Doriano Fasoli: Berardinelli,
quali sono le prospettive della critica del nuovo Millennio? Che futuro ha la
critica? Può indicarmi i nomi e le linee di tendenza su cui scommettere?
Alfonso Berardinelli: Di solito non
faccio altro che nominare gli scrittori che preferisco. Non ho altra religione,
nessun altro ‘credo’. È tutta una questione di amore e odio. La critica in
fondo non ha altri moventi. Le linee di tendenza su cui scommettere sono, per
me, semplici e vaghe. Si tratta di capire e perfezionare, credo, la propria
singolarità, dato che siamo, irrimediabilmente, dei singoli imperfettamente,
provvisoriamente socializzati. La propria autenticità (se c’è) va recitata
(dato che bisogna esprimerla). Oggi, in fin dei conti, mi sento una specie di
anarchico radicale che per discrezione recita da scettico liberal-democratico…
Ma queste categorie suonano sempre un po’ enfatiche e deformanti…
Secondo il filosofo-scrittore Emilio
Garroni, interpretare testi narrativi è un’operazione complicata, non mai
risolta completamente dalla critica. «Certamente – egli ha avuto occasione
d’affermare nel corso di una nostra conversazione – interpretare testi
narrativi significa, da una parte, anche svelarne quella comprensione globale
che essi suppongono o esprimono implicitamente. Per dirla con un’espressione
che detesto: ‘la concezione del mondo’ supposta dall’autore o dall’ambiente da
cui proviene. D’altra parte però significa anche seguire e riesporre il filo
della narrazione, in quanto racconto di eventi e di azioni, descrizione di
personaggi e di situazioni. Ebbene, io credo che entrambe le operazioni siano
per se stesse insufficienti: la prima, come dicevo, trascura il tratto
peculiare della narrazione, la sua temporalità; la seconda sacrifica alla temporalità
quella comprensione che rende possibile una narrazione e rischia di risolversi
in un descrittivismo insignificante, oltre che unilaterale». Lo sforzo, secondo
Garroni, sarà quindi di mostrare che nel paradosso dell’interpretazione
narrativa comprensione e narrazione per un verso si richiamano a vicenda e per
altro verso si escludono. «In altre parole: bisogna, sì, comprendere un
romanzo, ma anche guardarsi dal trasformare questa comprensione in un suo
equivalente filosofico o ideologico. Dovremmo piuttosto ripercorrere la storia
interna della comprensione che il romanzo suppone e provoca. Del resto
comprendere e narrare dipendono dalle due coordinate fondamentali del nostro
esperire: il cogliere con un colpo d’occhio l’intera nostra esperienza possibile
nei suoi tratti necessari, come se fosse perenne e noi fossimo immortali, e
nello stesso tempo coglierla nella sua temporalità, nel suo non essere da
sempre, nel suo essere radicalmente contingente, quali noi stessi siamo». È
d’accordo? Che cosa vuol dire per lei interpretare testi narrativi?
Trovo
interessante questa distinzione di Garroni. E la condivido. Diffido della pura «comprensione»
se si esprime nelle forme della sintesi intellettualistica, perché ogni opera
d’arte (ma anche ogni fatto, fenomeno, esperienza e forma vivente) è
irriducibile al suo concetto. Ogni comprensione e interpretazione è il
risultato di un qui-e-ora, è circostanziale. Può cambiare non appena se ne
sentirà il bisogno. Non c’è niente di totalmente immobile neppure nei valori
più forti e nelle più grandi opere della tradizione culturale. Per questo la
critica militante ha sempre valore retroattivo. Se uno studioso seriamente
accademico prende per buoni dei cattivi autori contemporanei, dobbiamo dubitare
anche della sua comprensione dei classici. Evidentemente non li ha capiti, non
hanno agito su di lui. Si è limitato a studiarli per puro (e cieco) dovere
professionale. In questo senso, esplicitamente o implicitamente, tutta la
critica è militante, e non può illudersi di trovare rifugio e certezze nel
passato. È il presente, infatti, che custodisce o distrugge il passato. Anche
se spesso per custodire bisogna sospendere l’idea di una continuità garantita.
La via che porta ai classici non è una linea retta, è uno zig-zag o un labirinto… Comprensione e narrazione, mito e logos non devono escludersi. I migliori critici sono delle menti logiche, ma anche mitografiche. Il critico incapace di vera ammirazione diventa facilmente un puro amministratore di beni immobili.
