21 giugno 2014

«La mente e il gesto. Conversazione con Giuseppe Ponzio, architetto e artista», di Doriano Fasoli

 

È da giovanissimo che Giuseppe Ponzio, in una terra che ne segna la nascita (una ex colonia italiana) ma che la drammaticità storica ne ha reso confusa l’appartenenza, si pone l’istanza fondamentale di come sia possibile tradurre in un oggetto lo spazio e il tempo. Il vissuto esistenziale e la formazione di una identità culturale ricca di sovrapposizioni ed intersecazioni, di confini e dispersioni, sono il territorio sul quale si dispiegano le costanti strutturali del suo lavoro. Sovrapposizioni o svolgimenti divengono il paradigma formale nelle opere di Ponzio, dove i segni traggono origine dalla fascinazione visiva e calligrafica per gli alfabeti, quello latino e quello amarico (sillabico) dell’adolescenza, e per gli ideogrammi cinesi della maturità.

Come presentare spazio e tempo è la domanda, come si diceva, che segna un percorso artistico costellato e al tempo stesso confortato da alcuni punti fissi, che personalità e movimenti artistici del Novecento (dal suprematismo russo al minimalismo americano) hanno avuto il potere di illuminare. L’amore per l’architettura (e la seguente formazione accademica) non è bastato ad arginare la pressione costante per la sperimentazione di altri mondi e modi espressivi. La pratica professionale si è poi intrecciata fortunatamente e forse non a caso, con quella artistica, attenuando nel tempo la conflittualità latente, – in alcuni momenti lacerante, – fra le due attività, sino a individuare e maturare una possibile sintesi.

Sintesi duttile sempre pronta a ricomporsi, facilitata anche dal realizzarsi, forse in modo ideologicamente ingenuo, dello sconfinamento auspicato, ma reso oggi drammaticamente ineluttabile, degli ambiti disciplinari (pittura, scultura e architettura) che la storia recente celebra. Di tutto ciò l’operare di Giuseppe Ponzio si fa discreto. Il suo linguaggio sembra in ultima analisi sfociare in un silenzio mistico, quel silenzio che è pienezza di ogni espressione e che conserva nel suo profondo spirito le tracce di un antico garbo. Il complesso dei segni preliminari per lo sviluppo di un progetto, volto a definire spazi e funzioni, si è mano a mano sovrapposto – e viceversa – a grafemi dalle potenzialità alfabetiche o a tracciati colti in modo automatico attingendo fra mente e gesto da un territorio arcaico, sempre presente, che spinge e si interroga su matrici e genealogie dell’universo oggettivizzante, perno di tutta la cultura occidentale.

L’avvertire come quest’ultima, saturante ogni residualità resistente, sia sempre pronta a collassare sui propri miti (razionalità e tecnica) e intravvedere, attraverso le crepe che necessariamente questo procedere totalizzante produce, corrispondenze fra i presupposti di alcune avanguardie artistiche novecentesche ed estetiche estremorientali (non esplicitate abbastanza da una storia corrente) hanno reso possibile una ricerca che pone come prioritaria ed eticamente necessaria l’esperienza, che non può essere altro che silenziosa, dello spazio e del tempo estranea, per quanto possibile, alla sedimentazione storica di un pensiero astratto e aprioristico.

9 giugno 2014

«‘Tra Shakti e Maya’ . Conversazione con Sabina Vannucci», di Doriano Fasoli

Sabina Vannucci è un architetto. È nata a Roma, la città in cui vive. Ha molto viaggiato. Nel corso della sua attività professionale ha illustrato libri scientifici, didattici e per ragazzi, ha fatto progettazione d'interni, si è occupata di piani di sviluppo sostenibile e ha facilitato processi di progettazione partecipata con diverse comunità locali italiane. Nel 2004 ha pubblicato con Raymond Lorenzo per l'Apat (oggi Ispra) il manuale Agenda 21 locale 2003. Dall'Agenda all'azione, e diversi contributi a rapporti di educazione ambientale, contabilità ambientale e strumenti di pianificazione ambientale del Comune di Roma. Ha insegnato e fatto formazione nelle discipline dell'arte, dell'architettura e dello sviluppo sostenibile. In un processo di ricerca della propria autenticità e con l'intento di aprire alternative per affrontare una crisi economica che rende difficile la professione, in tempi recenti ha recuperato le sue attività giovanili approfondendone lo studio e integrandole con l'uso dei nuovi media digitali e con la scrittura e la sperimentazione di forme diverse di arte visiva: fotografia, digital art, grafica, pittura, video making. I suoi lavori sono stati esposti in occasione di mostre personali a Roma e di collettive come «Detenzioni» 2012 e 2013 a Torino e «Per Appiam» 2014 a Roma.
Tra Shakti e Maya, che ha vinto la prima edizione del Premio Letterario Verbavolant a Castelnuovo di Porto, è il suo primo libro di poesie, edito da Terre Sommerse nel 2013.

Doriano Fasoli: Vannucci, quando hai scoperto la tua vena creativa?

