Quindici poesie di Maurizio Minniti seguite da altrettanti commenti di Cinzia Baldazzi: questa la formula del libro che affianca i versi di un poeta alle annotazioni storico-filosofiche di un critico. Il volume, pubblicato dall’editore fiorentino Pagnini nel dicembre 2011, è intitolato Passi nel tempo. Ne parliamo con Cinzia Baldazzi, autrice dei commenti. Laureata in Lettere Moderne, ha pubblicato saggi e articoli di carattere letterario. È stata per molti anni collaboratrice fissa di quotidiani e periodici per rubriche di critica teatrale e cinematografica. Collabora da oltre vent’anni con la Rai nei programmi di intrattenimento. Vive e lavora a Roma.
Doriano Fasoli: Quali sono le tue predilezioni in campo poetico?
Cinzia Baldazzi: Mi incantano, ogni volta che li leggo, i Sonetti di Foscolo, ma i miei best sono i Canti di Leopardi, il Libro dei poemi di García Lorca, Foglie d’erba di Whitman. Del Novecento italiano, oltre alla raccolta L’allegria di Ungaretti – magnetica e autoritaria – mi piace leggere di tanto in tanto Montale, Penna, Pavese. Da ragazza coltivavo anche la mitologia della «poesia pura» degli ermetici cosiddetti 'moderni', come Solmi, De Libero, Sinisgalli.
Come è nata l’idea del libro?
Ho conosciuto Maurizio tre anni fa, grazie alla poesia «A mio padre». In quel periodo stava lavorando ai romanzi L’altra metà del cielo e Qui dove soffia il vento, poi pubblicati con l’editore Pagnini. Meno di un anno fa, mi manda un plico con una quarantina di poesie, chiedendomi di sceglierne quindici e di commentarle. Ho lavorato a una prima stesura l’estate scorsa, poi c’è stata la riscrittura in autunno.
È innegabile come lo sviluppo generalizzato di Internet abbia offerto un nuovo campo, sterminato, virtualmente infinito, a chi vuole far conoscere la propria produzione poetica. Come giudichi il fenomeno?
Nella gran parte dei casi, le migliaia di poesie 'postate' sui siti specializzati o pubblicate sui social network, anche sotto forma di e-book, non hanno reale valore letterario, né suscitano interesse critico. Molte di esse sembrano stare lì solo per soddisfare il desiderio dell’autore di essere letto da altri poeti 'dilettanti'. Altre esprimono sentimenti, dolori, ambizioni, pensieri, rovesciando nella rete tutto ciò che non potrebbe esprimersi in altre situazioni: sarebbe ottimo come materiale per una seduta di analisi, se non fosse che l’autore attribuisce valore di 'poesia' alla semplice esternazione di uno stato d’animo.
A un pubblico vastissimo corrisponde quindi una mole imponente di poesie in rete, di qualità però scadente. È così?
Non sempre, per fortuna. Ogni tanto, qua e là, trovi i versi che ti inchiodano alla sedia, scopri il momento felicissimo di una strofa, ammiri una scelta lessicale inconsueta, apprezzi il risultato convincente di uno sforzo metrico. Bisogna leggere e navigare molto per avere poco: il tasso di scarto dei 'poeti di Facebook' è altissimo.
Leggendo le tue 'recensioni' – chiamiamole così – alle poesie di Minniti, è possibile ricavare una tua idea di poesia?
Mi pare risulti abbastanza chiara un’idea centrale, che condivido con Maurizio Minniti: assegnare al linguaggio poetico la funzione di aiutare ad accogliere il mondo, a chiarirlo prima di rifiutarlo, a viverci. Se non fosse troppo, a rifondarlo.
Nel libro, in più di un’occasione, il discorso critico sembra avvicinarsi sensibilmente all’approccio psicanalitico, senza però mai accoglierlo del tutto.
Ho sempre considerato la psicanalisi come la scienza dell’uomo in senso esemplare: dal momento che la poesia rappresenta senz’altro una voce privilegiata della coscienza, ritengo i due percorsi non paralleli ma incrociati. Se nell’atto concreto della lettura critica esito a esplicitare la presenza – e non l’ombra – dell’inconscio collettivo e dei suoi archetipi, forse accade perché temo di elaborare osservazioni scontate, già provate in campo da molto tempo. È un atteggiamento non del tutto sereno, mi rendo conto: forse dovrei affrontarlo proprio con l’aiuto della psicanalisi…
Per quanto riguarda invece l’analisi del testo, quali sono, nel libro, i modelli di riferimento?
Walter Benjamin nell’eccezionale intelligenza critica, ancor oggi insuperata; Luciano Anceschi per la lezione morale nel valutare poesia e poetiche; Giacomo Debenedetti per l’umanità universale; Walter Binni per l’impianto di indagine metodologia; e certamente molti altri, piccoli o grandi, che ho 'digerito' al punto di averne smarrito la precisa identità.