La via che porta ai classici non è una linea retta, è uno zig-zag o un labirinto… Comprensione e narrazione, mito e logos non devono escludersi. I migliori critici sono delle menti logiche, ma anche mitografiche. Il critico incapace di vera ammirazione diventa facilmente un puro amministratore di beni immobili.
Tendo a credere
che raccontare sia solo uno dei modi per interpretare ciò che è avvenuto o
avviene. Si racconta quando non si riesce a interpretare per concetti, o quando
la sola logica degli eventi è la loro concatenazione di fatto, la catena dei prima e dei dopo o il rapporto di simultaneità, del tipo: «Pensò questo e fece
quello»; oppure: «Mentre faceva quello, pensava questo».
La mente del
critico è di solito più interpretativa che narrativa. Interessante però non è
tanto fornire formule o esibire strumenti analitici, quanto fare la storia del
(proprio) processo interpretativo. Ogni concetto contiene e nasconde un
racconto, un percorso mentale che si dovrebbe rendere esplicito.
Si tratta di
capire che la scientificità delle scienze storico-ermeneutiche non è la stessa di
quelle empirico-analitiche. La critica, comunque, può fare l’una cosa e
l’altra: descrivere casi singoli e indagare leggi generali, essere idiografica e nomotetica, fare il ritratto di un autore e studiare le
trasformazioni di un genere letterario o di una poetica.
Quali sono, secondo lei, le vere qualità del
saggista letterario? L’immensa cultura? Il desiderio di possesso, il dono
analogico, l’arte delle connessioni, una sottigliezza persino tortuosa, la
freddezza mentale, il fiuto del poliziotto che insegue dovunque le tracce del
criminale, il dono psicologico, quello che Poe chiama «il metodo» di Dupin?
Stavo cominciando
a parlare proprio di questo. La saggistica è la forma sperimentale della prosa
di pensiero. È il contrario del trattato. Comunque, come in altri generi
letterari, le qualità del saggista cambiano da un autore all’altro. Ci sono
saggisti in cui l’immensa cultura, al limite dell’erudizione, fa pensare ad una
vocazione enciclopedica. Questo demone enciclopedico, la curiosità, il camaleontismo,
il gusto della pluralità e della molteplicità, il libertinismo intellettuale si
trovano nella maggior parte dei saggisti, soprattutto nei critici letterari o
d’arte. È il bisogno di uscire da se stessi per entrare in altri mondi o
microcosmi individuali: è un infilarsi e intromettersi nella vita altrui, in
altre forme mentali e fisiche di vita.
Ma c’è anche il
polo opposto. Non la curiosità e la mobilità, ma la fedeltà, l’aderenza a
quello che si è e a quello che davvero interessa. Da un lato la curiosità
enciclopedica e libertina, dall’altro l’idiosincrasia dei gusti e delle
ossessioni, la dedizione ai propri piaceri e alle proprie necessità
intellettuali, morali, estetiche, politiche… Sì, probabilmente la formula
potrebbe essere la combinazione di virtuosismo intellettualistico e di fedeltà
autobiografica. Cose che si notano chiaramente (e originalmente combinate) in
saggisti come Mario Praz, Walter Benjamin, Giacomo Debenedetti, Edmund Wilson,
Viktor Šklovskij, Leo Spitzer, Roland Barthes, fino a Starobinski e Steiner.
Sembra sempre che dimentichino se stessi per correre dietro a ogni stimolo,
sollecitazione, avventura, idea, storia. Ma poi ci si rende conto che cercano
dovunque se stessi. Scrivono la propria autobiografia per interposte persone. Parlano
di sé parlando d’altro e di altri…
E come dev’essere la prosa di un saggista?
La prosa di un
saggista, come quella di ogni altro scrittore, è modellata dal carattere di
queste avventure sperimentali. Per parlare di altri autori il critico deve essere
camaleontico e mimetico come un attore: passivo e in apparenza «senza carattere».
Ma oltre che attore, un critico è anche il regista e lo stratega di se stesso.
Quindi si notano spesso, nella critica saggistica, visioni panoramiche, da
fuori, da lontano e dall’alto. E ricerche speleologiche dentro i labirinti, i
sotterranei di un autore o di un’epoca. La cosa che trovo più appassionante è
proprio il mutamento stilistico, il cambio di marcia, di ritmo, di ottica. È
vedere un fenomeno letterario e culturale ora da un punto di vista e ora da un
altro, facendolo ruotare come un poliedro. Per questo credo che sia inevitabile
un certo eclettismo teorico e metodologico. Non importa da dove si parte e dove
si arriva (dati formali, ricorrenze tematiche, episodi biografici, idee fisse),
quello che forse è più durevole nella prosa saggistica di un critico è il ritmo
intellettuale, la musica della conversazione-racconto.
