Giancarlo Micheli è nato nel 1967 a Viareggio, dove vive. Romanziere, poeta e saggista, è autore di tre raccolte poetiche, tra cui e La quarta glaciazione (Campanotto, 2012, finalista della XXXI edizione del premio nazionale Alpi Apuane, e dei romanzi: Elegia provinciale (Baroni, Viareggio 2007; Fratini, Firenze 2013), Indie occidentali (Campanotto, Udine 2008; premio internazionale «Nuove Lettere», XXII edizione), La grazia sufficiente (Campanotto, 2010); Il fine del mondo (Ladolfi, Novara 2016). La presente conversazione si incentra su Romanzo per la mano sinistra, un voluminoso e ambizioso romanzo storico, uscito in questi giorni per i tipi Manni, il quale traccia le vicende di due generazioni dagli anni Trenta agli anni Settanta del Novecento, raffigurando la crisi dei valori e i concomitanti contrasti politico-sociali europei.
Doriano Fasoli: Micheli, da cosa è nato lo stimolo per scrivere Romanzo per la mano sinistra?
Giancarlo Micheli: Senza dubbio, dal mio personale punto di vista soggettivo, il desiderio di scrivere questo romanzo è nato da una molteplicità complessa di motivazioni, alle quali non è stato estraneo il fatto biografico di esser divenuto padre. Misi, infatti, mano al primo dei venti quadernetti del manoscritto sul finire dell’inverno del 2011, pochi mesi prima della nascita di mio figlio Ernesto. Tra i materiali diegetici di cui il testo si compone, hanno un ruolo portante nell’architettonica dell’opera le lettere che il protagonista, Stefan Bauer, ebreo moravo perseguitato per un intreccio di circostanze che rivelano aspetti focali nel rapporto tra carattere e destino, indirizza al figlio Bruno, il quale le leggerà a distanza di anni, quando, una volta adulto, raccoglierà dal padre il testimone di eroe della storia. Cionondimeno, nell’opera letteraria epica, quale credo Romanzo per la mano sinistra possa dirsi, il punto di vista soggettivo, foss’anche quello dell’autore e delle sue maschere testuali, conta quanto quello di ogni donna, uomo o bambino che abiti il nostro insidiato pianeta.
Da un punto di vista più generale, d’altronde, l’opera letteraria non solo giustifica se stessa come totalità coerente di voci e discorsi (plurivocità e pluridiscorsività, illustrate negli studi del grande teorico del romanzo Michail Bachtin) che, in ordine ai nessi intrinseci tra di essi stabiliti, costituiscono le leggi specifiche della composizione, ma chiama a sé l’autore, il luogo dell’enunciazione, lo postula in una posizione variabile e di volta in volta modulata lungo lo sviluppo diegetico: in un certo senso l’opera crea, dunque, l’autore o, quantomeno, l’autore quale appare a chi legge. L’opera letteraria, come la vedo io, organizza la percezione del lettore per dischiuderla ad un’esperienza evolutiva, la pone in grado di emanciparsi dai meccanismi costitutivi della personalità qual è irretita nei rapporti sociali di produzione; prefigura, dunque, la liberazione dall’universo concentrazionario dell’individualismo dove ciascuno sconta la vita come pena comminata dalle leggi dell’economia capitalistica, indica, al di là di ogni prassi costrittiva o anche larvatamente parenetica, il cammino verso la coscienza di specie. A chi, oggi, abbia la fortuna di imbattersi in essa, la narrazione che risponda a questo compito gioverà con la medesima consapevolezza che i lettori eruditi nella lingua persiana già nel dodicesimo secolo potevano attingere, laddove si fossero soffermati a meditare i versi di Omar Khayyam: «Dietro un velo avviene il tuo e il mio parlare/ E quando il velo cade né tu né io ci siamo». Scrivere oggi un romanzo – intendo uno vero, non una scimmiottatura tayloristica, a livello di psicologia individuale o di psicologia di gruppi ristretti, della divisione del lavoro invalsa nella nostra Waste Land, quella che organizza la distribuzione dei beni d’uso affinché i ratei di profitto incrementino gli scarti di produzione tanto da congestionarne lo smaltimento nella polluzione globale di una cronica crisi energetica – significa partire da questo primo velo, per proseguire a far cadere tutti quelli che la libera creatività è in grado di opporre alla catastrofe reale.
Le sue parole paiono ‘civettare’ con i postulati del ‘vecchio’ materialismo dialettico. Non le pare un tipo di approccio alla letteratura ormai suranné?
Ritengo sia invece tanto profondamente attuale da esserlo stato in ogni epoca, tra quelle di cui la coscienza umana ha fatta l’esperienza. Il materialismo dialettico è un canone di studi molto più serio e composito di quella polvere calcinata (i roghi dei libri nazisti sarebbero nient’altro che prodromi o sintomi premonitori della liquidazione delle coscienze alla quale il vigente regime globale assolve con zelo impersonale) cui le prassi politiche, durante l’intera fase matura del capitalismo, ne hanno ridotto la struttura, cosicché l’ideologia del capitalismo, a tal segno infantile ed estremistica da integrare nel proprio discorso di padroni di giorno in giorno più miserabili tutti i cataboliti logici delle false interpretazioni invalse, potesse specchiarvi, non senza profusione di godimento narcisistico, la propria ur-tragica finis humanitatis. Accanto ai capolavori di Marx – sull’abbrivio dei quali, attraverso l’economicismo staliniano ed altre nefandezze, la tecnocrazia finanziaria si è oggi resa in grado di schedare, sulla base provvisoria dei profili di reddito e consumo ancorché covi il sogno incubatorio di poterli presto determinare a priori tramite huxleyane profilassi genetiche, il promettente individuo il quale, messosi in viaggio agli albori della macchina a vapore con tutta l’onesta ingenuità di un Adam Smith o di un John Stuart Mill, evaso poi per terra e per mare con l’innocenza di un Melville o con la fatale forasticità di un Rimbaud, acconsente infine alla cinica unanimità dei delusi di questo mondo e si unisce a loro in un patto più inesorabile di quello che lo Stato totalitario, in passato, abbia potuto esigere in forza dei propri dilettanteschi strumenti di repressione – accanto ai fondamentali testi del genio di Treviri sarebbe giovevole tenere in pronta consultazione, se non quali livres de chévet, l’opera di Engels, le analisi epistemologiche di Svechnikov sulla causalità, nonché, e direi soprattutto, alcuni classici del pensiero storicistico marxista, quali Das Prinzip Hoffnung di Ernst Bloch – già anche il meno ponderoso Thomas Müntzer als Theologe der Revolution concilierebbe meglio la veglia e il sonno di chi desideri raccapezzarsi nel presente – ed ancora il tetragono Die Zerstörung der Vernunft di György Lukács.