16 giugno 2013

“Dance and Poetry” by Alfred Corn



Mirth by William Blake from
John Milton's “L'Allegro”








In George Balanchine’s great ballet Apollo, choreographed to one of Stravinsky’s most ravishing scores, we see the god summon three Muses to assist in the invention of dance. One of these is Calliope, Muse of epic poetry; her presence stands as a symbol of the fact that choreographers have many times drawn on poems for themes to be developed into dances. Without giving an exhaustive catalogue, I’ll begin by mentioning Le Corsaire, based on Byron’s narrative poem and choreographed by Petipa in 1899. There is Fokine’s Le Spectre de la rose, drawn from a lyric by Théophile Gautier, as well as Nijinsky’s L’Après-midi d’un faune from 1912, which was inspired by the Mallarmé poem. And that same theme was thoughtfully updated in the early 1950s by Jerome Robbins in a work for the New York City Ballet. A few years earlier, Robbins had choreographed The Age of Anxiety, a ballet based on a dialogic long poem by W. H. Auden. Stepping back a decade, recall Martha Graham’s Letter to the World of 1941, whose title comes from the first line of Dickinson’s poem, “This is my letter to the World/That never wrote to me,—”. The work has two characters, named simply “The One Who Dances” and “The One Who Speaks,” the latter reading passages from Dickinson in the course of the dance. From the same years is Graham’s Appalachian Spring, choreographed to one of Aaron Copland’s most vital scores and drawing part of its inspiration from a passage in Hart Crane’s “The Dance”:
O Appalachian Spring! I gained the ledge;
Steep, inaccessible smile that eastward bends
And northward reaches in that violet wedge
Of Adirondacks!
In the tradition of story ballets, there is John Cranko’s elegant Eugene Onegin, based on Pushkin’s masterpiece and choreographed to music by Tchaikovsky for the Stuttgart Ballet in 1965. And then, bringing the topic up to our own day, we have the splendid example of Mark Morris’s L’Allegro, il Penseroso ed il Moderato, to the Handel’s score, a work using verses from Milton’s paired pastoral poems “L’Allegro” and “Il Penseroso.” Mr. Morris incurs a second debt to poetry (or at least to a poet) by borrowing from the 1816 set of pen and watercolor drawings William Blake made to accompany the Milton poems. Blake’s drawings suggested not only costumes and color schemes but also dance steps as well, which sometimes resemble the poses of Blake’s exhilarated or pensive figures. The resulting work, based on several artistic sources from disparate eras, is described by dance critic Joan Acocella (in her book Mark Morris) as follows: “So everything is there together, and bound together—the universe, the human race, and also the arts, for L’Allegro is a hymn to the unity of poetry, music, and dance: a story of how each . . . can follow its own laws and still harmonize with the others. The piece is also a hymn to the unity of history, for the poetry, music, and dance that are wedded in this piece are from the seventeenth, eighteenth, and twentieth centuries.” To that cavalcade of earlier eras, Ms. Acocella also appends the nineteenth century (because of Blake’s drawings) and finally reaches back as far as the third century B.C.E., when the tradition of pastoral poetry was first inaugurated in Hellenistic Alexandria.

We’re also concerned here with the complementary question, how poetry has drawn on dance—as religious ritual, performance art, or a popular pastime—for subject matter and for aesthetic cues. A vast topic, because the association of the two arts is as old as the Western tradition. Only think of the Psalms, the Bible’s most ringing praise songs—for example, Psalm 149, which exclaims, “Let them praise his name in the dance: let them sing praises unto him with the timbrel and harp.” Or, to turn to Greek tradition, recall (from Book 18 of the Iliad) the description of the shield that Hephaistos makes for Achilles. Among the subjects sculpted on it is an elaborate scene of dancing, with young men and women engaged a choral performance described this way: “At whiles on their understanding feet they would run very lightly,/as when a potter crouching makes trial of his wheel, holding/it close in his hands, to see if it will run smooth. At another/time they would form rows, and run, rows crossing each other./And around the lovely chorus of dancers stood a great multitude/happily watching, while among the dancers two acrobats/led the measures of song and dance revolving among them.” [Richmond Lattimore, trans., ll. 570-72; and ll. 599-605]

