17 marzo 2017

«La maieutica valoriale di un’incessante narrazione. “Romanzo per la mano sinistra” di Giancarlo Micheli» di Carmen De Stasio



Ogni civiltà, nella propria fase decadente, negli anni senili della propria esistenza storica, finisce per mutarsi in una qualche specie di ottuso apparato di distruzione, un pervasivo ed estremo strumento di morte.
Giancarlo Micheli

In una fluida narrativa per evidenze, Romanzo per la mano sinistra di Giancarlo Micheli (Manni, San Cesario di Lecce 2017) consolida l’impressione di continuità antidiegetica propria del territorio umano, confermandosi libro-luogo, in cui a decidere di efficace memorabilità è l’annullamento delle credenziali assimilate per tradizione in forza di una carica che muove da un appassionante impegno, teso a ricomporre le salienti fasi di una storia sovente dimentica di se stessa, che l’autore tiene fuori da qualsiasi possibile collasso euritmico e parziale. Nella flessione severa degli eventi, la scrittura paratattica si affida a gesti dinamici, ai vasti significati intrinseci, mediante i quali giunge come sfida alla lacerazione avvertita quale esperienza capace di aggregare tanto l’intimità dei personaggi che la loro concretezza, in una figuratività metafisico-astrattiva che delinea la coesistenza di linguaggi in continuo bilico tra presenza decisa e dissolvenza alla maniera dei sogni, nei quali avviene «l’appagamento dei desideri» (S. Freud). Ed è con animo critico che l’autore in un certo qual modo ‘intervista’ la storia nelle sue puntualità intellettuali, senza mai trascendere in una solarizzazione emozionale suggestiva, pur nell’aleggiante senso di privazione che ivi alberga in un tempo totalmente dominato da una precarietà tuttavia inadatta a sgominare la speranza, pur vitale nelle resistenti difficoltà di ordine pratico. La costruttiva narrazione s’investe così di un carattere caparbiamente volto ad alterare l’orientamento per via di un «passato che mormora nelle corrispondenze» (W. Benjamin, «I “passages” di Parigi», in Id., Proust e Baudelaire. Due figure della modernità, Cortina, Milano 2014, p. 9). Stefan scrive nella lettera al figlio Bruno in Romanzo per la mano sinistra:

Ho deciso di narrarti, dapprincipio, della donna che, adesso mentre ti scrivo, ti porta nel grembo. Spero ciò ti sia viatico affinché tu giunga, in un giorno che tardi abbastanza perché non ti capiti di rimpiangere prematuramente il tempo che pure perderai vivendo, a fare la felice esperienza in cui le tue parole toccheranno l’anima di un altro, un tuo simile, grazie al cui libero ascolto esse prendano il loro senso, proprio e particolare, tale da renderle fulgide di tutta la luce che un’esistenza umana getta sul mondo, dal suo principio alla sua fine attraverso le epoche e le generazioni. (p. 37)

Dalla commistione dei casi – ritratti di circostanze dall’apparenza talora fortuita, che tracciano la rotta (sovente senza una consistente volontà personale) intrapresa dai componenti il medesimo nucleo familiare (personaggi portanti sono Stefan Bauer, Adele Ascarelli, sua moglie, e il figlio Bruno) – si penetra l’intimità di un’epopea che scansiona le protuberanze territoriali per evolvere in una sorta di unicità simultanea, che dilania le diversità dei luoghi nel loro valore astrattivo. Pur provenendo da realtà diverse anche dal punto di vista sociale (Stefan è austriaco, Adele ha le sue radici in una prestigiosa stirpe industriale napoletana), ciascuna porzione minimale trasporta i segni delle tante storie che, sebbene stagliate su orizzonti dall’improbabile legame, confluiscono in un intreccio di verità e invenzione dagli effetti sapienziali, dove svolte interlocutorie dirigono una prospettiva sottoposta a incessanti (ri)elaborazioni. È comprensibile che da parte dell’autore sussista il rifiuto ad adeguarsi all’elaborazione di un impianto ripetitivo, all’interno del quale strutturare la sua invenzione narrativa, recepita nell’attraversamento lento e deciso di territori noti. Di fatto, Giancarlo Micheli con strenua energia da essi estirpa le vicende dalla polvere, perché diventino centri di diffusione di una meta-vicenda che, svoltando da una situazione unifamiliare e adiabatica, valica luoghi, tempi e situazioni, in una convergenza che s’arricchisce di particolari e che, infine, coinvolge integralmente il lettore, il quale, quindi, dal suo punto mobile, si ritrova a concepire se stesso nella posizione di osservatore indiretto di una dettagliata corrispondenza sulla quale aleggia la condanna dell’essere ebreo.

