Umberto Piersanti |
Doriano Fasoli: Tra alberi e vicende è la sua ultima raccolta poetica pubblicata per Archinto. Cosa suggerisce questo titolo?
Umberto Piersanti: Tra alberi e vicende è il mio libro più recente, ma anche il più antico, in quanto raccoglie tutte le pubblicazioni precedenti la trilogia einaudiana. Gli alberi indicano il mio amore totale ed assoluto per la natura: essere un poeta di natura non vuol dire nominare qualche fiore o qualche pianta. Tranne pochissimi metropolitani, lo fanno quasi tutti gli autori. Essere un poeta di natura significa buttare la testa tra l'erba, percepire suoni, odori, rumori, vivere insomma il mondo attraverso la specula della natura. La mia poesia ha sempre mantenuto questa costante. Non c'è in me, però, alcuna connotazione ecologica e poca volontà di contestazione verso il presente. Dunque non contrappongo una natura intatta ed un integro ed autentico mondo contadino all'inautenticità del presente alla maniera di un Olmi o di un Pasolini. È la memoria che rintraccia la natura e la vita di un tempo. La mia natura conosce anche l'oscurità e il dolore: qualcuno ha parlato giustamente di «Arcadia d'ombra». Le vicende indicano il mio feroce attaccamento al reale e alla vita come ha giustamente sottolineato fin dall'inizio Carlo Bo. Il reale di cui parlo c’entra poco con il neorealismo o dimensioni affini: reale è anche la fantasia più sconvolta, il pensiero più segreto, lo spessore impalpabile dell'aria.
Sente più congeniale la prosa o la poesia?
Assolutamente la poesia. Ci sono però situazioni e vicende che richiedono la prosa. La battaglia di El Alamein che io ho sentito raccontare da tanti che l’hanno vissuta può essere descritta solo in un romanzo come ho fatto ne L’estate dell’altro millennio. Quando scrivo romanzi non intendo proporre lunghissime poesie in prosa: questo è l’errore in cui incappano sovente i poeti per vocazione che si trasformano in narratori. Nella mia narrativa la poesia permane spesso attraverso l’occhio del protagonista. Sempre ne L’estate dell’altro millennio, il tenente Marco attraversa gli immensi boschi jugoslavi in un’operazione di ricerca dei ribelli titini. È una situazione molto pericolosa, ma lui osserva gli immensi abeti, il cerbiatto che sbuca all’improvviso, le cornacchie che schiamazzano sui rami. La vicenda però rimane importante: la narrazione si svolge in un ritmo serrato e precipita nell’imboscata e nella battaglia. Gli alberi rimangono sullo sfondo e dominano il crepitio delle mitragliatrici e gli scoppi dei proiettili dei mortai.
«Tutti diventano creatori, c’è una mobilitazione generale che porta al paradosso per cui non c’è più un destinatario, tutti sono trasmettitori. Ognuno crea la propria espressione e non ha più il tempo di ascoltare gli altri. È una forma eccessiva in cui l’arte scompare per eccesso, non per mancanza, creando un cortocircuito al senso stesso». Sono parole di Jean Baudrillard. Anche secondo lei, se la poesia, l’arte, sono ovunque, allora cessano di esistere?
Diceva Giorgio Caproni che in Italia la poesia è come la pasta: ognuno crede di potersela fare in casa. Ai circa due milioni di italiani che scrivono versi fanno da contraltare i ventimila scarsi che leggono poesia. Inoltre gli autori letti sono stranieri e un po’ sempre i soliti: Baudelaire e i ‘maledetti’ francesi; Lorca, Neruda, Prèvert; l’antologia dello Spoon River, e poco altro. Da notare che in poesia i testi tradotti perdono molto di più di quelli di narrativa: in poesia sono importanti il ritmo e il suono pressoché impossibili da rendere in un’altra lingua. Con questo non sono contro la traduzione che è assolutamente necessaria, ma invito gli italiani a leggere i loro poeti che, tra l’altro, nel Novecento sono notevoli, in genere molto più notevoli dei narratori.