12 giugno 2013

«L'incubo ad aria condizionata», un racconto di Angela Bubba

Angela Bubba, in una foto di Roberto Nistri


Un pomeriggio in una libreria di Crotone, ore diciotto-diciotto e trenta, entro e dico buonasera ai presenti, non risponde nessuno. Non m'importa. Continuo a camminare e penso che è una bellissima giornata: dolciastra, moderatamente calda, col teatro dei burattini che fa rumore in piazza e i bambini che perdono sangue dai ginocchi perché correndo sono caduti; l'odore dei gelati ovunque, la luce roseoviolacea di tutto, la primavera già estate.

Il posto è fresco e quasi senza suono, oscuro quanto una chiesa.

Mi metto a girovagare fra gli scaffali con nulla in testa a parte un rumore come di frullatore in continuo movimento, una pala grande e invisibile che in qualche modo riesce a farmi sentire in procinto di scomparire, di essere rubata al mondo da una banda di zingari e venduta a degli sconosciuti che dovrebbero cambiarmi l'identità e tutto il resto per sempre. Per sempre. Non potrò più litigare con mia sorella, penso, non potrò più chiedere a mia madre se mi vuole bene e sentirmi tramortita un attimo dopo perché lei mi guarderà incredula e disperata e divertita, non potrò più dire “papà scusa se ogni settimana ti faccio venire qua a Crotone, scusa…”

Mi rigiro un paio di titoli famosi e osceni in mano, strascico i passi, infine mi blocco. Mi soffermo su un libro di Herny Miller intitolato L'incubo ad aria condizionata. C'è molto celeste sulla copertina, e soprattutto c’è bella stampigliata sopra la frase: “i ciechi guidano i ciechi: è il sistema democratico”.

“Perfetto” esclamo ad alta voce.

“Cosa?”

Un uomo basso e brutto alle mie spalle mi ha sentito e cerca spiegazioni.

“Niente”.

Mi allontano.

9 giugno 2013

«Conversazione con Roberto Calasso» di Doriano Fasoli

Roberto Calasso (foto di Ferdinando Scianna)

L'intervista a Roberto Calasso (in gran parte inedita), su uno dei suoi libri di maggior successo, Le nozze di Cadmo e Armonia (Adelphi), si svolse in una stanza, stipata di libri e carte, della sua casa al centro di Milano (un palazzo del Seicento) nel mese di ottobre 1988.

Come una narrazione tramandata oralmente, prossimo alle favole, alle leggende, ai canti celti dei Bardi è racconto inventato, senza fondamento storico, ma, piuttosto, è tradizione riguardante oscuri tempi antichi: così il mito viene definito. Ad essere sempre affascinato dai miti è Roberto Calasso, fondatore, insieme a Luciano Foà, della casa editrice Adelphi. Mito per lui vuol dire «una conoscenza che è già in sé sovrana, che non tollera un sapere che si pretenda ulteriore (normale atteggiamento invece dell'Occidente)»; e «le figure del mito vivono molte vite e molte morti, a differenza dei personaggi del romanzo, vincolati ogni volta a un solo gesto». Al mitografo poi non è permesso inventare nulla, il mito è una costruzione fatta di varianti ed egli può solo scegliere un percorso invece che un altro all'interno di queste varianti: a quel punto però, aggiunge Calasso, «deve dirle, deve raccontare la storia e dare lui il senso di questa storia. Perciò si ritrova, in realtà, a dover dar forma non meno di un romanziere che invece s'inventa, da zero, dei personaggi.»

Dopo L'impuro folle, del 1974 (ripensato oggi «come una specie di prologo a ciò che è venuto successivamente, proprio un prologo che avviene in cielo, tra tutti quei tanti cieli che stanno nella testa di Schreber con i vari arconti che li dominano ecc.»), dopo La rovina di Kasch (1983), Calasso è alla sua terza prova narrativa con Le nozze di Cadmo e Armonia (appena uscito, già in ristampa). In quest'ultimo libro ha voluto addentrarsi nell'Olimpo greco per narrarne le avventure, grondanti di sangue e di eros (vendette e tradimenti sono i protagonisti). Ed ecco Zeus rapire, sotto forma di toro bianco, la principessa Europa; ecco Fedra smaniare invano per Ippolito; ecco come Odisseo («l'ultimo degli eroi») soggiornò presso Calipso; ecco, infine, come gli Olimpi scesero a Tebe per partecipare alle nozze di Cadmo (l'eroe dell'alfabeto) e Armonia.

