Fiorangela Oneroso è ordinario di Psicologia Generale nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Salerno. Si è da sempre occupata di questioni teoriche ed epistemologiche riguardanti il rapporto tra il campo delle scienze e quello della creatività artistica. Nell'ambito specifico delle teorie psicoanalitiche ha studiato in particolare il pensiero di Ignacio Matte Blanco, teorico della bi-logica, per gli aspetti che riguardano la riflessione sui nessi tra pensiero razionale e pensiero emozionale, e sulle relative forme di conoscenza. Per ciò che attiene l'influenza delle emozioni nei processi conoscitivi ha esplorato problematiche inerenti al campo dell'arte e della letteratura alla luce delle diverse estetiche e delle diverse poetiche. Fra i suoi lavori più recenti: i due volumi curati con Anna Gorrese nel 2004 Mente e pensiero. Incontri con l'opera di W. R. Bion (premio Gradiva) e Le emozioni fra cognitivismo e psicoanalisi; «Emozioni e reversibilità: l'origine e la coscienza del tempo» (2007); Nei giardini della letteratura (2009); «Il tempo, la coscienza, l'estasi» (2010).
Pretesto del mio incontro con la studiosa (che vive a Roma), la pubblicazione recente (presso Anterem Edizioni) della sua seconda raccolta poetica, intitolata Intus.
Doriano Fasoli: Come considera la sua poesia nell’ambito della poesia contemporanea?
Fiorangela Oneroso: La poesia contemporanea contempla un’ampia varietà di forme e di ritmi, e al suo interno convivono orientamenti diversi. Si va da una poesia che si manifesta in un certo senso come narratività colloquiale, quasi prosa, che utilizza parole dell’uso quotidiano, a una poesia ancora fortemente lirica e fondata sull’«io» in rapporto dialettico con il «tu», con il «voi» e con il «noi», con «le cose», con «il mondo», in cui quel che importa è il sentire soggettivo, l’introspezione, la percezione e, in ultima analisi, il significato. Ma vi è anche una poesia centrata essenzialmente sulla parola, sul ritmo, sul tono, una poesia che nel suo impianto formale, pur a diversi livelli, può sia tener conto del contenuto, sia ignorarlo del tutto.
Pretesto del mio incontro con la studiosa (che vive a Roma), la pubblicazione recente (presso Anterem Edizioni) della sua seconda raccolta poetica, intitolata Intus.
Doriano Fasoli: Come considera la sua poesia nell’ambito della poesia contemporanea?
Fiorangela Oneroso: La poesia contemporanea contempla un’ampia varietà di forme e di ritmi, e al suo interno convivono orientamenti diversi. Si va da una poesia che si manifesta in un certo senso come narratività colloquiale, quasi prosa, che utilizza parole dell’uso quotidiano, a una poesia ancora fortemente lirica e fondata sull’«io» in rapporto dialettico con il «tu», con il «voi» e con il «noi», con «le cose», con «il mondo», in cui quel che importa è il sentire soggettivo, l’introspezione, la percezione e, in ultima analisi, il significato. Ma vi è anche una poesia centrata essenzialmente sulla parola, sul ritmo, sul tono, una poesia che nel suo impianto formale, pur a diversi livelli, può sia tener conto del contenuto, sia ignorarlo del tutto.
Quando prevale il contenuto, la poesia può anche fortemente connotarsi di un sentire soggettivo o di un impegno civile, sociale e politico. Quando invece prevalgono il segno, la parola, il ritmo, allora è possibile che il contenuto sia tanto un elemento rilevante quanto marginale, e in questo caso ciò che conta nella configurazione del testo è il puro significante, come è accaduto per alcune declinazioni dello sperimentalismo d’avanguardia intorno agli anni Sessanta. Del resto, lo ha sostenuto con convinzione Luciano Anceschi: anche le condizioni di cultura e di tradizione possono contribuire alle scelte espressive.
Ad ogni modo la parola è sempre il comune denominatore di ogni forma di poesia, il «quanto» e il «quale» di un modo peculiare di pensare e di dire: di un dire altrimenti, mediante una strumentazione semantica adoperata in modo intuitivo, effusivo, allusivo, evocativo.