L’enorme produzione mette naturalmente a rischio tutte le opere letterarie ed artistiche in genere. Penso, però, che il tempo farà un po’ di ordine, anche se non sempre giusto. Alcuni autori non arriveranno sulle scrivanie adatte: la critica contemporanea è spesso aprioristica ed ideologica, quando non si trasforma in una vera guerra per gruppi e per bande.
Fino a diciotto anni tutti scrivono poesie, diceva Croce. Dopo, egli aggiungeva, continuano a scriverne i poeti e i cretini. Cos’è che differenzia un poeta da un facitore di versi?
Molti marescialli in pensione e ‘ragazzi sedotti e abbandonati’ (succede anche ai maschi) scrivono versi, così come lo fanno signore stanche e politici insoddisfatti. Spesso il livello mediocre dei testi è avvertibile a prima vista. Comunque non è detto che siano dei cretini: bisogna avere rispetto per un’urgenza d’esprimersi, di prendere la parola che è costitutiva di molti esseri umani. Il difficile sopraggiunge quando non si riesce a capire se siamo di fronte a dei facitori di versi o a dei poeti autentici. Per ognuno di noi intelligenza e sensibilità funzionano come un setaccio attraverso il quale passano solo determinati grani. Ogni critico ha preso delle topiche immense, basterebbe pensare ai giudizi del grande Croce sugli autori del Novecento. La massa però dei facitori di versi è, lo ripeto, abbastanza distinguibile: i loro sentimenti possono essere (e spesso sono) sinceri, ma il dominio della lingua assolutamente inappropriato. La lingua per i poeti è come il marmo per gli scultori, bisogna saperla adoperare. Tutto questo però non basta, si può essere dei virtuosi della lingua ma non dei poeti. È necessario avere un mondo da proporre che sappia coinvolgere anche gli altri.
Quali sono (state) le sue predilezioni poetiche, nell’ambito della poesia straniera?
Premetto che sono uno dei pochi che ha letto molto di più la poesia italiana rispetto a quella straniera. A sedici anni, come tutti, mi sono fiondato sui maledetti: Baudelaire, Verlaine, Rimbaud. Il testo che più mi ha coinvolto (non voglio assolutamente dire il più bello) è stato le Fêtes galantes di Verlaine: quella tenerezza squisita, quel tono garbato e magico, mi hanno molto affascinato nel passaggio tra adolescenza e giovinezza. Lorca e Neruda sono stati gli autori dei miei anni di liceo e dei primi tempi di università: l’amore per Lorca è stato molto più tenace di quello per il cileno. Da loro ho appreso che un eros scoperto, ma sempre ‘alto’, poteva benissimo essere espresso in versi: e questo non succedeva quasi mai nella poesia italiana. Più tardi ho molto amato i romantici francesi, inglesi e tedeschi: de Vigny l’avevo già incontrato nei banchi delle medie. Hölderlin tradotto da Traverso mi ha affascinato molto. Del Novecento anglo-americano ho amato molto più Eliot di Pound. Importanti per me sono stati i lirici greci tradotti da Quasimodo, ma non so se in questo caso si tratta soprattutto della poesia dell’autore siciliano. Omeros di Walcott è stata una bella e recente scoperta.
Le piacciono le poesie di Cristina Campo? E quelle di Marianne Moore?
Marianne Moore la conosco troppo poco per esprimere un giudizio più o meno completo. Cristina Campo ha una poesia fascinosa e intrigante: rimane però in lei qualcosa di astratto. Mi sembra che il decorativo e l’acutezza, anche figlia di una grande sensibilità umana e letteraria, siano le note fin troppo esaustive della poetessa italiana. Avverto una mancanza di vita, di rapporto con le cose, le luci e i colori che non siano quelli dell’antica liturgia bizantina che sembra pervadere tutta l’atmosfera dell’opera di Cristina Campo. Sono consapevole che questo mio giudizio (anzi più impressione che giudizio) nasce da una conoscenza non approfondita e da una sensibilità lontana da quella della Campo.