Sabina Vannucci: Della prima poesia ricordo con tenerezza il momento in cui ho cercato con urgenza carta e penna. Avevo circa dieci anni, su una terrazza affacciata sul lago di Bled, una notte in Slovenia. Provavo emozioni. Le parole che mi attraversavano la mente erano semplici, ma il loro suono aveva l'andamento dello sciabordio del lago: la cosa mi colpì e così decisi di scriverle. Da allora ho continuato a scrivere poesie fino ai venticinque anni circa. Ho un quaderno, scritto a mano con la biro, in cui si vedono evolvere sia la scrittura sia la calligrafia. Poi basta.
Nei vent'anni successivi, nulla. Avevo continuato a scrivere molto, molti 'scritti da cassetto', ma poesie, mai più. Ho ripreso quando, durante un periodo molto duro della mia vita, ho fatto un confronto estremo con me stessa, un confronto che non ammetteva fughe e mi sono detta: «Ma a te cosa ti piace davvero più di tutto?» E sono riaffiorate cose dimenticate. Così dopo anni tecnici, di architettura, ho ripreso anche ciò che avevo fatto languire, ovvero la poesia, il disegno e la pittura. Ho ripreso a scrivere poesie come una furia, bloccandomi sul motorino a metà di un percorso, o in metropolitana. Anche nei momenti più assurdi, se c'è bisogno, tuttora mi fermo e scrivo.

Quando le scrivi hai presente un pubblico?

Mai. Ho scoperto l'esistenza di una possibile relazione con un pubblico quando mi son tornati indietro i primi riscontri, che in effetti mi hanno stupito. Non avevo considerato l'eventualità di muovere emozioni anche in altre persone. Il primo libro – ne ho finito un'altro, che è attualmente in cerca di pubblicazione – l'ho cominciato a scrivere come un'alternativa al percorso analitico, che avevo dovuto interrompere. È stata una psicoanalisi autarchica. Cercavo la mia verità e questa, in genere, è una cosa che si fa in privato. Però, una delle sorprese più preziose e piacevoli per me, ora, è sentire le interpretazioni che vengono fatte delle mie poesie, mi raccontano cose nuove, che io stessa non vedo. Amo quando ciò che scrivo arriva al cuore di qualcuno cambiando, a quel punto, forma e essenza. Amo quel momento in cui la poesia non è più mia, ma diventa di chi la legge.

2 giugno 2014

«Crisi editoriale e crisi letteraria», di Nicola d'Ugo







Credo che il problema della crisi editoriale di cui si parla non sia tanto individuabile nei libri in quanto tali, ma nel crollo del romanzo come modalità espressiva, il quale ha perlopiù smesso di parlare di temi seri, ossia militanti e ideologicamente forti, qual esso era per i grandi narratori dell’Ottocento (Stendhal, Byron, Balzac, Puškin, Hugo, Dickens, Dostoevskij, Flaubert, Tolstoj, Zola, France, d’Annunzio, ecc. ecc.). Oggi il suo ruolo lo hanno preso la televisione e il cinema, senza colpo ferire. Ma tranne Zamjatin, Tanizaki, Platonov, Orwell, Sartre, Moravia, Camus, Solženicyn, Pasolini, García Márquez, Ōe, Smiley, Murakami e altri che hanno continuato a pensare il romanzo e la saggistica con finalità militanti ottocentesche pur in nuova e originale veste, gli scrittori si sono perlopiù adagiati a fare contratti coi grossi gruppi editoriali, perdendo la propria autonomia necessaria e fondamentale e utile per affiancarsi ai soli autori impegnati umanamente. Il che gli si è rivoltato contro in termini di pubblicità, per cui ogni cosa che essi scrivono, anche seria e impegnata, finisce per esser pubblicizzata come forma di intrattenimento.

Questo andamento editoriale antistorico, che fa della letteratura intrattenimento e dell’intrattenimento letteratura, come tutte le forzature mercantili non funziona più. Gli uomini amano quella forma espressiva che si chiama letteratura, da che mondo è mondo, e per gli intrattenimenti cambiano ad libitum prendendo questo e quello a seconda delle proposte che gli si parano davanti.

L’era digitale e del print on demand sta mettendo a dura prova meccanismi editoriali come il nostro, che non ha neppure un secolo di vita, nel senso che i tantissimi editori di cui in pochi si sono comprati i marchi avevano una logica editoriale indipendente e non volta al profitto ab origine. Sta agli autori assumersi le proprie responsabilità, come facevano i romanzieri dell’Ottocento, e scegliere e imporre i mezzi più adatti alla circolazione delle proprie opere, anziché accettare ciecamente quelli che gli vengono proposti dai portatori di marchi e, forse, di profitti economici.

Sono contento che in America abbiano compreso questo problema, e che stiano assegnando sempre più i Premi Pulitzer, negli ultimi anni, a opere di editori indipendenti e di editori non a scopo di lucro, spesso facendo conoscere autori per nulla pubblicizzati dal sistema editoriale made in USA, ma, a giudizio della Fondazione Pulitzer, più importanti di quelli famosi. È una delle poche funzioni che ancora rivestono i premi letterari, il pubblicizzare i meritevoli trascurati. Per il resto, l’invenzione dei premi non è mai servita a nulla che a far cassetta e propaganda.

Ovviamente, chi vince il Pulitzer diventa famoso dal giorno alla notte. La struttura del Pulitzer e il testamento del suo fondadore hanno l’orgoglio di basarsi ben poco sulle interferenze esterne e sul denaro, e di attenersi a principi fortemente imbevuti di un’America che non c’è più nelle sue istituzioni nazionali, ossia quell’America libertaria tesa a difendere i diritti civili in modo progressista, e che ha avuto purtroppo a che fare, nell’ultimo mezzo secoli, coi falchi liberticidi o cogli assassini planetari che vanno da Truman a Obama con colpo ferire e ferite profondissime da portare.

Il secondo più importante premio di narrativa americano, il National Book Award, ha ammesso da alcuni anni la partecipazione anche delle opere pubblicate in ebook, in modo da rendere più visibili le edizioni indipendenti, valutarle ed eventualmente premiarle al posto di quelle che escono in cartaceo. Questo per rilanciare la letteratura a fronte di un incremento epocale della gamma di formati e materiali fisici in cui essa viene pubblicata.