È da giovanissimo che Giuseppe Ponzio, in una terra che ne segna la nascita (una ex colonia italiana) ma che la drammaticità storica ne ha reso confusa l’appartenenza, si pone l’istanza fondamentale di come sia possibile tradurre in un oggetto lo spazio e il tempo. Il vissuto esistenziale e la formazione di una identità culturale ricca di sovrapposizioni ed intersecazioni, di confini e dispersioni, sono il territorio sul quale si dispiegano le costanti strutturali del suo lavoro. Sovrapposizioni o svolgimenti divengono il paradigma formale nelle opere di Ponzio, dove i segni traggono origine dalla fascinazione visiva e calligrafica per gli alfabeti, quello latino e quello amarico (sillabico) dell’adolescenza, e per gli ideogrammi cinesi della maturità.
Come presentare spazio e tempo è la domanda, come si diceva, che segna un percorso artistico costellato e al tempo stesso confortato da alcuni punti fissi, che personalità e movimenti artistici del Novecento (dal suprematismo russo al minimalismo americano) hanno avuto il potere di illuminare. L’amore per l’architettura (e la seguente formazione accademica) non è bastato ad arginare la pressione costante per la sperimentazione di altri mondi e modi espressivi. La pratica professionale si è poi intrecciata fortunatamente e forse non a caso, con quella artistica, attenuando nel tempo la conflittualità latente, – in alcuni momenti lacerante, – fra le due attività, sino a individuare e maturare una possibile sintesi.
Sintesi duttile sempre pronta a ricomporsi, facilitata anche dal realizzarsi, forse in modo ideologicamente ingenuo, dello sconfinamento auspicato, ma reso oggi drammaticamente ineluttabile, degli ambiti disciplinari (pittura, scultura e architettura) che la storia recente celebra. Di tutto ciò l’operare di Giuseppe Ponzio si fa discreto. Il suo linguaggio sembra in ultima analisi sfociare in un silenzio mistico, quel silenzio che è pienezza di ogni espressione e che conserva nel suo profondo spirito le tracce di un antico garbo. Il complesso dei segni preliminari per lo sviluppo di un progetto, volto a definire spazi e funzioni, si è mano a mano sovrapposto – e viceversa – a grafemi dalle potenzialità alfabetiche o a tracciati colti in modo automatico attingendo fra mente e gesto da un territorio arcaico, sempre presente, che spinge e si interroga su matrici e genealogie dell’universo oggettivizzante, perno di tutta la cultura occidentale.
L’avvertire come quest’ultima, saturante ogni residualità resistente, sia sempre pronta a collassare sui propri miti (razionalità e tecnica) e intravvedere, attraverso le crepe che necessariamente questo procedere totalizzante produce, corrispondenze fra i presupposti di alcune avanguardie artistiche novecentesche ed estetiche estremorientali (non esplicitate abbastanza da una storia corrente) hanno reso possibile una ricerca che pone come prioritaria ed eticamente necessaria l’esperienza, che non può essere altro che silenziosa, dello spazio e del tempo estranea, per quanto possibile, alla sedimentazione storica di un pensiero astratto e aprioristico.