L’addensamento dei frammenti in un’irrisolvibile maieutica comporta tanto la co-agenza di personalità realmente vissute che il loro riferimento (spesso indiretto) ad ambienti e posizioni, se si vuole, dissociati tra loro. Distolti dalla dimenticanza e «spronati a partecipare ad un epocale rinnovamento dello spirito e delle fondamenta concrete dell’esistenza» (p. 86), ciascuno compare senza fusione alcuna in un’identità a encausto, epperò tendente a una conclusione retriva rispetto al principio di evoluzione che, d’altro canto, dovrebbe assicurare l’immanenza dell’individuo («Ma la memoria funziona con la sua logica. E se tutto è cambiato era per rivelarci infine quanto ci assomigliamo», avverte il poeta V. Vassilikos). Va a stabilirsi così un rapporto reale in continuo accadimento dal carattere eponimico, che si dilata e si restringe in misura delle situazioni in una perturbabilità mnemonica comprensiva. Scrive Stefan al figlio:

Se, come spero, ti sarà stato possibile leggere queste mie memorie, adesso sarai venuto a conoscere qualcosa riguardo a me e a tua madre; noi non saremo più figure vuote e vaghe, di cui si suppone l’esistenza soltanto sulla base di freddi argomenti logici, per quella naturale simpatia secondo la quale l’intelletto coglie le similitudini del proprio essere con quello altrui; nei tuoi pensieri le nostre immagini saranno ora rivestite di un poco di quella carne che crebbe nelle nostre passioni e nei nostri sentimenti, per te non saremo più meri spettri, ai quali poni le domande cui attendi responsi invano. Adesso, forse, comprenderai le nostre scelte e, magari, proverai un qualche legittimo orgoglio ad averci avuti quali genitori. (p. 87)

Nonostante l’incipit traduca un solingo punto di concentrazione intenzionale, l’impianto ricercativo generato da Micheli assume le fattezze di un fulcro mobile che si amplifica in una parabola in rotazione nello spazio, conseguendo un’oggettività prospettica altrimenti esauribile in un tempo che sbaraglia, perché è «un tempo che si muove» (C. Levi) in una movenza metaforica che ritengo ricondurre alla volizione (talora esistenziale) della dimenticabilità. Eppure, quel movimento non riesce a divincolarsi dall’incessante pericolo di motivarsi ostacolo a se stesso, se nel poi tutto ritorna nelle accusatorie vestigia, rapprendendosi nei colori di una localizzazione che, pur diversificata e sommariamente scelta, si disperde nell’accumulo di frantumi insignificanti nell’orbita della macro-sceneggiatura esistenziale. Lungo una siffatta traiettoria, l’impegno di Giancarlo Micheli trasla l’arendtiano «padroneggiamento del passato» in «forma di una incessante narrazione» (H. Arendt, Antologia. Pensiero, azione e critica nell’epoca dei totalitarismi, Feltrinelli, Milano 2011, p. 225).

[«] Questo è il principale intento della superficialità: far apparire la sapienza, invece che nello sviluppo del pensiero, piuttosto nell’osservazione immediata e nell’immaginazione accidentale; far dissolvere, quindi, la ricca membratura dell’etica in sé, che è lo Stato, l’architettonica della sua razionalità [»]. (p. 47)

Da qui il sentore di una storia che si rigenera nelle composite scoperte. Nella possente natura antonimica, le scoperte sconvolgono, sedimentano tracciati moltiplicabili, e mai collaterali, per ritrovarsi in una conclusione predestinata a una nuova, esclusiva estensione che pure vaga in un’eterna e prodromica provvisorietà, il cui segno asfittico è nell’«aforisma strindberghiano per cui l’inferno non sia altro se non il mondo in cui viviamo» (p. 595). E di moltiplicazione si ravviva il romanzo, agitato dalla memoria di un paesaggio che porta scolpiti i segni di una vicenda universale.

Nella primavera del 1937 passai le vacanze nel salisburghese ed ebbi modo di fare un’escursione fin lassù, nei pelaghi dell’aria in cui la roccia però affiorava ancora del tutto nuda, intatta dall’opera umana, dove lo spettacolo del volo delle aquile si offre in circostanze davvero maestose e impressionanti, soprattutto nelle giornate limpide, quando una luce tersa e cristallina incide quasi un’aura risplendente attorno alle ali e alle piume dei fieri animali; sui loro contorni ritagliati nell’azzurro apre come una fulgida ferita, tanto che si sia vinti da un orrore intimo e vertiginoso se l’empio occhio della bestia brilla, per un istante, nel tremore del tuo; in un attimo incommensurabile si contempla la sofferenza che dalla sua glaciale pupilla è rigettata su ciò che è altro da sé, annientata, soppressa ben prima che un istinto indifferente e predatorio l’abbia mai concepita; in un attimo incommensurabile si contempla la sofferenza che dalla sua glaciale pupilla è rigettata su ciò che è altro da sé, annientata, soppressa ben prima che un istinto indifferente e predatorio l’abbia mai concepita. (p. 7)