Qual è precisamente il ruolo di un critico
militante?
Non so se il
critico militante ha un ruolo preciso. Ciò che lo definisce è l’intensità
polimorfica del suo rapporto con i fenomeni letterari, non in quanto dati o fatti, ma in quanto processi, implicazioni mobili. Il critico
militante agisce nel presente. Il presente è il suo punto di vista e il suo
luogo. E il presente è per definizione inafferrabile e fluido, variabile,
imprevedibile.
Il critico
militante può essere influente o ignorato, può esercitare un notevole potere
sull’ambiente culturale o invece essere quasi ignorato e mal tollerato, un outsider, una specie di intruso… Ma non
conta il suo prestigio, la sua influenza. Conta il suo contatto con quello che
avviene, conta l’intensità delle sue valutazioni ermeneutiche.
Alcuni critici
sono stati considerati importanti subito: è il caso di Belinskij, Sainte-Beuve,
De Sanctis, F. R. Leavis, T. S. Eliot, Sartre, Barthes. Altri invece hanno
avuto difficoltà ad essere accettati, sentivano quasi di non esistere e la loro
importanza è stata riconosciuta solo più tardi. Benjamin e Debenedetti, per
esempio, hanno avuto una fortuna prevalentemente postuma. Il
critico-storiografo, il critico-filologo, il critico-filosofo di solito hanno
più fortuna: il loro talento, la loro intelligenza, il loro stile agiscono
attraverso certe potenti protesi professionali, dottrinali, ideologiche. Il
critico che è invece pura intelligenza critica, puro e semplice stile
intellettuale, è più difficile da riconoscere. Ed è più irritante. Sia Benjamin
che Debenedetti vennero respinti dall’università, sembravano degli inconsistenti
dilettanti, senza teoria e senza metodo… È interessante che anche Edmund
Wilson, che pure scrisse libri piuttosto organici come Il castello di Axel e Stazione
Finlandia, si definiva «giornalista», come dire scrittore d’occasione e al
servizio del presente…
I saggisti non
professionalizzati, senza una precisa appartenenza istituzionale e di genere,
come per esempio Karl Kraus e Simone Weil, restano autori da conventicola:
nelle storie della letteratura e della filosofia vengono considerati marginali
o spariscono del tutto.
L’autore di libri comunica di solito assai
male, sommerso da altri media e dalla stessa quantità di libri pubblicati. Se
vuole comunicare largamente, è costretto spesso a fare troppe concessioni. Se
non vuole farle, deve quasi sempre accontentarsi di circuiti medi o piccoli,
quando va bene… Pensa di poter condividere questa opinione?
Gli articoli di
giornale sembrano sempre effimeri, indipendentemente dal loro valore. I libri
degli universitari si presentano invece come solidi e durevoli, anche se non lo
sono. Ogni canale e sede, università o giornali, ha il suo codice e le sue
regole, che esercitano spesso una censura indiretta e implicita, o inducono chi
scrive a una certa autocensura non del tutto consapevole. I testi articolati e
complessi non hanno vita facile oggi. Credo che la forma saggistica in senso
proprio stia diventando, salvo eccezioni, poco adatta alle modalità
comunicative dominati. Un saggio è qualcosa di intermedio fra il libro e
l’articolo di giornale e di solito non si sa dove e come pubblicarlo. Il luogo
ideale sarebbero le riviste e i periodici, che ormai stentano a sopravvivere,
hanno pochi lettori, hanno perduto il prestigio di un tempo. Devo dire che la
forma saggistica mi attira anche per il suo anacronismo, per la sua
inattualità. Oggi siamo sommersi dai best seller narrativi e dalla
pseudosaggistica dei peggiori giornalisti, magari televisivi. Resta vero,
comunque, che fra Letteratura e Comunicazione globalizzata non ci sono rapporti
facili.
