto quel che si scrive su internet, questa mia esternazione inclusa, e la mandano in digitale alla Library of Congress di Washington.
Qualche mese fa mi sono occupato, senza aver conoscenze del giapponese, della parola ‘goma’ in Murakami, fondamentale in un suo romanzo, ma su cui nessuno, quantomeno in italiano e in inglese, ha scritto nulla. Nel senso che voleva dire semplicemente ‘sesamo’ e che salvare una gattina di nome Sesamo, ed accarezzare una pietra come una gattina (ma anche come la lampada di Aladino) bisbigliandole una parola magica, era un modo per aprire una porta d’accesso che salvasse il protagonista. Ora, i traduttori di Kafka sulla spiaggia in inglese e in italiano il nome della gattina non l’hanno tradotto ed è rimasto Goma anziché, rispettivamente, Sesame e Sesamo.
Certo, si capisce che ai traduttori il nome Goma per una gattina può suonar bene, magari è frequente pei gatti nipponici, i traduttori hanno una gran fretta, l’editore vuole la traduzione, e, col fiato sul collo, loro non hanno capito il riferimento dell’autore ad Alì Babà, e alla fin fine devono consegnare il lavoro e buona notte al secchio piuttosto che alla lampada. E si capisce pure che quei traduttori non intervengano a rettificare il loro errore, dovendo scaricar poi le colpe sulla fretta che gli ha imposto l’editore. L’affidabilità loro, per questi e altri motivi, è dubbia.
Però poi ritoccherà fare la traduzione sulla base di quel che scriviamo e diciamo io e altri analizzando il romanzo, perché l’ingenuità, in questo e in altri ambiti, ha le gambe più o meno corte. Uno dei pochi interventi interessanti sul romanzo di Murakami che abbia letto è di John Updike; per il resto si tratta solo di interviste preziose a Murakami stesso, o di qualche suo saggio esplicativo. Insomma, la comunità critica – abituata qual è ad usare le mani in luogo delle nuove forchette come i romani antichi nell’imbandita tavola – continua a scrivere su riviste storicamente importanti, ma che oggi non hanno alcuna importanza se non per far carriera, ossia far punti per metterli nel curriculum o per presentarli, come avviene da noi, in un concorso pubblico.
Chiunque abbia una minima contezza dell’approccio scientifico sa bene che sulle riviste si scrivono, non meno che su internet, un sacco di sciocchezze, tanto per muovere il fondo delle acque, con la speranza, e più spesso l’illusione, che ne esca fuori qualche pepita insieme al torbido della melma. Il che non è inutile, è il metodo scientifico, in cui uno cita le fonti e presenta le proprie argomentazioni che sostengono quasi sempre tali sciocchezze, e qualche volta un grano di sapidità. Come è stato denunciato nel recente passato, le riviste accademiche sono diventate un business, così come i volumoni onnisapienziali e iperaggiornatissimi della Routledge, ognuno dei quali, appena è messo in vendita, costa più di settanta chili di banane Chiquita, benché i molti usi di cui si possono fare del primo siano ampiamente controbilanciati dagli usi molteplici che si posson far delle seconde.
Beh, solo questo. Per dire che gli interventi su internet attualmente mi servono poco o niente, e quelli sulla cartastraccia delle riviste ancor meno. Per cui fatico di più nel dover fare tutto da solo, senza il minimo contributo di studiosi seri che mettano in rete il risultato delle loro ricerche, forse perché di risultati per me interessanti non ne hanno, o forse perché coltivano la sola speranza di avere qualche titoletto proprio in catalogo, che vale, alla lunga, poco più di niente. Di certo non aiutano molto né la critica, né la letteratura, né la ricerca.
Nicola d'Ugo
Nessun commento:
Posta un commento