Evidente che il clima oscilli simultaneamente in un’alternanza di frenesia e sobrietà, nell’assenza di anacoluti o espressioni iperboliche; in un flusso continuo che trattiene – per poi convertire in rapida successione – il vitale bisogno di sapere senza che all’infine corrisponda un’occlusione. In quanto documentale e, pertanto, sfuggendo alla tendenziosità, l’opera calibra una struttura investigativa che riempie spazi oscurati dalla sottrazione sconveniente; riconquista identità («La verità non può essere consuetudinaria») e, anche quando l’identità appare grama e improvvida, continua in un’intelaiatura di fatti dalle temperature mutevoli, collocate in un giogo di estremizzazioni che non lascia tregua al ristoro, né però converge in disperazione.
La verità non può essere consuetudinaria. In natura, la totalità dell’esistenza è fondata sulla metamorfosi, l’inesausto mutamento delle forme e delle sostanze. Discipline quali la matematica, o perfino il diritto positivo, stanno a dimostrare come la coscienza umana abbia nutrita in sé la salubre ambizione ad emanciparsi da parvenze ed efferatezze, da ciò che ne vincola l’evoluzione ad un’indole la quale ha nondimeno creduto di possedere meschina, vile ed accidiosa. (p. 488)

Diversamente da come ci si attenderebbe, espandendosi all’indietro come memoria di memoria e, al contempo, nella versatilità dei tanti presenti nella loro energia rivelatrice, le immagini mobili consentono l’accesso alla rilevanza situazionale, tanto da misurare la modalità di lettura in un equilibrio di ineluttabilità e circostanza palesate in effetti prodromici che, in ogni caso, dissipano la velatura costrittiva, divenendo storia narrata e auto-narrante, riconoscibile e riconducibile. Scrive Stefan a Bruno:

La civiltà inizia soltanto quando qualcuno si decida ad agire non solo per affermare le proprie ragioni ma anche quelle di un altro; fino ad allora, esiste solamente la barbarie, che vuol perpetuare sé stessa e distruggere tutto ciò che le è estraneo, la quale poi, allorché ci si persuada – e purtroppo capita spesso nelle fasi della storia come pure nella vita di ogni giorno – che le proprie credenze, per forza o virtù di un presunto ordine superiore, debbano coincidere con quelle di tutti e di ciascuno, degenera infine in una catastrofe ancora peggiore, che non conosce freni né discernimento e volge i conati della propria violenza contro il mondo e contro sé stessa. (p. 349)

Tanti e svoltativi, dunque, i protagonisti dell’intera storia intervengono nelle movenze in cui la riflessione del lettore s’immerge, ne ausculta le parole dalla valenza di luogo interattivo. Il meccanismo così organato dà modo di accedere a un continuo giro di vite, in cui confluiscono tanto i dati risaputi (e convenzionalizzati) che quelli potenziali, adattati secondo una tecnica che, infine, ripiana le alterazioni procurate non già da un torbido progetto di avvilimento, quanto dall’egemonica attrattiva dell’economia di sintesi, della quale responsabile sembra essere l’impoverimento di una collettività in conseguenza di un progressivo indebolimento linguistico. In maniera pressoché fortuita, dalla tessitura emerge la deviazione scientifico-tecnologica del sapere a sostegno di un avanzamento della condizione di massa critica che, nel suo universo perturbato, fagocita ben altri schemi, tesi a un costante tradimento. Un’entropia consapevole. Su questa linea il romanzo pare avvalersi di una struttura filo-scientifica, giacché: «Se un libro che leggiamo non ci sveglia con un pugno sul cranio, a che serve leggerlo?» (F. Kafka, «Lettera a Oskar Pollak, 27 gennaio 1904»).

