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30 gennaio 2024

«Giancarlo Micheli, “Pâris Prassède”», di Luciano Albanese

 


Giancarlo Micheli

Pâris Prassède

Monna Lisa, Roma 2023

644 pp.

€ 25,00

ISBN: 9791254583630

 

Il nuovo romanzo di Giancarlo Micheli Pâris Prassède si apre con un lungo passo di ispirazione manzoniana, dove le innumerevoli subordinate – che richiedono al lettore un’attenzione supplementare per tenere ferma nella memoria la proposizione principale – sono condite con una sottile vena di ironia certamente non estranea al Manzoni, ma più vicina, come già in altri lavori, allo stile di Carlo Emilio Gadda. In questo lungo passo di apertura incontriamo da subito il protagonista dell’opera, Pâris Prassède, che rannicchiato nella coffa della goletta francese Alecton, scruta distrattamente l’orizzonte mentre è immerso nei suoi pensieri. Iniziano qui le avventure/disavventure di Pâris Prassède, che, disceso prontamente in plancia al richiamo del capitano, inciampa in una mostruosa creatura marina appena pescata, calpestandola e rendendola inutile per una auspicata e fruttuosa vendita agli scienziati. La sbadataggine di Pâris Prassède viene ricompensata con numerose frustate, ma il rinvenimento di una creatura marina, che ricorda quella di Ventimila leghe sotto i mari, consente una digressione – la prima di tante – sulla vita della famiglia di Jules Verne e più in generale sulla Parigi del XIX secolo, favorendo così la creazione dello sfondo della prima rimarchevole impresa di Pâris Prassède, la partecipazione alla rivolta della Comune.

 

Pâris Prassède, originario di Haiti, era figlio dell’imperatore Faustin. Era stato lo stesso Faustin ad imporre il nome di Pâris Prassède, un duplice omaggio sia al mitico Paride che alla prassi, l’azione. «In principio era l’azione», diceva anche il Faust di Goethe, e come vedremo la figura di Pâris Prassède fa tutt’uno con le sue azioni. Dopo alterne vicissitudini Pâris Prassède è venduto come schiavo e lavora in una fattoria del Mississippi finché viene riscattato dalla madre e arruolato nella marina francese, nelle cui fila compare appunto in apertura del romanzo. Ben presto congedatosi torna ad Haiti, dove deve fare fronte a molte ostilità e alla fine viene imprigionato per impedirgli di far valere la sua discendenza. Successivamente, dopo la chiusura della prigione haitiana, è trasferito in quella di Sainte-Pélagie a Parigi. Qui incontra Auguste Blanqui, legge Proudhon, e hanno inizio i suoi contatti col movimento operaio europeo, in particolare, inizialmente, coi gruppi clandestini della fazione blanquista. In seguito conosce Paul Lafargue, il creolo originario di Cuba che sposerà Laura Marx. Questo lo conduce a Londra, dove conosce la famiglia di Marx e lo stesso Marx.

12 ottobre 2023

«"Prefazione" (da ‘Alla curva della vita’ di Doriano Fasoli)» di Luciano Albanese



Risulta dalle testimonianze che gli Stoici antichi, soprattutto Crisippo, avevano analizzato a fondo alcuni classici paradossi, in particolare quello del sorite (il mucchio)Quando uno diventa calvo? Quando cade il primo capello o quando cadono tutti? Analogamente potremmo chiederci – e molti in effetti se lo sono già chiesto – quando si comincia a morire, appena nasci o quando finisci di vivere? Montaigne, ricorda Fasoli, diceva che la morte è solo il momento in cui il morire ha termine. Ma, già, agli albori del pensiero occidentale, Aristotele, nel Protrettico, fr. 10 b Ross, diceva che, come i pirati tirreni (gli Etruschi) legavano i vivi ai morti (la tortura inflitta da Mezenzio ai prigionieri nell’Eneide virgiliana), così la nostra anima è legata a un corpo in perpetuo disfacimento fin dall’inizio (un tema, questo, ripreso in lungo e in largo dalla letteratura manichea).

