Scrivere è sempre guarire. Il vero scrittore sa ogni volta da quale male e, qualora ne assuma a proprio arbitrio la responsabilità, sa anche come tenerlo celato al lettore; si tratta di ciò che il magnanimo chiama ironia, e colui che lo diventa serietà.
Qualora sia altro che mera vanteria, grossolano ricamo di esistenze tramite il quale le generazioni apprendono, secondo diacronici automatismi, a ricoprire rinnovate vergogne, l’opinione per cui la specie umana costituirebbe un apice nell’evoluzione biologica riposa sull’evidenza per cui in alcuni individui, la rarità dei quali non debba poi essere usata per ascrivere loro colpe spettanti a follia o perversione, persista la memoria dello stato ferino in cui vissero e si moltiplicarono intere stirpi di genitori archetipici fino ai loro naturali e legittimi. Se ne risultasse così corroborato, in qualche coscienza, l’aforisma marxiano a stare al quale la società borghese sia il termine conclusivo della preistorica,1 ciò non accadrebbe, una volta ancora, se non per via di un artificio retorico, un espediente tale da permutare le glorie dell’esperienza e della persuasione a profitto di una condizionale tiepidità ottativa.
Da un luogo generico, posto alla periferia dell’impero capitalista, dal quale osservare i segni della sua decadenza, i disagi, le dolose nuisances e le brame apocalittiche della sua civiltà in rovina, da una qualsiasi sconosciuta località di mare si può oggi assistere a spettacoli naturalistici di gabbiani che difendano dalle cornacchie la prole in virtù dell’istinto di aver becchi a sufficienza per fare incetta di pesce arando le superfici di acque litoranee inquinate da metalli pesanti ed innumerevoli cataboliti non biodegradabili dei processi industriali; là si può acquisire chiara cognizione di quali progressi abbia conseguiti la specie emancipatrice di se stessa ad un tal grado da aver sostituito, non senza malizia, a fetide creature squamose un oggetto del desiderio tanto immateriale da esser passibile di replicazione fino alla virtualmente assoluta sterilità, attorno al quale fare ressa in miriadi di mediocri soggetti, tutti competenti ad intraprendere il nulla. Quando poi, a volo d’uccello, vorace o mansueto come lo si possa immaginare dal falco alla colomba, si possedessero ali per ravvisare, al di là della cortina del tempo e dei pregiudizi che ne sono scaturiti in spirito e materia, la scena del medesimo crimine quale fu allestita sul patibolo con cui si aprì giudiziariamente l’anno che avrebbe vista la dissipativa débâcle di Napoléon le pétit e dei suoi imperiali comitati d’affari, tant’è che per qualche luna del successivo il sole della Comune brillasse su Montmartre e Belleville, saremmo precipitati dentro una voragine non meno abissale di quanta se ne dia per attualità al gusto letterario vigente, allorché scorgessimo il nemico provato dell’ordine civile, l’assassino seriale Jean-Baptiste Troppmann,2 oscuro meccanico alsaziano che, settant’anni dopo aver avuta recisa la testa dalla ghigliottina nella prigione de la Roquette, meritò onore postumo resuscitando nel nome del personaggio protagonista di un romanzo noir3 che Georges Bataille scrisse poco prima dell’inizio della seconda guerra mondiale; e supplementare meraviglia trarremmo esaminando le convulsioni di quel corpo colpevole e malvagio tra le cinghie che lo avvincono, così diabolicamente pervicace – come poterono attestare i Sardou, i Sue e i Dumas, tutti i «romanciers de cours d’assises»4 che assiepavano la platea, quasi a confondersi alla folla inebriata dall’atto conclusivo di quella ben congeniale cronaca –, così insanamente votato a compiere il male che mancò poco riuscisse a staccare un dito al boia con un estremo morso, in forza del quale non volle darsi pace fino all’istante in cui la lama non lo ebbe tranciato e reso inerte.