Si accede così a un macro-mosaico di tessere misurabili, sia nel rigore che nella vulnerabilità, sulle quali intervenire per verificarne l’esistenza (e non il valore, derivante dalla visualizzazione stessa dell’evento, stando al Principio di verificabilità di M. Schlinck) e riconoscerne la plasticità strutturale attraverso il piano congegnato delle parole – vere e proprie molteplicità problematizzanti – in una forma austera, che si appella alla corrispondenza tra antico e moderno all’interno di un frammento di ricordi dai contenuti precisi. E, di fatto, è nel clima inclinato alla progressiva meditazione che avviene la rinuncia all’epidemica potenza seducente dell’intonazione. Ed è esattamente dalle sonorità soffuse e quasi solo accennate che l’articolazione narrativa, alla stregua di una sinfonia shostakovichiana, apre agli accadimenti con un lessico autorevole, autentico, maieutico, in grado di scavare nelle segrete stanze che risorgono nelle trame esteriorizzate delle intenzioni. In tutto ciò è l’insistenza di una neo-formativa educazione di stampo cultural-linguistico, la cui forza è declinata a instillare decisività allo scenario, in una cornice d’indipendenza che non ne altera la consistenza. Esiste, dunque, un’interferenza continua procurata dai subissanti quesiti che, nelle retrovie, Giancarlo Micheli pone al luogo dei fatti, là dove le informazioni non siano aggiogate all’esausitività e all’esaurimento. Una storia molteplice, come già scritto, e che, pur raccontata al passato, pare emendare un’attualità complessificante e tutt’altro che congestionata; che avvicina e distanzia a un tempo con movenze perfettamente equilibrate, alla maniera in cui ci si accosta a una fotografia dimenticata e dalla quale i soggetti traspaiono nelle loro identità vulnerabili, in un presente transitorio eppure intrappolato in un’incomprensione capitale. Ed è all’insegna dell’innocente inconsapevolezza la conferma alla definizione attribuita dall’autore al protagonista principale – Stefan Bauer –, eroe sensibile alla prospettiva di una risoluzione finale dal tratto edenico, benevolo (incosciente di quella antitetica Endlösung – la soluzione finale hitleriana) alla maniera di Giuseppe in Egitto.

«Quando, due estati fa, leggevo Joseph in Ägypten sul balconcino dell’appartamento che avevamo in affitto a Padova, non avrei mai immaginato di dover presto attingere le stesse mete delle perigliose peregrinazioni del protagonista.» (p. 249)

Ma la letteratura è un inganno se pensata come solutoria nel sogno-aspirazione, all’insegna (e in conseguenza) del quale Stefan – giovane psichiatra coinvolto nelle sue letture e nella ricerca (pericolosa in un periodo di persecuzione razziale) sulle potenzialità oscene di una mente malata – resiste, in una particolarissima realtà evocativa, come una panoplia collettanea di tante parti (psichiatra a Leopoli, impiegato a Cinecittà, compagno con incarico alla sede del Partito Comunista a Milano, incarcerato e pure accusato di tradimento). Nella sua panoplia, Stefan si avvia verso la prospettiva della salvezza propria, della sua famiglia e di tutta una collettività stordita e genuflessa da un’incomprensibile umiliazione.

Il guerriero ideale è colui che ha tagliato il nodo gordiano di consimili dilemmi: egli avverte ovunque, in sé stesso non meno che nell’universo circostante, il conflitto, nelle cui alterne vicende agisce sapendosi conservare incolume ed imperturbato. Quanti, invece, alla metà del ventesimo secolo avevano ricevute dal prossimo loro le convalide sociali spettanti a chi ricoprisse le massime responsabilità militari erano uomini capaci di offrire ottime credenziali in merito al fatto che, alla bisogna, non si sarebbero astenuti dalle estreme regressioni ferine né dalle ultime sofisticazioni della crudeltà, in ciò a pieno giustificati in grazia di un manifesto amore del quieto vivere, senza che mai disdegnassero, ad onore di suppletiva garanzia, la pratica delle tradizionali virtù borghesi, […] Stefan Bauer, è ovvio ed assodato, non apparteneva né all’una né all’altra di codeste esclusive categorie. (p. 488)

Di fatto, nelle sue tribolazioni Stefan incarna l’eroe del sogno che trova nutrimento nei modelli percorribili della cultura, che appaga la pura velleità di conciliare la sua esistenza (fortemente instabile in un tempo assolutamente destabilizzato) con il tragitto svolto da Joseph in Ägypten di Thomas Mann nell’illusione giovanile. Stefan è piccolo uomo adattato nelle tante vite consapevoli e la realtà è grama e il tempo non è quello auspicato dall’impegno intellettuale: sulla sciabola dell’orizzonte torna fremente l’appartenenza ebraica a decretare il destino, sicché le parole deviano verso i frantumi di un’umanità vitale, ma dissacrata da più parti sebbene non ancora impedita a sperare. Scrive Stefan a Bruno:

[V]oglio ricordarti […] ciò che Niccolò Machiavelli scrisse nel quindicesimo capitolo del suo Principe: colui che lascia quello che si fa per quello che si doverebbe fare, impara più tosto la ruina che la preservazione sua, perché uno uomo, che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene ruini infra tanti che non sono buoni. Il tempo in cui io e tua madre abbiamo vissuto l’età matura era ben poco incline alle virtù, le asprezze della lotta per la sopravvivenza ed i più vili istinti trasparivano fin nelle banali vicissitudini quotidiane; perciò, fummo indotti a credere che non ci sarebbe stato in alcun modo consentito di rifugiare nei sereni asili delle occupazioni spirituali. (pp. 86-87).