Analizzare in dettaglio e in profondità una singola poesia non è una prassi così frequente in campo critico…
È vero: si preferiscono introduzioni generali, presentazioni onnicomprensive, prefazioni troppo spesso generiche. Qui, in Passi nel tempo, si tratta di letture testuali, puntuali. Ho voluto descrivere, analizzare, spiegare; non giudicare o valutare.
Sembra di assistere al recupero di un micro-genere letterario caduto in disuso, o forse mai praticato, almeno in Italia…
Il commento puntuale, dedicato a ciascuna poesia, è un esercizio critico di cui in effetti ho difficoltà a trovare esempi. Dobbiamo risalire a operazioni illustri, come le meravigliose note di Walter Benjamin alle poesie brechtiane, o spostarci nel campo dell’editoria scolastica di alto livello (e di altri tempi), come le chiose dantesche di Natalino Sapegno o le guide di Mario Fubini ai singoli canti leopardiani.
Ogni singolo pezzo ha un nume tutelare: un filosofo, un pensatore, un letterato. E un concetto-guida: la «cura» di Heidegger, l’«aura» di Benjamin, il «segno» di Pirandello, lo «straniamento» di Šklovskij e Jakobson, l’uomo-società di Dewey…
Ho fatto ricorso alla storia del pensiero e del suo sviluppo filosofico, soprattutto così come, almeno dal mio punto di vista, li ha ospitati il Novecento. Forse potrà apparire quantomeno curioso scrivere di un poeta 'sconosciuto' chiedendo aiuto a Benjamin, Wittgenstein, Heidegger, Dewey, a ritroso fino a Kant, e ricorrendo a Brecht, Šklovskij, Jakobson, Della Volpe, Eco, Chomsky. Io e Minniti siamo accomunati dalla cosiddetta 'mezza età': nel libro c’è, tutta intera, la nostra 'biografia culturale'.
Cosa hai trovato nelle poesie di Minniti, tale da suscitare il ricorso a filosofi e pensatori come leve, come grimaldelli per spiegare e interpretare i versi?
Senza scomodare il concetto di logos, che informa di sé sia la filosofia che la poesia, direi che la risposta è nei versi stessi di Minniti: molto spesso l’autore si ferma a riflettere, le sue parole sono testimonianza di un vedersi vivere, ieri come oggi. Sembra quasi uscire da se stesso, per considerare non tanto il ricordo in sé, quanto le modalità in cui il ricordo stesso gli si presenta. Ricordare assieme al poeta alcune tracce fondamentali dell’indagine filosofica – e servirsi di esse – è sembrata la soluzione migliore.
Devo chiederti, a questo punto, le tue preferenze in campo filosofico, anche se ormai possiamo immaginarle…
Quando si apprezzano i risultati dell’indagine filosofica, si accolgono in genere nella loro pienezza e unità di differenze: anche se, personalmente, pur spaziando affascinata dalla Scuola eleatica a Heidegger, adoro senz’altro Hume, Kant, Wittgenstein e, perché no, sulla strada del mitico Circolo di Vienna, Popper e la filosofia della scienza.
Hai parlato di «biografia culturale». La tua, in particolare?
Ha le radici nel periodo universitario alla Sapienza di Roma, nel quadriennio 1974-1978 trascorso alla Facoltà di Lettere: anni tormentatissimi dal punto di vista organizzativo, politico, di gestione della vita quotidiana, ma vitali di esperienze. Un periodo in cui gli esami erano rinviati, le lezioni saltavano, la facoltà si occupava, il nozionismo era bandito, il disordine regnava: ma potevo seguire e ascoltare De Mauro, Garroni, Binni, Macchia, Salinari, Lombardo, Muscetta, Roncaglia, Costanzo, Carpitella, Cirese, e il carissimo Adriano Magli, con il quale mi sono laureata (all’epoca era vice-direttore centrale della Radiofonia alla RAI).
Nella quarta pagina di copertina si parla di «cattivi maestri». A chi ti riferisci?
Chi ha vissuto da studente gli anni Settanta all’Università di Roma sa di cosa parlo. Personaggi carismatici, ma troppo spesso offuscati dall’ideologia, ai quali non riesco a perdonare l’eccesso di schematismo, le promesse «culturali» non mantenute, una sorta di lobbismo che li manteneva tutti nel «cerchio magico» attraverso un sapiente uso delle citazioni reciproche. Forse i «cattivi maestri» meriterebbero di essere lasciati alle spalle, ma non ho voluto farlo. Nel libro ci sono anche loro: fino ad ora, per me e per altri, non sono stati deposti per essere sostituiti.