E dunque come può essere considerata questa sua raccolta, Intus, in assoluto, ma anche rispetto alla precedente, dal titolo Inoltre?
Rispetto al precedente Inoltre, Intus è più strutturato nel suo impianto. È diviso in sei sezioni («Caelestia», «Aeria», «Terrestria», «Humana», «Corporalia», «Heliconia»), via via sempre più tese ad esplorare il cuore delle cose. Dal cosmo al corpo (e all’infinitesimale invisibile della materia), fino alla poesia stessa, pensata metapoeticamente, come nella sezione «Heliconia». Intus è però soprattutto un andare «dentro» la parola, che è il materiale plasmabile e infinito con cui in poesia si lavora sul piano della téchne, per lasciare libera di esprimersi, in tutte le sue articolazioni, la molteplicità del sentire e del pensare. Intus è frutto di una scelta meditata: quella di favorire un pensiero poetico nel quale non vi sia alcun soggetto specifico di cui qualcosa possa predicarsi, né un «tu» a cui rivolgersi. Nessuna introflessione, nessuna introspezione.
In questa raccolta, mi propongo di esprimere un pensiero che pensa se stesso mentre nasce poeticamente. È una poesia senza paesaggio, senza profili umani definiti e senza emozioni descritte. Non si parla di uno specifico spazio, tempo, oggetto, ma vi è un’intenzionale ricerca de in biologia, da rivoluzionarie scoperte che hanno cambiato il modo di intendere l’essere umano iscrittui è da me intesa, possa dirigersi verso un qualcosa di determinato, che ciascuno può eventualmente cogliere nel suo proprio stesso pensare.
Per questo in Intus si punta molto sulla parola evocativa e categoriale che si impegna a non nominare un oggetto specifico dell’osservazione percettiva, ma a ricondurre il pensiero all’invisibile, all’inesprimibile e all’indicibile. In Intus, la parola poetica è essa stessa un oggetto fonetico adoperato ritmicamente e prosodicamente, senza che tuttavia ne venga tralasciato il senso. Intus intende rendere nuovamente ambiguo ciò che si ritiene sia stato reso inequivoco dal pensiero logico formale, ossia restituire a ciò che è razionalmente conosciuto quell’aura poetica del pensiero pre-logico delle origini, attraverso l’utilizzo di parole ad alta densità simbolica.
In Intus compaiono spesso richiami all’arcaico, al primordiale, e anche evocazioni del mondo mitico, ma sempre in modo implicito: nessun personaggio del mito viene mai nominato. Allo stesso tempo, però, si fa riferimento anche a concetti, temi e parole propri del mondo delle scienze, in particolare della fisica e dell’astronomia.
Il secolo scorso è stato caratterizzato, sul piano delle scienze, in fisica come in biologia, da rivoluzionarie scoperte che hanno cambiato il modo di intendere l’essere umano iscritto nella totalità del cosmo. Ma che hanno cambiato, arricchendole come non mai, anche le sfere dell’immaginazione e del linguaggio. Tuttavia il mito, che l’uomo scientifico moderno ha l’obbligo di superare, non può mai essere rimosso dal piano dell’immaginazione. La realtà e l’immaginazione rimangono infatti due sfere distinte, ma la loro compresenza – in proporzioni diverse e prevalendo ora l’una ora l’altra – lascia comunque intatta la differenza tra il modo di pensare poetico e il modo di pensare scientifico.
Ciò che qualifica il pensiero moderno riguardo al mito, come tra i primi ha evidenziato Giambattista Vico, è la revisione-riformulazione del concetto di verità. Con l’avvento del pensiero scientifico l’uomo non può più credere al mito come ad una verità storica. E neppure alla verità scientifica come ad una verità incontrovertibile. E tuttavia il mito, o meglio la dimensione mitica del pensiero anche nelle sue declinazioni contemporanee, è sempre presente nelle forme del pensiero stesso, perché rappresenta il modo in cui si è configurato il pensiero delle origini, il pensiero antecedente al logos (e dunque antecedente alla parola), che è lo stato di cui gode la creatività artistica.