 

Ognuno di noi avverte la costanza del disfacimento del nostro corpo, ma l’istinto di sopravvivenza è forte, e siamo riluttanti ad ammetterlo. Perduti nel gorgo delle incombenze quotidiane, abbiamo inventato, come scrive Heidegger, un «essere per la morte medio e quotidiano» all’interno del mondo del «si dice». In questo mondo «si muore» allo stesso modo in cui si commentano gli ultimi, lontani avvenimenti seduti al caffè. «Si muore» significa che un si anonimo muore. Muore sempre qualcun altro, quindi è come se non morisse nessuno, perché il Si è nessuno.

 

Non è questa la strada imboccata da Fasoli nel suo ultimo, breve, ma densissimo lavoro. Fasoli sembra voler passare attraverso la morte, quella vera, per poi venircela a raccontare. La curva della vita di cui si parla qui non è quella dell’epistrophè plotiniana, in cui l’anima, staccata dal corpo, ritorna alla sua vera patria, quella celeste. No, qui parliamo di una curva senza ritorno, in cui il singolo, nato dalla polvere, polvere ridiventa. E gli ultimi tratti di questa curva sono i più dolorosi, perché mentre percepiamo malinconicamente di essere diventati un corpo che non risponde più ai nostri comandi, assistiamo impotenti alla morte di amici e parenti meno fortunati – ma è poi una fortuna continuare a vivere così? – che hanno lasciato questo mondo. Percorrendo questa curva, scrive Fasoli, ci ritroviamo a sfogliare i morti, ad uno ad uno. Ma non ci arrendiamo alla loro scomparsa, preludio alla nostra, e continuiamo ansiosamente a pianificare il futuro, illudendoci ancora, forse, che l’avvenire teorizzato dalla Sinistra hegeliana – la Filosofia dell’avvenire di Feuerbach, ecc. – sia qualcosa in grado di sconfiggere il vero avvenire a cui siamo destinati fin dalla nascita, quello della morte.

13 maggio 2023

«Luciano Albanese legge di Doriano Fasoli» di Luciano Albanese

 

Doriano Fasoli. Foto di Roberto Canò. Roma 2019.


Il nuovo libro di Doriano FasoliFinestre sulla memoria (Alpes, Roma 2022, pp. XII-157), è in parte, come il precedente Derive, costellato dal ricordo di molte esperienze personali, in cui l’ispirazione poetica – poesie in prosa anche queste – avvolge il lettore, specie quello coetaneo dell’autore – in una nube di malinconica nostalgia per un tempo irrimediabilmente perduto. A questo ordine tematico appartengono, ad esempio, i ritratti di Giovanni Macchia ed Enrico Guaraldo, l’addio a Gianni Celati, i «Frammenti di un dialogo amoroso», i ricordi del Filmstudio a Via degli Orti d’Alibert, dove andavamo tutti alla fine degli anni ’60 (nessuno dimenticherà mai il grido «americani a casa!» – uno degli slogan del Movimento studentesco – lanciato dal fondo della sala da Massimiliano Fuksas, durante la proiezione di Lonesome Cowboys di Andy Warhol, alla vista dell’ennesima fellatio), Jeanne, o la contadina del Caso fortuito. E ancora, il lirismo di Sempre più solo e vintoGiornata di soleBreve nota sull’imbecillitàDue donne, e di quasi tutta l’intera sezione «Impressioni di orizzonti», di cui segnalo, in particolare, Parigio cara (pochi soldi, i libri trafugati e nascosti nel giubbotto, e la lunga sfilata di mostri sacri, Henry Miller e Céline in testa, che aveva vissuto nella mitica Parigi dell’immaginario europeo) e Al mattino, in cui sembra riecheggiare il finale del monologo di Molly nell’Ulisse di Joyce.

 