In questo senso, le parole stravolgono e travolgono; cadenzano le movenze degli scenari ricomponendone schemi di complessità radicali; favoriscono la ricomposizione netta del quadro storico attraverso corrispondenze intimizzate di personalità riconoscibili e provenienti da ambienti assai diversi. La loro presenza assume un valore particolare nella continua biforcazione: l’una rigettata nello stolto non-vedere; l’altra disposta all’affaticante conquista di un’identità all’interno di uno schema degenerativo che non solo investe la comunità sottomessa al totalitarismo, inteso quale potere politico deviato, e alla plutocrazia che pure deriva da intenzioni progressiste e che si affligge nelle fagocitanti incrinature di una tecnocrazia invalidante. In tutte le sue forme, il totalitarismo è figura pleocroica e suasiva. Nessun tempo e nessun luogo ne sono immuni: «sia pur appena larvate speculazioni sul tema del sosia o del doppio qual era premeditato dall’ormai classica dottrina nietzscheana dell’eterno ritorno o desunto in recenti e neglette teorie riguardo alla riproducibilità tecnica di ogni oggettiva estrinsecazione dalla quale si possano ricavare testimonianze di umanità nel flusso fenomenologico delle esistenze» (p. 90). In una spazialità comprensiva dell’al di qua e dell’al di là dell’oceano, le situazioni esternano parvenze di carattere sociologico e, in un linguaggio idosemantico, incidono su un devastato auspicio di miglioramento. Così pare sia scritto, se anche il Maestro Freud «in calce al trattato Das Unbehagen in der Kultur, ritenne di esprimere la sua geniale intuizione per cui le varie civiltà finiscano per manifestare i sintomi di nevrosi collettive proprio a causa dei loro stessi sforzi di incivilimento» (p. 115). Ad ogni modo, tali parvenze possono essere almeno smascherate nell’interpretazione maieutica di una condizione di eterno e diffuso amore che via via s’ingigantisce in inopinata ierofania, consentendo agli spazi costantemente rigenerati di rivelarsi nel diaframma documentaristico di modelli di reciprocità in sospensione del mal-animo: a loro Micheli si affida per valorizzare l’esistenza tattile di un’irrefrenabile, umana convergenza metonimica, inspiegabilmente defraudata della sua interezza. Come afferma la princesse Marie Bonaparte:

[«] A mio modesto avviso, è altrove, piuttosto che non negli istinti aggressivi ed omicidi, che si può intravedere e riconoscere il volto di un’umanità infine evoluta, i cui tratti un’indole quale la mia è portata a ricercare nelle miti fisionomie di quanti si dedichino alla scienza, alle opere dello spirito, alle arti che, un tempo, si chiamavano liberali, non certo nei sembianti truci e cupidi di morte di generali, marescialli o fabbricanti di cannoni. No, caro signor mio, la guerra è, solo e sempre, una sciagura; non esistono argomenti che la giustifichino. [»] (pp. 106-107)

Innegabilmente, Giancarlo Micheli recupera la preoccupazione riguardo la condizione umana che pur cambia di orizzonte temporale, ma trascina se stessa nella somiglianza reiterata di un’oscura speranza pur in seno a un ambiguo ambiente, in cui urbanità non sempre coniughi un degno senso di avanzamento tecnologico, né reciproco rispetto rappresenti una condizione universale di progresso. Epperò, su questo fronte, dalla folla pressante di indifferenze è possibile rinvenire figure che ben rappresentano la convergenza umana (che in precedenza ho definito nel suo aspetto metonimico) ed è per loro che da parte dell’autore sembra propalarsi l’impegno a forgiare uno stile marcato da sinusoidi lievi, che gravitano provvide lungo l’arco imponente del romanzo. In particolare mi sovvengono la princesse Marie-Félix Blanc in Bonaparte e la contessa Karolina Lanckorońska. Marie-Félix Blanc è allieva devota di Freud – nel 1926 collabora alla fondazione della Société Psychanalytique de Paris, – animatrice di interventi contro la scelleratezza dell’individuo nel solipsistico vagheggiamento di totale potere quale impedimento, piuttosto che di potenziamento sociale. Di pari grandezza è la contessa Karolina Lanckorońska, che il lettore incontra dapprima nel suo rigore autorevole di apprezzata storica dell’arte e, senza reticenza alcuna, ostile al regime nazista, e poi artatamente ossequiata prigioniera a Birkenau, dove svolge il ruolo di Stubenälteste nella baracca dove sono confinati Adele e il piccolo Bruno, nel periodo in cui «Bruno era un bambino molto sorridente, […] purtuttavia capace di relativa obiettività» (p. 379), passando dalla fase in cui, ancora infante, «Bruno capisce dove abbiano realmente abitato il padre e la madre di suo papà: non in vetta ad un Olimpo, quale ha saputo inventarlo sulla stregua delle parole della signora Orvieto, bensì in fondo alle rovine di quello, nella terra rivoltata dalla ferocia che solo l’uomo sa usare contro i propri simili» (p. 380). Karolina accompagna Bruno fino all’età intrisa di consapevolezza, al suo presente. Bruno, ormai adulto, si rivolge alla contessa Karolina:

[«] Forse di ancora maggiore sollievo sarà per lei apprendere che quanto mi ha raccontato tempri il mio convincimento che nel mondo attuale sia giusto e necessario combattere l’ordine dispotico che modula l’immanente dissimulazione di sé secondo lo sviluppo cognitivo differenziale delle proprie soggettività, osteggiare con ogni mezzo un sistema che sacrifica la vivente opera dell’uomo a profitto delle tombe del capitale, subordina il lavoratore alla macchina. [»] (p. 621)

Nella prospettiva, Karolina rifulge per le certezze riguardo all’impegno dell’uomo. Nuovamente, nessuna illusione: di fatto dall’altra parte della realtà vivente – che non è capovolta, ma s’impregna di quelle che non già sono contraddizioni declinabili, quanto risvolti dello stesso territorio umano – ci sono le schiere multiformi dei rappresentanti dello stravolgimento polisintetico dell’humanitas. Nelle loro decisioni alberga la cupa risposta. Tra costoro spiccano i responsabili del Progetto Euthanasie e del Progetto T4, «dedicato a risolvere il problema dei pazienti di maggiore età cui fossero state diagnosticate malattie congenite o ereditarie invalidanti» (p. 416).

Data la coscienziosità metodologica delle ricerche, dopo aver appurati con scrupolo i parametri fisici al contorno tali da causare la morte per assideramento e misurate le temperature corporee interne corrispondenti al decesso in un numero sufficiente di casi, dimodoché fosse possibile stabilire, con margine d’errore statisticamente irrilevante, il valore di soglia pari a ottantadue virgola cinque gradi Farenheit o ventotto Celsius, soltanto allora si era passati a studiare funzionalità ed efficienza dei vari sistemi di riscaldamento (p. 416).

Spingendosi, in un avvertimento, nell’intrico segreto nel quale accoglie il lettore, l’autore più volte a lui si rivolge con intimistica familiarità: «Il lettore non vorrà avere la intemperante pretesa di precedere simili illustri personaggi. Ceda loro spazio, dunque; […] si appaghi della propria personale gentilezza, che è il primo passo verso la bontà, e di sapere di non sapere, che è il primo passo verso la conoscenza» (p. 189). Non basta. Nell’approccio indagativo l’autore non dimentica i facinorosi (penso all’ex sacerdote antisemita Giovanni Preziosi o a Pietro Koch, capo dell’omonima spietata banda). E ancora: sorvolando l’oceano, ci si trova nelle segrete stanze dei detentori della tecnica coniugata senza mezzi termini con progresso. E così conosciamo da vicino gli scienziati del Progetto Manhattan, tra i quali Robert Oppenheimer, intrapreso nell’«esaltante sensazione di immedesimarsi […] al divino Krishna, nell’atto di pronunciare la frase “io sono la morte, il distruttore dei mondi, giunto a compiersi, che adesso agisce per rovesciare i mondi”» (p. 580). Da loro giunge, ebefrenica, la sentenza secondo cui «sarà compito […] dei vari anonimi mandanti che siedono nei consigli di amministrazione delle industrie belliche, tenere i rapporti con le istituzioni civili e militari dell’Unione, consigliare quale debba essere l’uso proficuo ed efficace dei risultati delle nostre ricerche; l’unico scopo che noi siamo chiamati a prefiggerci inerisce, invece, alla soluzione dei problemi tecnici» (p. 399).

[«] Nessuna speranza per i sognatori, fuorché non abbiano la patologica tempra d’un Hitler. […] L’illusione, intimamente coltivata in ciascuno, di autodeterminare la propria esistenza individuale, si somma nella risultante di una necessità collettiva, che sospinge tutti verso una stessa catastrofe […]. È il capitalismo, bello mio! [»] (p. 383)

In questo clima di azzardo, il protagonista, Stefan, indirettamente passa lo scettro di eroe a Bruno: entrambi involti in un’amara consapevolezza, ma non tanto da protendersi al lettore, libero di operare proprie proiezioni interpretative e intuitive nell’agio di una visione globale-generativa. In presa diretta, scavalcando la crono-storia, Giancarlo Micheli sollecita a penetrare i vari luoghi di Stefan per il tramite delle missive indirizzate al figlio Bruno e che Bruno legge in una simultanea sceneggiatura di corrispondenza tassonomica tra le parti, all’interno delle quali echeggia un fondamentale proposito: pensare al romanzo non già come luogo di concludente inizio e fine, ma come metatesi crescente e formativa, realizzata da più individualità in un’inclinazione meta-storica tentacolare, dalla variegata e sofferta ricercatività in grado di sostituire alla fissità un montaggio che molto deve alla complessità cinematografica, per approdare, infine, all’intendimento, gravido nel terzo millennio, a concepire una programmazione che si sviluppa attraverso le tappe conseguite sotto l’egida trainante di un titolo colto dalla popolare saggezza dei proverbi – Quanta verità in «Bisognerebbe esser prima vecchi e poi giovani»! (p. 562) –. Per certi aspetti, in questo modo la cronostoria si dissolve per lasciar libero un territorio polisintetico, proiettato in una modulabilità reticolare che districa le distanze in un linguaggio coerente e coeso e che, nel volgere continuo a una geometria progettuale, avalla la spiegazione del «noto attraverso l’ignoto» (K. Popper) in una ricombinazione di non-separabilità. In un passo del romanzo Anna Freud, studiosa e figlia del più celebre Sigmund, si rivolge all’amica Marie Bonaparte:

«Io credo che, dinanzi al cumulo di macerie sotto al quale la storia schiaccia la vita presente di tutte le epoche, l’unica forza valida che debbano opporre le persone come noi, che hanno appreso a glorificare l’opera dell’intelligenza e del cuore umano, ogni giorno con la stessa tenacia e meraviglia di cui i bambini ci danno insegnamento, sia la quotidiana perseveranza nel lavoro analitico, foss’anche il costrutto che ne traggano di aver ampliato i limiti della conoscenza di una quantità tanto esigua che né un’unghia né un capello, peraltro, potranno mai misurare.» (p. 514)

Giungiamo pertanto a dare una particolare e ultronea definizione di romanzo-montaggio, che investe tanto la molteplicità degli stili di conduzione scritturale – epistolare, naturalistica, cerebrale, neo-realistica, positivista e immaginativa – che la molteplicità (e moltiplicabilità proiettiva) dei linguaggi al di fuori di qualsiasi volume monotetico che, nel puntare su un luogo soggettivo, renderebbe esclusiva una prefigurazione totalmente generica e distrattiva. Nutrite e corpose, al contrario, le tematiche si dipartono da un unico punto luce per proseguire senza rallentamenti lungo determinanti deviazioni, implicando a un tempo i presenti individuali attraverso le rotte della rappresentazione ambientale che rifulge di stupore nella narrazione in flashback e che, in una maniera particolare, disturba la linearità da una posizione diafasica, perturbabile e che ben presto accarezza il lembo minimale di comprensione: «il progresso della conoscenza non tollera rigidità» (S. Freud). Questi cenni non sarebbero bastanti senza l’intervento diretto dei protagonisti tutti dell’intera trama, estesa su pagine che trasudano di sciolta compiutezza lessicale, strettamente legata alla scaturigine del concetto. Queste pagine aprono a un appuntamento con una diversa immaginabilità descrittiva e sollevano velature rispetto a quanto, nella rilettura occorsa nel tempo, avviene, scompigliando e sottraendosi alla tirannia dei legami subliminali dissolti. Comprendiamo che la coscienza possa esser conquista per chi lo desideri, nonostante il progetto riservi non poche difficoltà. Ma in esame è la capacità non già fine a se stessa del conoscere (E domani? – verrebbe da chiedersi, prendendo in prestito il titolo di un’opera di B. Russell), quanto i procedimenti del conoscere e le pulsioni scatenanti nel prima, nel durante e nel dopo. Certo verrebbe da pensare che il punto di osservazione migliore sia nel porsi a distanza come esercizio efficace, nel quale la rapidità di cambiare orizzonte corrisponda alla diversità di contenuti esposti nel loro evolversi senza sforzo, soprattutto perché distinti nella severità dell’impianto che a nessuna forma di emozione lascia spazio. C’è troppo da sapere e la potenza astrattiva degli attributi potrebbe rendere pericolante l’impianto oggettuale dell’intera struttura, organata secondo una tassonomia fluida, dirompente, mai evasiva; carica di tale tensione che – nella metafora di una composizione priva di interruzioni – squarcia l’oscurità e spalanca a una memoria generativa priva di cesure e censura. Lascia, dunque, Micheli al lettore conscio la probabile e autocostruttiva conciliazione di tutte le porosità in una prospettiva a largo respiro, che giammai indugia sul fragoroso virtuosismo, né su anacoluti diversivi. Tutt’altro: l’autore sottopone la traiettoria a repentini e significativi cambiamenti, riuscendo a scavalcare la consuetudine per il tramite di una centralità continuamente spostata e tendente ad evolversi in una nemesi incessante.