Per questo il pensiero immaginativo libero e immediato, – mi riferisco ad esempio al pensiero infantile, – al pari del pensiero mitico, è sempre presente e agisce anche nelle motivazioni più puramente e altamente scientifiche, poiché è un pensiero già pensato in una certa fase dello sviluppo psichico e conservato legittimamente nella sfera dell’immaginazione a cui tutto è permqueste ultime sono meno differenziate di quanto nLa poesia, una poesia che sia letteraria, autoriflessiva,style="text-align: justify;">
La scienza deve soppiantare il mito, ma il mito è all’origine della scienza. La scienza nasce dallo stesso bisogno-tentativo che il mito aveva alimentato negli antichi: quello cioè di poter fornire una spiegazione all’incomprensibile, all’inspiegabile, all’ingovernabile. La scienza aiuta a collocare il mito al suo giusto posto nell’ambito del pensiero, recuperandolo come finzione (nel senso di Borges), cioè come racconto. E tuttavia la scienza, non a caso, nei suoi presupposti istitutivi, non può fare a meno dell’immaginazione. Anzi, si fonda su di essa, pur imponendosi poi un procedimento rigoroso fondato sul metodo. Penso, ad esempio, alle dichiarazioni di Albert Einstein (nella sua Autobiografia scientifica) riguardo ai processi immaginativi che precedettero la formulazione in termini matematici della teoria della relatività.
La scienza stessa, dunque, con le sue scoperte, accresce il campo dell’immaginazione. L’immaginazione, a sua volta, è riconosciuta per statuto come il principale criterio generativo della poesia. Proprio per la comune importanza che il pensiero immaginativo riveste tanto per la poesia quanto per la scienza, queste ultime sono meno differenziate di quanto si potrebbe comunemente pensare. Sono invece certamente lontane tra loro, riguardo alla qualità delle conoscenze e alle procedure impiegate per raggiungerle.
Come potrebbe la poesia – che esplora ogni aspetto dell’esperienza umana, sia pure in modo del tutto particolare, cioè con licenza di violare le regole del pensiero logico – fare a meno di inglobare nel suo mondo espressivo le scoperte della scienza, e quindi dare corpo e parola anche a quell’immaginazione ulteriore che tali scoperte attivano?
In Empedocle, in Lucrezio, in Dante, fin dalle età più antiche, questo sapere dimostrativo-esplicativo è stato materia di espressione poetica, ed anche il modo in cui si sono declinati il sapere e la conoscenza, pur con leempo sospeso, è il tempo che la poesia dà a se stessa. La poesia è il condensato, è l’intensivo, di ciò che la scienza si assume come compito proprio, che è appunto quello di spiegare, di dimostrare. Il poetico fa del tempo esteso dell’argomentazione filosofica, della narrazione e della spiegazione scientifica un tutto simultavedersela anche con entità a dir poco indescrivibili.
La poesia, una poesia che sia letteraria, autoriflessiva, consapevole dei suoi mezzi espressivi, una poesia che spazi nei diversi saperi, oltre che nel mondo interno, e che adoperi tutte le risorse e le funzioni del pensiero a sua disposizione, non può non prendere atto, concettualmente e immaginativamente, delle nuove entità rivelate dalle grandi scoperte e, quindi, non può ignorare il rapporto tra mito e scienza, tra credenza e conoscenza scientifica.
Dunque la poesia è anche conoscenza?
L’uomo esprime da sempre una forte volontà di conoscere la natura dei fenomeni, è spinto da un intenso desiderio di comprensione e di chiarezzante.