È un quadro pessimista…
Realista, direi. L’augurio è che in questo libro si possa rintracciare qualcosa non dico di nuovo, bensì di verosimile. E non mi riferisco certamente al verosimile filmico di Galvano Della Volpe o a quello letterario di Carlo Muscetta: ma anche in questo caso, come unico riferimento, anche se parziale, di credibilità artistica, preferisco questi ad altri successivi.
Doriano Fasoli: Quali sono le tue predilezioni in campo poetico?
Cinzia Baldazzi: Mi incantano, ogni volta che li leggo, i Sonetti di Foscolo, ma i miei best sono i Canti di Leopardi, il Libro dei poemi di García Lorca, Foglie d’erba di Whitman. Del Novecento italiano, oltre alla raccolta L’allegria di Ungaretti – magnetica e autoritaria – mi piace leggere di tanto in tanto Montale, Penna, Pavese. Da ragazza coltivavo anche la mitologia della «poesia pura» degli ermetici cosiddetti 'moderni', come Solmi, De Libero, Sinisgalli.
Come è nata l’idea del libro?
Ho conosciuto Maurizio tre anni fa, grazie alla poesia «A mio padre». In quel periodo stava lavorando ai romanzi L’altra metà del cielo e Qui dove soffia il vento, poi pubblicati con l’editore Pagnini. Meno di un anno fa, mi manda un plico con una quarantina di poesie, chiedendomi di sceglierne quindici e di commentarle. Ho lavorato a una prima stesura l’estate scorsa, poi c’è stata la riscrittura in autunno.
È innegabile come lo sviluppo generalizzato di Internet abbia offerto un nuovo campo, sterminato, virtualmente infinito, a chi vuole far conoscere la propria produzione poetica. Come giudichi il fenomeno?
Nella gran parte dei casi, le migliaia di poesie 'postate' sui siti specializzati o pubblicate sui social network, anche sotto forma di e-book, non hanno reale valore letterario, né suscitano interesse critico. Molte di esse sembrano stare lì solo per soddisfare il desiderio dell’autore di essere letto da altri poeti 'dilettanti'. Altre esprimono sentimenti, dolori, ambizioni, pensieri, rovesciando nella rete tutto ciò che non potrebbe esprimersi in altre situazioni: sarebbe ottimo come materiale per una seduta di analisi, se non fosse che l’autore attribuisce valore di 'poesia' alla semplice esternazione di uno stato d’animo.
A un pubblico vastissimo corrisponde quindi una mole imponente di poesie in rete, di qualità però scadente. È così?
Non sempre, per fortuna. Ogni tanto, qua e là, trovi i versi che ti inchiodano alla sedia, scopri il momento felicissimo di una strofa, ammiri una scelta lessicale inconsueta, apprezzi il risultato convincente di uno sforzo metrico. Bisogna leggere e navigare molto per avere poco: il tasso di scarto dei 'poeti di Facebook' è altissimo.
Leggendo le tue 'recensioni' – chiamiamole così – alle poesie di Minniti, è possibile ricavare una tua idea di poesia?
Mi pare risulti abbastanza chiara un’idea centrale, che condivido con Maurizio Minniti: assegnare al linguaggio poetico la funzione di aiutare ad accogliere il mondo, a chiarirlo prima di rifiutarlo, a viverci. Se non fosse troppo, a rifondarlo.
Nel libro, in più di un’occasione, il discorso critico sembra avvicinarsi sensibilmente all’approccio psicanalitico, senza però mai accoglierlo del tutto.
Ho sempre considerato la psicanalisi come la scienza dell’uomo in senso esemplare: dal momento che la poesia rappresenta senz’altro una voce privilegiata della coscienza, ritengo i due percorsi non paralleli ma incrociati. Se nell’atto concreto della lettura critica esito a esplicitare la presenza – e non l’ombra – dell’inconscio collettivo e dei suoi archetipi, forse accade perché temo di elaborare osservazioni scontate, già provate in campo da molto tempo. È un atteggiamento non del tutto sereno, mi rendo conto: forse dovrei affrontarlo proprio con l’aiuto della psicanalisi…
Per quanto riguarda invece l’analisi del testo, quali sono, nel libro, i modelli di riferimento?
Walter Benjamin nell’eccezionale intelligenza critica, ancor oggi insuperata; Luciano Anceschi per la lezione morale nel valutare poesia e poetiche; Giacomo Debenedetti per l’umanità universale; Walter Binni per l’impianto di indagine metodologia; e certamente molti altri, piccoli o grandi, che ho 'digerito' al punto di averne smarrito la precisa identità.
Analizzare in dettaglio e in profondità una singola poesia non è una prassi così frequente in campo critico…
È vero: si preferiscono introduzioni generali, presentazioni onnicomprensive, prefazioni troppo spesso generiche. Qui, in Passi nel tempo, si tratta di letture testuali, puntuali. Ho voluto descrivere, analizzare, spiegare; non giudicare o valutare.