Quand’anche al lettore non si rivelasse ancora per intera la cruenta oscenità mimetica del potere, umano, sovrumano o troppo umano, a seconda della particolare indole di ognuno, voglia sentirsi in debito di comprensione nei confronti dell’eroe del romanzo, […]; considerato che nessuno intercede presso di lui affinché compia un tale sforzo non indifferente, abbia la bontà di aggiungere, di propria spontanea iniziativa, condiscendenza verso il personaggio che il suo autore ha posto dinanzi ad un compito così difficile ed ingrato. (p. 534)

Da tutto quanto appare addirittura palpabile l’integrazione degli avvenimenti per mezzo di una pluralità d’energia che rafforza la geometria cinetica in un clima complessivamente apodittico. In un siffatto reticolato dal carattere pienamente cinematico, la puntualità lessicale e l’argomentazione ininterrotta intervengono ad affinare l’osmosi fertile tra presunte sovrapposizioni e contrappunti coordinati nella variazione ambientale, tale da sostenere la narrazione con una qualità tanto strutturante che convergente, con un affastellamento di casi mai orbitanti rispetto alla vicenda portante della famiglia Ascarelli-Bauer, sì che «tutto appare animato da spontaneità e ispirazione reciproca» (H. Richter, Dada. Art and Anti-Art (1965), Thames & Hudson, London 1997, p. 28). Si distanzia Giancarlo Micheli dall’aura illusoria di grandi speranze e nemmeno si arrende dinnanzi a una possibile (e solo procrastinata) resurrezione. Nonostante tutto, come già ampiamente argomentato, il turbinio inventa una struttura allotropica che mai evoca disagio e tormento. O, almeno, riesce caparbiamente a traslare il disagio in azione possibilmente salvifica.

Se non possiedi la certezza di avere davanti a te un complice, agisci nei suoi confronti come se egli debba infine comportarsi verso di te come un persecutore: la congruità di tale massima, che egli riteneva di aver verificata nelle coattivamente peccaminose condizioni generali della guerra, parve destinata ad ulteriore suffragazione nel prosieguo del colloquio. (p. 535)

Infine, nell’intricato macro-evento che è il vivere, avviene l’eterna smentita della promessa: l’illusione del mito futuribile spinge a credere a un domani riarso di giustezza che, tuttavia, s’imbriglia nell’ombra anonima alla quale, nella notte atra, ci si consegni senza preoccupazione alcuna. In tal senso, più che varato sull’intra-incomprensione umana, il libro ravviva un’invocazione a quanto incomprensibile sia la nebulosa che comprime le responsabilità tanto dell’uno che della massa: una sorta di play within the play shakespeariano, incaricato di un compito illustrativo efficace per estrarre schegge di riflessione dalla macro-nebulosa sceverata della storia conosciuta. In fondo sarebbe questa la risposta degli intellettuali, ma le parole sembrano non esser sufficienti a perorare la causa dello svincolo dalla tautologica esperienza che visualizza gli effetti e ne mostra compattamente gli scenari nascosti e/o ingannevoli, accanto a scenari compiutamente asfissiati da una memoria disgiungente. Si tratta di una tipologia di neorealismo analitico, dal quale l’autore qui e là si sottrae, poiché ne rifiuta il carattere predominante di transitorietà con il quale s’intende definire un tempo incerto, e questo rifulge e al contempo inquieta: il transitorio si afferma nella stabilità di un territorio continuamente violato, nel quale vien da chiedersi dove si sia nascosto l’individuo virtuoso. E quale, infine, il contributo al progresso dell’individuo nell’investigazione antropogenetica e filo-psicanalitica? Quale lo scopo della ricerca se tutto appare falso e scadente, continuamente alterato? In questa fase di sospesa attesa prolungata – perché le azioni di vitalità a essa volgono –, il tempo appare accumulo di cocci nella schietta autenticità. Insomma, un tentativo che propizia la presenza dell’autore all’interno del libro nel duplice ruolo di tessitore inventivo di trame portate alla luce senza manierismi e soggetto vivente nelle maglie epocali – testimone nel presente a dispetto del tempo che vanamente, pare, passi. Strumentalmente, in questo modo Giancarlo Micheli avvia un processo di rottura con la cosiddetta struttura narrativa della crisi, collocandosi in postura anticonvenzionale nel corso di un tempo d’impoverimento-irrigidimento delle conoscenze, per attingere alla costruzione di un senso invece globale, percepito mediante una corposa serenità culturale, ovverosia una forma d’immaginazione che recluta dalla verificabilità dei fatti il proprio archetipo e su esso imbastisce, a rigor di logica, quanto non già si comporti come potenziale. Immaginari, dunque, i dialoghi recuperano un’onestà che non è né antilusinghiera, né forzatamente ossequiosa, né, tantomeno, vibrante di cadenze tratte da qualsiasi paventata esagerazione. E tutto appare fuor che esagerata questa evoluzione delle strutture narrative: più che solo accompagnare, si auto-identifica in un kairòs metonimico. Promuove se stessa, nelle sue sfaccettature, in una mescolanza organata secondo una tetragonia che qualifica ad apparire consesso di storia e di storia parlante.




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