Era nelle sue corde un poeta come Giovanni Giudici, recentemente scomparso?
Sono abbastanza lontano dalla linea ‘prosastica’ lombarda di cui il ligure Giovanni Giudici era uno degli interpreti più importanti. Recentemente ho ascoltato su Radiotre una lettura registrata, fatta dall’autore stesso di alcune sue composizioni: mi ha molto coinvolto. In quel dettato secco e cadenzato c’era una notevole forza di pensiero. Veniva fuori anche una sensibilità intensa e acuta tanto più vera quanto più trattenuta. Sono un italiano ‘centrale’, affascinato dalla grande tradizione lirica della mia terra, e dunque non sono molto vicino a Giudici, ma lo ritengo un poeta importante e significativo.
Qual è il titolo di una poesia, sua o non sua, che le sta più a cuore?
Due titoli miei: «Nel tempo che precede», che è una poesia de I luoghi persi e darà poi il titolo all’omonima raccolta successiva, e «La giostra». E poi «Le ricordanze» di Leopardi e «Davanti San Guido» di Carducci.
Se dovesse dare un colore alla sua produzione poetica, quale sceglierebbe?
Il verde. Il rosso rappresenta una carnalità diretta: mi sembra il colore più appropriato per i pittori. L’azzurro è il colore del cielo, dovrebbe appartenere soprattutto ai musicisti: i più geometrici e astratti. Il verde sta tra cielo e terra: dovrebbe essere il colore dei poeti. Comunque mi piacciono tutti e tre i colori, ed anche gli altri. Ci sono poeti esclusivamente ‘mentali’: scrivono per sinopie, in rigoroso bianco e nero. Preferisco i poeti che amano le luci ed i colori. Sottolineo il carattere un po’ giocoso della mia risposta.
Per qualcuno una recensione dev’essere l’equivalente di un «pot de confitures»… Per lei, qual è il senso della recensione?
Per me una recensione deve raccontarci un libro e non esimersi da un giudizio implicito od esplicito. Il giudizio deve essere pronunciato sulla base delle coordinate dell’autore preso in esame, evitando, per quanto è possibile, di appropriargli le nostre. Niente è mai assolutamente oggettivo, ma la recensione deve mirare ad essere la più equilibrata ed onesta possibile. I ‘soffietti’ amicali o le stroncature interessate sembrano invece dominare in troppa parte della critica italiana. E poi gli errori ci sono, ma non debbono essere voluti e premeditati.
Quali sono, secondo lei, le vere qualità del saggista letterario? L’immensa cultura? Il desiderio di possesso, il dono analogico, l’arte delle connessioni, una sottigliezza persino tortuosa, la freddezza mentale, il fiuto del poliziotto che insegue dovunque le tracce del criminale, il dono psicologico, quello che Poe chiama «il metodo di Dupin»?
Le varie qualità non si escutono fra di loro, ma si integrano. L’immensa cultura aiuta, ma non è sufficiente. Il critico è un creatore come lo scrittore: si tratta di un’altra forma di «intelligenza intuitiva». Questa particolare forma di intelligenza deve essere messa al servizio del testo letto e non deve muoversi su una linea egotica e solipsistica che risponda solo alla vanità del recensore. Il fiuto parte da una qualche forma di partecipazione e di vicinanza all’oggetto fiutato. Solo così si può cogliere il senso di un’opera: ma il fiuto è anche uno strumento pericoloso che ti può condurre su strade assolutamente false. Va dunque controllato con l’immensa cultura e con una buona dose di freddezza mentale. E non ci si spaventi della contraddizione: gli ossimori costituiscono spesso la verità delle cose e delle parole.
Avrà conosciuto senz'altro molti poeti: ce n'è qualcuno in particolare con cui stabilì una profonda intesa culturale e affettiva e di cui conserva viva memoria?
