30 settembre 2014

«‘Leylā e Majnūn’. Conversazione con Giovanna Calasso» di Doriano Fasoli

 

 

 

 


È stata pubblicata, presso Adelphi, la storia di Leylā e Majnūn, raccontata nel 1188 da Neẓāmī di Ganjè. A parlarci di questo poeta mistico persiano («gioielliere della parola,» com'egli stesso si definì), nato nell'Azerbaigian nel 1141 e morto nel 1204, nonché di Leylā e Majnūn, poema romanesco a rime baciate (maṣnavī), terzo dei «Cinque Tesori», mai tradotto prima in italiano e da lei curato, è Giovanna Calasso, docente di civiltà islamica all'Università La Sapienza di Roma, la quale già collaborò con Alessandro Bausani, professore presso lo stesso ateneo, a corredare delle note Le sette principesse (Rizzoli, 1982), anch'esso di Neẓāmī.

Doriano Fasoli: Quale importanza riveste la figura di Neẓāmī nell'ambito della letteratura persiana?

Giovanna Calasso: Neẓāmī, che vive fra la seconda metà del XII gli inizi del XIII secolo nella citta di Ganjè, in Azerbaigian, è una figura di straordinaria importanza nella letteraura persiana. Con Neẓāmī il romanzo si introduce prepotentemente nell'epica con una felicità di risultati che rimane unica in questa letteratura. Le sue opere, i «Cinque Tesori», possono appunto definirsi, se si eccettua la prima di soggetto sapienziale, dei romanzi in versi, perché al tempo in cui Neẓāmī scrive narrare significa anche quasi esclusivamente narrare in versi, la prosa letteraria avendo ancora un uso molto limitato e circoscritto ad altri generi. La sua opera è importante anche da un punto di vista linguistico. Neẓāmī poeta di cultura cittadina, rappresentante della cosiddetta borghesia selgiuchide, viene considerato come l'autore che ha introdotto nell'epica, sottraendola al suo tendenziale purismo linguistico iranico, la lingua viva, ricca di lessico arabo, già da tempo penetrata nella lirica persiana.

Qual è la peculiarità della sua scrittura?

Quella che ci appare come la maggiore peculiarità della sua scrittura è il suo linguaggio delle immagini. La sua opera è da questo punto di vista di un fulgore straordinario. Non è che, in questo, Neẓāmī sia del tutto un innovatore: anche se ai nostri occhi possono apparire originali tutte le sue immagini, il codice linguistico in cui si esprime, il sistema di corrispondenze su cui fonda le sue metafore sono cosa già in parte definiti nella letteratura persiana del suo tempo. Il suo genio sta soprattutto nella combinazione delle immagini, talvolta ardita fino ad essere perfino oscura, e, globalmente, in quella straordinaria gioia dell'occhio che fa emergere dalla sua scrittura: come se l'occhio percepisse le forme stesse di tutte le cose in modo inauditamente esaltato, per citare le parole di Ritter, uno dei pochi studiosi che fino ad oggi si sono occupati di studiare il suo stile.