Fino alla metà
del Novecento, fino agli anni Sessanta, la consapevolezza di questa difficoltà
c’era, era perfino estremizzata e drammatizzata polemicamente. Il successo
mediatico, almeno in Europa, per uno scrittore non era una mèta, era quasi un
incidente di percorso. Oggi gli autori che non hanno mai scritto un best seller
si sentono umiliati… Si è passati dall’esoterismo programmatico alla
comunicazione totale e immediata. Da un estremo all’altro. I romanzi devono
essere facilmente consumabili. La stessa voluminosità abnorme della maggior
parte dei best seller suggerisce che la lettura dovrà essere veloce. Altrimenti
non si capirebbe perché tutti si spaventano a leggere Dostoevskij e si buttano
tranquillamente su Stephen King.
Oggi quello che
si chiede nelle facoltà o nei dipartimenti di Scienze della Comunicazione è che
la letteratura sia comunicazione facile, immediata e di massa. Anche gli autori
più giovani si stanno abituando a questo. Non credo però che il successo
mediatico possa essere scambiato per comunicazione. O meglio, bisognerebbe
vedere che cosa si sta comunicando.
Il successo, anche quello letterario (e perfino filosofico), è spesso un
fenomeno esoterico. Comunica se stesso, senza comunicare molto di più. Puro
magnetismo. O semplice ipnosi. Un libro di successo moltiplica velocemente il
suo successo, anche se non piace propriamente a nessuno. Consumare prodotti
culturali di successo fa sentire il consumatore meno solo, lo fa sentire parte
di una confortevole moltitudine. La solitudine, che è stata a lungo il concime
delle arti, oggi fa sempre più paura. Tutti i nuovi media danno anzitutto
compagnia…
Diceva Cézanne: «Non bisogna chiedere a un
artista più di quanto possa fare, né al critico più di quanto possa capire»; e
Bloy: «i critici sono quelle strane persone che si ostinano a trovar domicilio
in un letto altrui»… Cosa ne pensa? Secondo lei, la critica dovrebbe evitare le
astrazioni e, per così dire, cominciare
da qui?
Sì, i critici si
ostinano a formulare obiezioni e diagnosi. Anche quando il loro oggetto o punto
di partenza e di applicazione è un’opera d’arte, il critico legge nelle forme
artistiche dei modi di essere. Così un’intera società o cultura diventa
percepibile dentro un testo, una storia, una serie di immagini. La vocazione (o
la pretesa) del critico è di capire tutto, di capire il più possibile anche
partendo da pochi dati e da pochi elementi, da una base empirica ristretta. Si
parte dal concreto, dalla cosa, dal qui e ora, dall’occasione. E magari si
arriva a qualche valutazione e conclusione generale. È il contrario di quello
che di solito fanno i filosofi. In realtà anche i critici sono a loro modo dei
filosofi, solo che usano altri procedimenti, un metodo diverso. Partono
dall’attenzione prolungata ai fenomeni, non puntano a definire essenze. Il «pensiero
essenziale» e le filosofie essenzialiste tornate di moda negli ultimi decenni
si fanno la vita facile. Invece di guardare e descrivere un albero analizzano
il seme. Così la percezione sensoriale viene addormentata, si atrofizza. Per
capire, si chiudono gli occhi… È una vecchia storia, ahimé sempre attuale…
Per qualcuno una recensione dev’essere
l’equivalente di un pot de confitures…
Per lei, qual è il senso della recensione?
La recensione è
un genere letterario e un’arte. Però bisogna mettercela tutta, bisogna sempre
guardarsi dalla routine e dal mestiere. Per questo di solito i narratori e i
poeti che scrivono recensioni non fanno molto sul serio. Il centro dei loro
interessi è altrove, è nelle poesie e nei romanzi che hanno scritto e che
scriveranno. Se fanno recensioni è per guadagnare soldi e per tenersi in
contatto (in buoni rapporti) con l’ambiente letterario, editoriale,
giornalistico, universitario. Solo un critico che è solo un critico si mette
totalmente in gioco recensendo libri. Non ha alibi. Oggi però i critici sono
pochissimi e i recensori sono una marea che li sommerge. La simil-critica
esiste per rendere invisibile la critica e disinnescare il suo eventuale
potere. Non dico che l’informazione culturale non serve. È utile, però, solo se
è onesta e modesta. Invece l’informazione mira proprio a costruire quei miti
che poi il critico deve smontare. Una fatica di Sisifo…
Ha avuto occasione di affermare, in passato:
«Penso che la critica sia un genere letterario che richiede immaginazione e
inventività. Oggi, come ogni altro scrittore, il critico deve ridefinire
anzitutto davanti a se stesso i termini della propria attività e del proprio
stile intellettuale. La distinzione tra creativo e non creativo mi sembra fuorviante».