Con Fabio Doplicher ho organizzato una serie di importanti incontri ad Urbino e a Fano alla fine degli anni Settanta e nei primi degli anni Ottanta. A lui debbo molto: è stato il poeta triestino che mi ha introdotto nell’ambiente letterario e mi ha fatto conoscere varie persone.
Con Franco Scataglini ho passeggiato tra le siepi di pitosforo e di alloro di Portonovo. Su Mario Luzi ho girato un documentario per la Rai3 delle Marche. Con Giorgio Caproni ho letto a Vienna.
Tanti nomi anche tra i più giovani. Dal tenace e assorto Milo De Angelis al solare ed ellenico Giancarlo Pontiggia; e poi, ancora, l’umanità profonda di Franco Loi. Ripeto: con Fabio Doplicher ho lavorato, discusso, passeggiato, guardato il mondo per anni.
A cosa sta lavorando attualmente?
Ho terminato un romanzo ambientato negli anni della contestazione. Ricordo quel tempo né da pentito, né da apologeta. Ho l’ambizione di aver saputo cogliere l’atmosfera di quel primo periodo della grande rivolta ancora sostanzialmente ‘innocente’, ma già percorsa da un fremito di violenza e di assolutismo ideologico che sarebbe poi sfociato anche negli anni di piombo. E non c’è solo la contestazione, ma i dancing di Riccione, le fughe negli Appennini, la ricerca dell’avventura e dell’amore. Credo di essere uno dei pochi autori che è riuscito a rendere quegli anni. Continuo inoltre a scrivere poesie che si distaccano un po’ dalle Cesane e dalla «casa nel fosso», anche se i temi della natura e del ricordo rimangono fondamentali.
Va ancora volentieri al cinema? E i suoi film preferiti?
Ero un appassionato di cinema negli anni Sessanta: Ingmar Bergman e poi la Nouvelle Vague francese, i nostri grandi autori (Visconti, Fellini, Antonioni ed altri). Mi affascinavano anche molto i film esistenziali dei paesi dell’Est. Tra i russi, l’Andrej Rublëv di Tarkovskij è tra i miei preferiti. Tra i più recenti film italiani, mi ha molto colpito L'uomo che verrà di Diritti. Vado ancora volentieri al cinema ma più da spettatore che da interprete o critico.
Quale libro, oggi, la sta avvincendo?
Sto leggendo uno splendido libro di storia Guerra assoluta di Chris Bellamy. Racconta lo scontro titanico, con le più grandi battaglie della storia umana, tra la Germania nazista e l’URSS. L’autore, da buon inglese, non racconta la storia sulla base di simpatie ideologiche e di improprie ricadute sul presente. Questo saggio si legge come un grande romanzo. In questo momento è il libro che mi sta più avvincendo.
Segue con interesse i programmi televisivi? O la tv semplicemente la annoia, la subisce con indifferenza?
Stimo molto Piero ed Alberto Angela e seguo con interesse tutti i loro programmi. Amo molto i documentari di natura: in questo campo gli inglesi sono assolutamente i migliori. Mi piace anche La storia siamo noi, questa trasmissione non sempre è «molto oggettiva». Dire che Balbo è stato quasi sicuramente fatto fuori da Mussolini attraverso un voluto «fuoco amico» è una trovata molto più giornalistica che storica. Comunque nella sostanza il programma è buono. Seguo anche Floris e Santoro: i comici che introducono sono troppo banalmente e scontatamente anti-berlusconiani. Il programma più orrendo è Voyager di Giacobbo: una serie di indegne superstizioni propinate ad un pubblico spesso pronto a recepire ogni idiozia esoterica. Non seguo reality, balli e canzoni varie. A proposito di televisione, perché neppure il ‘colto’ Fazio ha mai invitato un poeta? E ha presentato Cassano non come un calciatore, ma come uno scrittore che ha procurato tutta la nostra invidia con il racconto delle sue settecento donne sedotte? In conclusione, nella televisione c’è un 80-85% di banalità e volgarità; il resto è fatto da discreti e, talora, buoni programmi.