In questo senso la poesia va nella direzione contraria a quella del sapere codificato come tale, fondato sui procedimenti del metodo…
Da un lato, infatti, la scienza non può parlare di tutto, dovendo giustificare il suo dire nello specifico condiviso, limitato e specialistico del suo campo di conoscenze. Dall’altro, la poesia va invece in cerca di quel «prima» che, al momento del suo verificarsi, non avrebbe potuto essere detto: perché non c’era ancora la parolaargomentazione filosofica, della narrazione e della spiegazione scientifica un tutto simultanemostrare niente, non vuole convincere, nordiale adere. Non vuole «valere», né in termini economici, né in termini di trasponibilità fattuale. Semmai, vuole essere efficace, intendendo sollecitare, originaria dell’«Uno», ritorna all’ante rem, avvalendosi di modi contrapposti e contraddittori, ma coesistenti e complementari: cioè riattivando l’intuizione (il sentire pre-logico) e, allo stesso tempo, adoperando l’intelletto (il pensare logico). E non potrebbe essere altrimenti, perché la poesia, pur nel suo essere un pensare e un dire liberi dai legami della coscienza distintiva, è comunque un «fare» intenzionale e cosciente.
In questo senso la poesia va nella direzione contraria a quella del sapere codificato come tale, fondato sui procedimenti del metodo…
Da un lato, infatti, la scienza non può parlare di tutto, dovendo giustificare il suo dire nello specifico condiviso, limitato e specialistico del suo campo di conoscenze. Dall’altro, la poesia va invece in cerca di quel «prima» che, al momento del suo verificarsi, non avrebbe potuto essere detto: perché non c’era ancora la parola, ma c’era solo il suono, solo il sentire che, per assurdo, esprimono il tutto. Perciò il pensiero della poesia può dire tutto, può parlare di tutto: perché ne parla in modo indifferenziato, irrelato, e perciò illimitato.
La poesia non vuole dimostrare niente, non vuole convincere, né persuadere. Non vuole «valere», né in termini economici, né in termini di trasponibilità fattuale. Semmai, vuole essere efficace, intendendo sollecitare, risvegliare, orientare verso un sentire più incontaminato, più puro, denso e profondo; e in ultima analisi esprimere quella verità incontrovertibile – che di per sé è una non-verità – dell’indeterminato che è in ciascun uomo.
Qual è il rapporto tra poesia e verità?
La verità della poesia è una verità non argomentabile, non distintiva, non verificabile, non confutabile. La poesia, in ragione della sua licenza di paradossalità, ha da sempre dichiarato il carattere peculiare della sua verità, che è, al contempo, come ogni verità, un essere e un non essere verità. Uno dei compiti della poesia contemporanea è, infatti, dare conto del suo stesso procedere, della natura del suo pensare, del nesso tra pensiero poetico e parola, del suo rapporto con il tempo, come hanno evidenziato quei poeti che si sono dedicati anche al discorso teorico sulla poesia, quali Baudelaire, Poe, Mallarmé, Valéry, Celan, e, per citare esempi più recenti, Bonnefoy e Zanzotto.
Ogni tentativo di ridire la parola, di far risuonare il fonema pre-articolato all’origine del linguaggio, la parola prima della parola, cioè ogni tentativo di ritornare all’ante rem (come da circa un trentennio sostengono gli autori della rivista di ricerca poetica Anterem e il suo fondatore direttore Flavio Ermini), è sempre un tentativo che il poeta porta avanti all’insegna del suo sapere critico filosoficamente argomentato. Si tratta dunque di un andare a ritroso, che, necessariamente, non può non passare attraverso il filtro del sapere acquisito, con cui il poeta rivisita il passato e lo rende diverso da come era stato sentito all’origine, lo distilla e lo riconduce alla sostanza.
Per compiere questo percorso di costante e ininterrotto andirivieni, tra le origini e la contemporaneità, che cosa occorre dunque?
Occorre una parola non usuale, particolare, che partecipi allo stesso tempo dell’immaginario e del reale, che non «denoti» ma che «connoti», all’interno di un verso che, per dirla con Stefano Agosti, sia il più diverso possibile da un enunciato. La poesia coglie e recupera frammenti di un passato arcaico, recupera cioè tutto quanto attiene alla totalità indistinta, che nei procedimenti dell’argomentazione filosofica o della dimostrazione scientifica si è inevitabilmente perduto.
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