Sembra di assistere al recupero di un micro-genere letterario caduto in disuso, o forse mai praticato, almeno in Italia…
Il commento puntuale, dedicato a ciascuna poesia, è un esercizio critico di cui in effetti ho difficoltà a trovare esempi. Dobbiamo risalire a operazioni illustri, come le meravigliose note di Walter Benjamin alle poesie brechtiane, o spostarci nel campo dell’editoria scolastica di alto livello (e di altri tempi), come le chiose dantesche di Natalino Sapegno o le guide di Mario Fubini ai singoli canti leopardiani.
Ogni singolo pezzo ha un nume tutelare: un filosofo, un pensatore, un letterato. E un concetto-guida: la «cura» di Heidegger, l’«aura» di Benjamin, il «segno» di Pirandello, lo «straniamento» di Šklovskij e Jakobson, l’uomo-società di Dewey…
Ho fatto ricorso alla storia del pensiero e del suo sviluppo filosofico, soprattutto così come, almeno dal mio punto di vista, li ha ospitati il Novecento. Forse potrà apparire quantomeno curioso scrivere di un poeta 'sconosciuto' chiedendo aiuto a Benjamin, Wittgenstein, Heidegger, Dewey, a ritroso fino a Kant, e ricorrendo a Brecht, Šklovskij, Jakobson, Della Volpe, Eco, Chomsky. Io e Minniti siamo accomunati dalla cosiddetta 'mezza età': nel libro c’è, tutta intera, la nostra 'biografia culturale'.
Cosa hai trovato nelle poesie di Minniti, tale da suscitare il ricorso a filosofi e pensatori come leve, come grimaldelli per spiegare e interpretare i versi?
Senza scomodare il concetto di logos, che informa di sé sia la filosofia che la poesia, direi che la risposta è nei versi stessi di Minniti: molto spesso l’autore si ferma a riflettere, le sue parole sono testimonianza di un vedersi vivere, ieri come oggi. Sembra quasi uscire da se stesso, per considerare non tanto il ricordo in sé, quanto le modalità in cui il ricordo stesso gli si presenta. Ricordare assieme al poeta alcune tracce fondamentali dell’indagine filosofica – e servirsi di esse – è sembrata la soluzione migliore.
Devo chiederti, a questo punto, le tue preferenze in campo filosofico, anche se ormai possiamo immaginarle…
Quando si apprezzano i risultati dell’indagine filosofica, si accolgono in genere nella loro pienezza e unità di differenze: anche se, personalmente, pur spaziando affascinata dalla Scuola eleatica a Heidegger, adoro senz’altro Hume, Kant, Wittgenstein e, perché no, sulla strada del mitico Circolo di Vienna, Popper e la filosofia della scienza.
Hai parlato di «biografia culturale». La tua, in particolare?
Ha le radici nel periodo universitario alla Sapienza di Roma, nel quadriennio 1974-1978 trascorso alla Facoltà di Lettere: anni tormentatissimi dal punto di vista organizzativo, politico, di gestione della vita quotidiana, ma vitali di esperienze. Un periodo in cui gli esami erano rinviati, le lezioni saltavano, la facoltà si occupava, il nozionismo era bandito, il disordine regnava: ma potevo seguire e ascoltare De Mauro, Garroni, Binni, Macchia, Salinari, Lombardo, Muscetta, Roncaglia, Costanzo, Carpitella, Cirese, e il carissimo Adriano Magli, con il quale mi sono laureata (all’epoca era vice-direttore centrale della Radiofonia alla RAI).
Nella quarta pagina di copertina si parla di «cattivi maestri». A chi ti riferisci?
Chi ha vissuto da studente gli anni Settanta all’Università di Roma sa di cosa parlo. Personaggi carismatici, ma troppo spesso offuscati dall’ideologia, ai quali non riesco a perdonare l’eccesso di schematismo, le promesse «culturali» non mantenute, una sorta di lobbismo che li manteneva tutti nel «cerchio magico» attraverso un sapiente uso delle citazioni reciproche. Forse i «cattivi maestri» meriterebbero di essere lasciati alle spalle, ma non ho voluto farlo. Nel libro ci sono anche loro: fino ad ora, per me e per altri, non sono stati deposti per essere sostituiti.
È un quadro pessimista…
Realista, direi. L’augurio è che in questo libro si possa rintracciare qualcosa non dico di nuovo, bensì di verosimile. E non mi riferisco certamente al verosimile filmico di Galvano Della Volpe o a quello letterario di Carlo Muscetta: ma anche in questo caso, come unico riferimento, anche se parziale, di credibilità artistica, preferisco questi ad altri successivi.
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