L'intervista è stata realizzata nell’ottobre 2011.
Umberto Piersanti: Tra alberi e vicende è il mio libro più recente, ma anche il più antico, in quanto raccoglie tutte le pubblicazioni precedenti la trilogia einaudiana. Gli alberi indicano il mio amore totale ed assoluto per la natura: essere un poeta di natura non vuol dire nominare qualche fiore o qualche pianta. Tranne pochissimi metropolitani, lo fanno quasi tutti gli autori. Essere un poeta di natura significa buttare la testa tra l'erba, percepire suoni, odori, rumori, vivere insomma il mondo attraverso la specula della natura. La mia poesia ha sempre mantenuto questa costante. Non c'è in me, però, alcuna connotazione ecologica e poca volontà di contestazione verso il presente. Dunque non contrappongo una natura intatta ed un integro ed autentico mondo contadino all'inautenticità del presente alla maniera di un Olmi o di un Pasolini. È la memoria che rintraccia la natura e la vita di un tempo. La mia natura conosce anche l'oscurità e il dolore: qualcuno ha parlato giustamente di «Arcadia d'ombra». Le vicende indicano il mio feroce attaccamento al reale e alla vita come ha giustamente sottolineato fin dall'inizio Carlo Bo. Il reale di cui parlo c’entra poco con il neorealismo o dimensioni affini: reale è anche la fantasia più sconvolta, il pensiero più segreto, lo spessore impalpabile dell'aria.
Sente più congeniale la prosa o la poesia?
Assolutamente la poesia. Ci sono però situazioni e vicende che richiedono la prosa. La battaglia di El Alamein che io ho sentito raccontare da tanti che l’hanno vissuta può essere descritta solo in un romanzo come ho fatto ne L’estate dell’altro millennio. Quando scrivo romanzi non intendo proporre lunghissime poesie in prosa: questo è l’errore in cui incappano sovente i poeti per vocazione che si trasformano in narratori. Nella mia narrativa la poesia permane spesso attraverso l’occhio del protagonista. Sempre ne L’estate dell’altro millennio, il tenente Marco attraversa gli immensi boschi jugoslavi in un’operazione di ricerca dei ribelli titini. È una situazione molto pericolosa, ma lui osserva gli immensi abeti, il cerbiatto che sbuca all’improvviso, le cornacchie che schiamazzano sui rami. La vicenda però rimane importante: la narrazione si svolge in un ritmo serrato e precipita nell’imboscata e nella battaglia. Gli alberi rimangono sullo sfondo e dominano il crepitio delle mitragliatrici e gli scoppi dei proiettili dei mortai.
«Tutti diventano creatori, c’è una mobilitazione generale che porta al paradosso per cui non c’è più un destinatario, tutti sono trasmettitori. Ognuno crea la propria espressione e non ha più il tempo di ascoltare gli altri. È una forma eccessiva in cui l’arte scompare per eccesso, non per mancanza, creando un cortocircuito al senso stesso». Sono parole di Jean Baudrillard. Anche secondo lei, se la poesia, l’arte, sono ovunque, allora cessano di esistere?
Diceva Giorgio Caproni che in Italia la poesia è come la pasta: ognuno crede di potersela fare in casa. Ai circa due milioni di italiani che scrivono versi fanno da contraltare i ventimila scarsi che leggono poesia. Inoltre gli autori letti sono stranieri e un po’ sempre i soliti: Baudelaire e i ‘maledetti’ francesi; Lorca, Neruda, Prèvert; l’antologia dello Spoon River, e poco altro. Da notare che in poesia i testi tradotti perdono molto di più di quelli di narrativa: in poesia sono importanti il ritmo e il suono pressoché impossibili da rendere in un’altra lingua. Con questo non sono contro la traduzione che è assolutamente necessaria, ma invito gli italiani a leggere i loro poeti che, tra l’altro, nel Novecento sono notevoli, in genere molto più notevoli dei narratori.