Perché dunque le sembra fuorviante?
È una distinzione
fuorviante perché nessuno crea da nulla. Anche interpretare è inventare. Molta
narrativa e poesia, per la verità, è sempre stata rifacimento e ripresa, cioè
interpretazione critica di opere precedenti. Marcel Proust è un grande critico
e Francesco De Sanctis ha letteralmente inventato la letteratura italiana… La
distinzione è di stile, di metodo, di materia, di genere letterario. Catullo e
Leopardi nelle loro poesie non inventano, non creano nella stessa misura e
maniera di Rabelais e Cervantes. La maggior parte della poesia lirica è fuori
dalla fiction, registra con
precisione stati emotivi e mentali. E del resto, in pittura, la ritrattistica
che cosa fa se non inventare un volto che già esiste?
Ad un certo punto si è accorto che nella postmodernità
si moltiplicavano e si riproducevano degli «stili dell’estremismo». Così, per
farsi capire, isolando solo qualche esempio fra i molti possibili, ha
pubblicato il pamphlet omonimo… Me ne vuole parlare?
Si tratta, sia
letterariamente che intellettualmente, del mito dell’Essenza che riassume e
condensa (rende trascurabili) i fenomeni. Si tratta dell’idea di «andare
coerentemente fino in fondo». Ma il fondo non c’è e la coerenza logica a tutti
i costi trascura la storia, le storie, i singoli. Fa violenza ai fatti. Credo
che gli stili dell’estremismo abbiano sempre qualcosa di involontariamente
caricaturale. Filosofi come Severino e Cacciari non fanno che parlare di alpha e omega, dell’inizio e della fine, dell’Origine e dell’Apocalisse, di
Essere, Nulla e Divenire… Il loro stile è diverso, perché Severino è sempre
logico fino all’assurdo, mentre Cacciari parla per citazioni, non fa un
ragionamento, crea suggestioni, terrori, brividi… Sono due caricature di una
caricatura come Heidegger, contro cui Adorno scrisse un ottimo pamphlet, Il gergo dell’autenticità. La metafisica
e l’ontologia sono come il chewing gum:
si mastica e si mastica, ma non si può ingoiare niente… Alla fine, però,
bisogna sputare. Vorrei che ci si decidesse, una buona volta, a sputare
l’essenzialismo diventato insipido…
Calasso, Ceronetti, Citati, Cioran… Cos’hanno
in comune questi quattro autori? E in loro sente delle affinità o se ne
distanzia?
Mi pare che
Citati, Ceronetti, Calasso siano continuamente tentati da quel genere di
estremismo che è la mistica. In loro si sente di continuo il richiamo più o
meno esplicito ad una philosophia
perennis che il particolare sviluppo della cultura occidentale ha dissipato
e consegnato all’oblio. Intellettualmente non vogliono accettare l’Illuminismo.
Ma come tutti gli occidentali che vivono secondo il modo occidentale di vivere,
anche loro devono accettare, di fatto, l’Illuminismo: leggono i giornali,
scrivono sui giornali, usano i prodotti dell’industria, vanno al cinema,
abitano un mondo abbandonato dagli dèi in cui niente è sacro…
In effetti, anche
come scrittori, sono qualcosa a metà strada fra il dandy e l’anacoreta. Purtroppo, senza ironia e senza molta
consapevolezza del paradosso… Calasso è stato un editore geniale. Ceronetti è
uno scrittore notevole. Citati potrebbe essere un ottimo critico, se non
recitasse da veggente e se non pretendesse di parlare, in stato di atarassia,
di troppi autori, riscrivendoli e parafrasandoli…
Che cosa rimprovera in particolare alla
sinistra italiana?
La ragione per la
quale non sopporto la sinistra italiana è che non riesco a farmi piacere la sua
cultura, i suoi intellettuali di riferimento. Il mio guaio è che sono più
sensibile ai fatti culturali che a quelli politici. La cultura di un paese non
è forse più importante della sua politica? La politica viene dopo, è il
prodotto di un modo di pensare e di essere. Molta cultura di sinistra degli
anni Ottanta era berlusconiana ante
litteram, ha preparato la strada al centro-destra. E non vuole
riconoscerlo.
[pubblicato in: Il Caffè Illustrato, n. 34, gennaio-febbraio 2007.]
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