Incastrati fra un provincialismo succube del mito americano e il rifiuto aprioristico di concedere alla cultura statunitense la stessa dignità di quella europea, in Italia rischiamo di perdere di vista i reali contorni di una situazione vivace e piena di fermento come quella artistica e culturale americana. L'ambiente letterario newyorchese può fornire un quadro abbastanza preciso, anche se limitato nello spazio, delle condizioni in cui si sono formati molti dei giovani scrittori statunitensi che oggi si pubblicano in grande abbondanza sul mercato italiano. Che in America si studi scrittura creativa è un fatto risaputo, non c'è bisogno di tirare in ballo John Gardner, Raymond Carver e i loro emuli «holdeniani», e neppure le scontate critiche sull'howtoism statunitense. È vero, gli americani sono ottimisti, faciloni, pragmatici e nello stesso tempo idealisti, e credono che con un po' di buona volontà si possa imparare tutto. Anzi, con un po' di buona volontà e parecchi soldi, visto che i programmi di scrittura creativa delle università costano spesso più di 25.000 dollari l'anno solo per le tasse scolastiche, cifra che può tranquillamente raggiungere, per esempio nel caso di uno studente della Columbia, un totale di 60.000 dollari. Per i più meritevoli e meno abbienti esistono le borse di studio, oppure c'è sempre la possibilità di chiedere un finanziamento che copra le spese universitarie. Entrambe queste opzioni presentano i vantaggi e gli svantaggi tipici del capitalismo «meritocratico» americano: da un lato viene posto uno sbarramento basato sul reddito, e dall'altro si fornisce una possibilità di riuscita a chi ha la capacità e la volontà di impegnarsi. Di impegnarsi, s'intende, molto più di coloro che sono già ricchi in partenza: solo così è possibile tentare di superare l'enorme ostacolo rappresentato da una condizione economica disagiata.