L’enorme produzione mette naturalmente a rischio tutte le opere letterarie ed artistiche in genere. Penso, però, che il tempo farà un po’ di ordine, anche se non sempre giusto. Alcuni autori non arriveranno sulle scrivanie adatte: la critica contemporanea è spesso aprioristica ed ideologica, quando non si trasforma in una vera guerra per gruppi e per bande.
Fino a diciotto anni tutti scrivono poesie, diceva Croce. Dopo, egli aggiungeva, continuano a scriverne i poeti e i cretini. Cos’è che differenzia un poeta da un facitore di versi?
Molti marescialli in pensione e ‘ragazzi sedotti e abbandonati’ (succede anche ai maschi) scrivono versi, così come lo fanno signore stanche e politici insoddisfatti. Spesso il livello mediocre dei testi è avvertibile a prima vista. Comunque non è detto che siano dei cretini: bisogna avere rispetto per un’urgenza d’esprimersi, di prendere la parola che è costitutiva di molti esseri umani. Il difficile sopraggiunge quando non si riesce a capire se siamo di fronte a dei facitori di versi o a dei poeti autentici. Per ognuno di noi intelligenza e sensibilità funzionano come un setaccio attraverso il quale passano solo determinati grani. Ogni critico ha preso delle topiche immense, basterebbe pensare ai giudizi del grande Croce sugli autori del Novecento. La massa però dei facitori di versi è, lo ripeto, abbastanza distinguibile: i loro sentimenti possono essere (e spesso sono) sinceri, ma il dominio della lingua assolutamente inappropriato. La lingua per i poeti è come il marmo per gli scultori, bisogna saperla adoperare. Tutto questo però non basta, si può essere dei virtuosi della lingua ma non dei poeti. È necessario avere un mondo da proporre che sappia coinvolgere anche gli altri.
Quali sono (state) le sue predilezioni poetiche, nell’ambito della poesia straniera?
Premetto che sono uno dei pochi che ha letto molto di più la poesia italiana rispetto a quella straniera. A sedici anni, come tutti, mi sono fiondato sui maledetti: Baudelaire, Verlaine, Rimbaud. Il testo che più mi ha coinvolto (non voglio assolutamente dire il più bello) è stato le Fêtes galantes di Verlaine: quella tenerezza squisita, quel tono garbato e magico, mi hanno molto affascinato nel passaggio tra adolescenza e giovinezza. Lorca e Neruda sono stati gli autori dei miei anni di liceo e dei primi tempi di università: l’amore per Lorca è stato molto più tenace di quello per il cileno. Da loro ho appreso che un eros scoperto, ma sempre ‘alto’, poteva benissimo essere espresso in versi: e questo non succedeva quasi mai nella poesia italiana. Più tardi ho molto amato i romantici francesi, inglesi e tedeschi: de Vigny l’avevo già incontrato nei banchi delle medie. Hölderlin tradotto da Traverso mi ha affascinato molto. Del Novecento anglo-americano ho amato molto più Eliot di Pound. Importanti per me sono stati i lirici greci tradotti da Quasimodo, ma non so se in questo caso si tratta soprattutto della poesia dell’autore siciliano. Omeros di Walcott è stata una bella e recente scoperta.
Le piacciono le poesie di Cristina Campo? E quelle di Marianne Moore?
Marianne Moore la conosco troppo poco per esprimere un giudizio più o meno completo. Cristina Campo ha una poesia fascinosa e intrigante: rimane però in lei qualcosa di astratto. Mi sembra che il decorativo e l’acutezza, anche figlia di una grande sensibilità umana e letteraria, siano le note fin troppo esaustive della poetessa italiana. Avverto una mancanza di vita, di rapporto con le cose, le luci e i colori che non siano quelli dell’antica liturgia bizantina che sembra pervadere tutta l’atmosfera dell’opera di Cristina Campo. Sono consapevole che questo mio giudizio (anzi più impressione che giudizio) nasce da una conoscenza non approfondita e da una sensibilità lontana da quella della Campo.