3 giugno 2013

«Lucio Colletti e 'Società'» di Luciano Albanese










Società è stata una rivista, prima trimestrale e poi bimestrale, espressione diretta della politica culturale del PCI. Essa vide la luce nel gennaio del 1945 e cessò le pubblicazioni nel 1962, passando successivamente per due diversi editori, prima Einaudi e poi Parenti. In questo arco di tempo essa raccolse i contributi di firme prestigiose. Citiamo fra queste Delio Cantimori, Cesare Luporini, Natalino Sapegno, Ernesto de Martino, ma l’elenco potrebbe continuare per alcune pagine, perché praticamente buona parte della cultura italiana del dopoguerra offrì i propri contributi alla rivista. In un certo senso, si potrebbe dire: «Era difficile restarne fuori»; e questo vale anche per Lucio Colletti.

La partecipazione di Lucio Colletti a Società rappresenta un momento importante tanto nel suo percorso intellettuale e politico quanto nella storia del marxismo italiano e nelle vicende politiche ad esso direttamente o indirettamente conseguenti. Nell’«Intervista politico-filosofica» del ’74 Colletti, sollecitato dall’intervistatore (che era Perry Anderson, direttore della prestigiosa rivista inglese New Left Review, dove l’intervista era stata originariamente pubblicata in lingua inglese, nell’estate del ’74, prima di comparire in italiano per i tipi di Laterza nel dicembre dello stesso anno), si sofferma a lungo sull’esperienza di Società. Colletti aveva iniziato a collaborare con la rivista culturale del Partito Comunista Italiano nel 1952, con lo pseudonimo di Giovanni Cherubini. Colletti era allora impiegato al Ministero degli Affari Esteri, dove era stato chiamato da Carlo Sforza, e gli sembrò più opportuno non usare il suo nome, che peraltro cominciò ad usare dopo solo un anno. L’espediente dovette sembrargli inutile, dal momento che egli si era iscritto al PCI già nel 1949, e la cosa non era certo passata inosservata.

I contributi di Colletti a Società furono numerosi e di grande rilievo, sia come recensore che come saggista. Ma il rapporto con la rivista divenne ancora più stretto dopo i fatti di Ungheria, perché dal 1957 Colletti, insieme a Della Volpe e ad altri esponenti del gruppo dellavolpiano, fra cui Mario Rossi, Nicolao Merker e Giulio Pietranera, il valoroso storico dell’economia classica prematuramente scomparso, entrò a far parte del comitato di direzione (anche se il suo nome compare in realtà fra i membri del comitato solo a partire dal 1959). La cosa può apparire paradossale, se si pensa che Colletti era stato l’estensore materiale del cosiddetto Manifesto dei 101, con cui un folto gruppo di intellettuali aveva preso posizione contro l’intervento dell’Armata Rossa in Ungheria, e quindi contro la linea ufficiale del PCI. L’episodio è ricordato, con un misto di ironia e di nostalgia, da Luciano Cafagna:

Il famoso Manifesto dei 101 intellettuali fu scritto sul tavolo da cucina della mia casa di allora, un appartamento a Palazzo Doria. Avevamo cominciato a scriverlo Sirugo e io, quando Lucio piombò come un falco e ne volle assumere d’imperio la redazione.1

Nonostante ciò Colletti non volle uscire dal PCI, come fecero molti dei firmatari del manifesto. Da un lato, la scelta di campo fatta nel ’49 gli sembrava ancora valida, e dall’altro egli tentava da tempo di imprimere al marxismo, e al comunismo stesso, una impronta scientifica e radicalmente democratica, un obiettivo che gli sembrava difficilmente raggiungibile lavorando all’esterno di un partito che, quali che fossero i suoi difetti, godeva della fiducia e del consenso della gran massa delle classi lavoratrici.