17 novembre 2009

«Oltre la musica: Il poeta Fabrizio De André» di Nicola D'Ugo




«Benedetto Croce diceva che fino all'età dei diciotto anni tutti scrivono poesie, dai diciotto anni in poi rimangono a scriverle due categorie di persone: i poeti e i cretini. Quindi io precauzionalmente preferirei considerarmi un cantautore. Per quanto riguarda l'ipotesi di differenza fra canzone e poesia, io non ho mai pensato che esistessero arti maggiori o arti minori, casomai di (sic) artisti maggiori e artisti minori. Quindi se si deve parlare di differenza fra poesia e canzone credo che la si dovrebbe ricercare soprattutto in dati tecnici,» diceva De André in una recente intervista televisiva.

Ogni qualvolta un testo non sia presentato nella sua forma autonomamente scritta, ma, come per la sceneggiatura cinematografica e per il dramma teatrale, esso sia già inglobato all'interno di forme espressive e mediatiche diverse, ci si può porre il quesito della letterarietà. La domanda cui si è chiamati a rispondere è se, dato un codice semiotico, ciò che sia riconducibile a quel codice possa gareggiare con gli altri competitori. Nel caso specifico, si vuole rispondere alla domanda secondo la quale un testo, estrapolato dalla musica, sia di una valenza letteraria tale da emergere in un insieme prestigioso di testi. Anzitutto bisognerà chiarire che il dato statistico non è un ottimo metodo di valutazione. Esso dà per buono che il meglio sia ottimo, salvo poi screditarsi in una comparazione più estesa (per es.: dal 1500 al 1900, anziché dal 1600 al 1702). Questo metodo del meglio o meno peggio appare poco adeguato a esprimere un giudizio che entri nella meccanica del componimento, nella sua capacità di accendere scenari, suggestionare, far sentire sulla pelle tutto un ambiente immaginario.

È allora più opportuno osservare, a pochi mesi dalla morte, il lascito poetico di De André. La sua scrittura, estrapolata dalla musica, ne appare indipendente, non perché rispecchi la forma musicale, come una sorta di parallelismo, ma perché è ricca di una prosodia propria, più o meno regolare, decisamente congegnata secondo l'effetto di attesa della lettura e della ricezione verbale. In questo senso, quella scrittura si presenta come classica, perché è per lo più incanalata in una metrica di versi regolari a seconda delle strofe, che hanno una ragione tradizionale di fondo che viene da molto lontano.

Così la celeberrima «Via del Campo» è costituita da sei quartine di novenari anapestici a rima alternata, secondo lo schema abba, salvo la falsarima puttana/mano, l'assonanza maritare/scale e la rima anticipata all'interno amor/fior dell'ultima strofa. Ciò che se ne apprezza è l'effetto della ritmica, la ricorrenza sonora garantita dalla regolarità delle rime, il rallentamento dei versi dovuto all'accento che batte sulla prima sillaba di ciascuno di essi e la regolarità delle sillabe che seguono lo schema. Il novenario è un tipo di verso prevalentemente popolare che ha avuto maggiore e minor fortuna nei secoli. D'uso fin nel basso medioevo, fu sconsigliato da Dante nel De Vulgari Eloquentia, il quale lo adoperò solo in «Per una ghirlandetta». Prima di lui l'impiegò Guittone D'Arezzo, e in tempi più recenti Carducci e il Pascoli dei Canti di Castelvecchio, Gozzano, Palazzeschi e Campana, seppure, in questi autori, sia spesso associato ad altri metri. La forma di De André è, però, di tipo popolare, giacché il novenario anapestico e trocaico pare sconosciuto alla poesia aulica. Pascoli e gli altri lo impiegarono nella forma giambica, che produce un incalzare che è invece assente in «Via del Campo», il cui ritmo produce un senso di lentezza, spezzandosi in due fra gli emistichi, gettando una sorta di pausa di silenzio e sospensione fra «gli occhi grigi» e «come la strada» (v. 7). Ecco che il componimento è sospeso su qualcosa che non è solo suono. Perché la sospensione del verso e quel suo dividersi in due momenti? La poesia si ripiega e ridispiega in due momenti. Fra la prima parte del verso e la seconda v'è un accostamento originale, che produce a sua volta una dicotomia, ossia una sorta di contraddizione. Se nel verso 7 il «grigio» dà più un'idea di chiusura e di cecità, il fatto che De André abbia posto «come la strada» anziché come la nebbia, riapre alla speranza e al tempo dell'eventualità ogni possibilità di una situazione umana ulteriore. Osserviamo gli ultimi due versi del brano e proviamo a spezzarne uno alla volta.

     dai diamanti non nasce niente
     dal letame nascono i fior

diventeranno ciascuno due momenti così divisi:

     dai diamanti – non nasce niente

e

     dal letame – nascono i fior.

Nel primo caso («dai diamanti – non nasce niente») appena affiora l'immagine mitica del diamante, foriera di pensieri di ricchezza e purezza, di benessere economico e di bellezza estetica, noi ci disponiamo a riceverla con letizia. Ma subito dopo l'immagine è svilita e come annientata, giacché quei diamanti sono forieri di «niente» («non nasce niente»). Il luogo comune è abbattuto, ridisposto su una linea prospettica diversa, che altro non è se non la presa d'atto di una caratteristica dei diamanti. Qui non si tratta, infatti, di alcun giudizio denigratorio nei confronti dei diamanti, ma dell'enunciazione di una loro caratteristica che abbatte l'idea leggendaria che vi associamo e, in definitiva, la riconosciamo come qualcosa che inibisce il futuro. O, secondo una premessa maggiore foriera di un ovvio sillogismo: tutti i diamanti sono sterili.

L'ultimo verso («dal letame – nascono i fior») è composto allo stesso modo, ma ribaltato nella sua proposta: una negatività produce una positività. È fin troppo chiaro quale repulsività sia suggerita dal «letame». Di contro, viene messo poi in risalto un futuro più bello di quello dei «diamanti», giacché si tratta di: vita, bellezza, profumo ecc. Proprio ciò che è negato dalla sterilità delle pietre preziose. La spezzatura ritmica del novenario che Dante non amava diventa, nelle mani di De André, un mezzo efficace per porre in contrapposizione le immagini che presenta, riservando alla prima parte (anapestica o trocaica) l'accentramento del luogo comune, e alla seconda (per lo più giambica e, quindi, incalzante) l'abbattimento del luogo comune e l'emersione di un'immagine bella che arricchisce di vita, speranza, amore il senso dello scritto.

Con queste modalità, si osserverà che anche in altri componimenti ciò che è connotato da un giudizio negativo può, attraverso una lucida analisi dei personaggi e delle situazioni, riservare epifaniche sorprese, sia nel bene che nel male, sia in merito all'amore che all'amicizia, all'inimicizia, all'odio.

[pubblicato in: Notizie in... Controluce, n. VIII/3-4, marzo-aprile 1999, p. 14.]




Bibliografia: 
  • AA.VV., Fabrizio De André. Accordi eretici, EuresisEdizioni, Milano 1997.
  • Fasoli, Doriano, Fabrizio De André. Passaggi di tempo. Da Carlo Martello a Prinçesa, Edizioni Associate, Roma 1999.
Discografia: 
  • De André, Fabrizio, De André in concerto, BMG-Ricordi, Milano 1999.
  • --, In concerto. Arrangiamenti PFM. Vol. 2, BMG-Ricordi, Milano 1995.
  • --, Volume I, BMG-Ricordi, Milano 1995.
Su internet:

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