Era nelle sue corde un poeta come Giovanni Giudici, recentemente scomparso?
Sono abbastanza lontano dalla linea ‘prosastica’ lombarda di cui il ligure Giovanni Giudici era uno degli interpreti più importanti. Recentemente ho ascoltato su Radiotre una lettura registrata, fatta dall’autore stesso di alcune sue composizioni: mi ha molto coinvolto. In quel dettato secco e cadenzato c’era una notevole forza di pensiero. Veniva fuori anche una sensibilità intensa e acuta tanto più vera quanto più trattenuta. Sono un italiano ‘centrale’, affascinato dalla grande tradizione lirica della mia terra, e dunque non sono molto vicino a Giudici, ma lo ritengo un poeta importante e significativo.
Qual è il titolo di una poesia, sua o non sua, che le sta più a cuore?
Due titoli miei: «Nel tempo che precede», che è una poesia de I luoghi persi e darà poi il titolo all’omonima raccolta successiva, e «La giostra». E poi «Le ricordanze» di Leopardi e «Davanti San Guido» di Carducci.
Se dovesse dare un colore alla sua produzione poetica, quale sceglierebbe?
Il verde. Il rosso rappresenta una carnalità diretta: mi sembra il colore più appropriato per i pittori. L’azzurro è il colore del cielo, dovrebbe appartenere soprattutto ai musicisti: i più geometrici e astratti. Il verde sta tra cielo e terra: dovrebbe essere il colore dei poeti. Comunque mi piacciono tutti e tre i colori, ed anche gli altri. Ci sono poeti esclusivamente ‘mentali’: scrivono per sinopie, in rigoroso bianco e nero. Preferisco i poeti che amano le luci ed i colori. Sottolineo il carattere un po’ giocoso della mia risposta.
Per qualcuno una recensione dev’essere l’equivalente di un «pot de confitures»… Per lei, qual è il senso della recensione?
Per me una recensione deve raccontarci un libro e non esimersi da un giudizio implicito od esplicito. Il giudizio deve essere pronunciato sulla base delle coordinate dell’autore preso in esame, evitando, per quanto è possibile, di appropriargli le nostre. Niente è mai assolutamente oggettivo, ma la recensione deve mirare ad essere la più equilibrata ed onesta possibile. I ‘soffietti’ amicali o le stroncature interessate sembrano invece dominare in troppa parte della critica italiana. E poi gli errori ci sono, ma non debbono essere voluti e premeditati.
Quali sono, secondo lei, le vere qualità del saggista letterario? L’immensa cultura? Il desiderio di possesso, il dono analogico, l’arte delle connessioni, una sottigliezza persino tortuosa, la freddezza mentale, il fiuto del poliziotto che insegue dovunque le tracce del criminale, il dono psicologico, quello che Poe chiama «il metodo di Dupin»?
Le varie qualità non si escutono fra di loro, ma si integrano. L’immensa cultura aiuta, ma non è sufficiente. Il critico è un creatore come lo scrittore: si tratta di un’altra forma di «intelligenza intuitiva». Questa particolare forma di intelligenza deve essere messa al servizio del testo letto e non deve muoversi su una linea egotica e solipsistica che risponda solo alla vanità del recensore. Il fiuto parte da una qualche forma di partecipazione e di vicinanza all’oggetto fiutato. Solo così si può cogliere il senso di un’opera: ma il fiuto è anche uno strumento pericoloso che ti può condurre su strade assolutamente false. Va dunque controllato con l’immensa cultura e con una buona dose di freddezza mentale. E non ci si spaventi della contraddizione: gli ossimori costituiscono spesso la verità delle cose e delle parole.
Avrà conosciuto senz'altro molti poeti: ce n'è qualcuno in particolare con cui stabilì una profonda intesa culturale e affettiva e di cui conserva viva memoria?
Con Fabio Doplicher ho organizzato una serie di importanti incontri ad Urbino e a Fano alla fine degli anni Settanta e nei primi degli anni Ottanta. A lui debbo molto: è stato il poeta triestino che mi ha introdotto nell’ambiente letterario e mi ha fatto conoscere varie persone.
Con Franco Scataglini ho passeggiato tra le siepi di pitosforo e di alloro di Portonovo. Su Mario Luzi ho girato un documentario per la Rai3 delle Marche. Con Giorgio Caproni ho letto a Vienna.
Tanti nomi anche tra i più giovani. Dal tenace e assorto Milo De Angelis al solare ed ellenico Giancarlo Pontiggia; e poi, ancora, l’umanità profonda di Franco Loi. Ripeto: con Fabio Doplicher ho lavorato, discusso, passeggiato, guardato il mondo per anni.
A cosa sta lavorando attualmente?
Ho terminato un romanzo ambientato negli anni della contestazione. Ricordo quel tempo né da pentito, né da apologeta. Ho l’ambizione di aver saputo cogliere l’atmosfera di quel primo periodo della grande rivolta ancora sostanzialmente ‘innocente’, ma già percorsa da un fremito di violenza e di assolutismo ideologico che sarebbe poi sfociato anche negli anni di piombo. E non c’è solo la contestazione, ma i dancing di Riccione, le fughe negli Appennini, la ricerca dell’avventura e dell’amore. Credo di essere uno dei pochi autori che è riuscito a rendere quegli anni. Continuo inoltre a scrivere poesie che si distaccano un po’ dalle Cesane e dalla «casa nel fosso», anche se i temi della natura e del ricordo rimangono fondamentali.
Va ancora volentieri al cinema? E i suoi film preferiti?
Ero un appassionato di cinema negli anni Sessanta: Ingmar Bergman e poi la Nouvelle Vague francese, i nostri grandi autori (Visconti, Fellini, Antonioni ed altri). Mi affascinavano anche molto i film esistenziali dei paesi dell’Est. Tra i russi, l’Andrej Rublëv di Tarkovskij è tra i miei preferiti. Tra i più recenti film italiani, mi ha molto colpito L'uomo che verrà di Diritti. Vado ancora volentieri al cinema ma più da spettatore che da interprete o critico.
Quale libro, oggi, la sta avvincendo?
Sto leggendo uno splendido libro di storia Guerra assoluta di Chris Bellamy. Racconta lo scontro titanico, con le più grandi battaglie della storia umana, tra la Germania nazista e l’URSS. L’autore, da buon inglese, non racconta la storia sulla base di simpatie ideologiche e di improprie ricadute sul presente. Questo saggio si legge come un grande romanzo. In questo momento è il libro che mi sta più avvincendo.
Segue con interesse i programmi televisivi? O la tv semplicemente la annoia, la subisce con indifferenza?
Stimo molto Piero ed Alberto Angela e seguo con interesse tutti i loro programmi. Amo molto i documentari di natura: in questo campo gli inglesi sono assolutamente i migliori. Mi piace anche La storia siamo noi, questa trasmissione non sempre è «molto oggettiva». Dire che Balbo è stato quasi sicuramente fatto fuori da Mussolini attraverso un voluto «fuoco amico» è una trovata molto più giornalistica che storica. Comunque nella sostanza il programma è buono. Seguo anche Floris e Santoro: i comici che introducono sono troppo banalmente e scontatamente anti-berlusconiani. Il programma più orrendo è Voyager di Giacobbo: una serie di indegne superstizioni propinate ad un pubblico spesso pronto a recepire ogni idiozia esoterica. Non seguo reality, balli e canzoni varie. A proposito di televisione, perché neppure il ‘colto’ Fazio ha mai invitato un poeta? E ha presentato Cassano non come un calciatore, ma come uno scrittore che ha procurato tutta la nostra invidia con il racconto delle sue settecento donne sedotte? In conclusione, nella televisione c’è un 80-85% di banalità e volgarità; il resto è fatto da discreti e, talora, buoni programmi.
L'intervista è stata realizzata nell’ottobre 2011.
Nessun commento:
Posta un commento