Ma, oltre a questo, dal libro emerge un tema cruciale per tutta la modernità: che cosa succede quando il sapere fallisce completamente i suoi scopi, e diventa solo erudizione? «Ho studiato filosofia, – diceva il Faust di Goethe in apertura della sua tragedia – medicina, teologia, da cima a fondo, e con tenace ardore, e mi ritrovo a saperne quanto sapevo prima. Anzi, ho finito per accorgermi che non ci è dato di sapere nulla di nulla». Lo scetticismo di Fasoli sul valore conoscitivo della cultura filosofica e scientifica prese nel loro insieme è abbastanza simile a quello di Faust, e questo si avverte già dalle prime pagine del libro, «La valle dell’ombra» e «Essere o non essere» (il famoso dilemma di Amleto), in cui svaniscono tre pietre angolari della nostra esistenza, Io, Dio e l’Essere. Doriano è un uomo di ampie letture, perché è un individuo curioso, nel senso più nobile del termine, e la sua conoscenza della cultura sia antica che moderna è molto vasta. Cominciando dal cogito ergo sum di Cartesio, le pagine di Finestre sulla memoria offrono al lettore una galleria di temi e di personaggi che non ha nulla da invidiare a quanto possiamo apprendere da una enciclopedia del sapere. Bertrand Russell, Heidegger guardiano dell’Essere, il topo di Schrödinger, la lettura manichea della vagina, il suicidio di van Gogh, Carmelo Bene e Artaud, Foucault in California nella Valle della Morte, col Marchese de Sade ideale compagno, le Baccanti di Euripide, il Concilio di Nicea, Gadda e Roscellino – sintomatico questo accoppiamento –, la difficoltà di scrivere usando parole che non ci appartengono, perché hanno già una loro storia (ancora Foucault), le oscure radici del sacrificio – tema comune, per motivi diversi, al Burkert di Homo necans e a Bataille –, Libertà e Necessità, Alice attraverso lo specchio letta da Lacan,  il mistero del corpo, della sua nascita e della sua morte, e quindi la sua costante esposizione al pericolo, la Rivoluzione scientifica che ci ha tragicamente “spiazzati” (il tema centrale di John Donne e del Controrinascimento), le tragedie di Euripide, etica e scienza, Aristotele e la babele delle lingue, sull’anima, le Memorie del sottosuolo di Dostoevskij, le mosche, esseri tutt’altro che irrazionali (grazie ad esse è stato scoperto il principio di reafferenza), il Libro e la tela di Penelope, post coitum tristitiam, lo Stige e Caronte, l’ottuso moralismo del “politicamente corretto”, Deleuze, Spinoza e la tirannia, il daimon, fisici e filosofi, elogio dei sensi, la vecchiaia e il suo mistero, ultimo capitolo del più grande mistero di vivere. 

27 marzo 2023

«Quattro prose da ‘Finestre sulla memoria. Dissolvenze e sovrapposizioni’» di Doriano Fasoli



 

È per un'opera come Finestre sulla memoria di Doriano Fasoli che un comune, anonimo lettore quale sono, avverte l'impulso di uscire dall'anonimato. Ogni lettera, ogni parola non sono nero segno alfabetico, sono indici di cose potenti che mi hanno fatto sentire una voce: la voce dell'essenzialità di ciò che più conta in noi e di noi fra gli altri. Le Finestre di Doriano Fasoli si aprono su squarci autobiografici e biografici (di Giovanni Macchia, di Celati), poi appaiono intermittenze filosofiche (Heidegger, Deleuze, Foucault ecc.), psicanalitiche (Freud, Lacan ecc.), antropologiche (Girard); riflessi letterari (Flaubert, Celati, Hölderlin, Rimbaud ecc.), cinematografici (Kurosawa, Scorsese), figurativi (van Gogh, Rembrandt), musicali (Rimskij-Korsakov, Coltrane) e quant'altro affondi nell'humus della Vita e della Morte, del Bene e del Male, del Divino, della Libertà, del Tempo, cioè i temi ineludibili della chiaroscurale esistenza umana (l'uomo «è punto d'incontro tra buio e luce», p. 20). Il tutto amalgamato in un periodare denso, per rimandi e balenii, talora consapevolmente sfuggenti, perché «ogni autore calamita solo lacerti, frammenti adatti alla propria calamita» (p. 57) e il linguaggio è un'alchimia che parla «pure come assenza, ma non è mai totalmente silenzioso» (p. 28). Forse, può chiedersi il lettore, devo allora cercare le «pietre rare delle parole nascoste»? (p. 7) Vale a dire il significato che si annida fra le viscere di ogni frase per sanare, o cercare di sanare, qualche dubbio che mi tormenta? Sbaglierebbe. Per citare Seferis, le parole mantengono la forma dell'uomo, nel quale «senso e non senso sono inseparabili», e perciò si deve dubitare di «ogni conclusione convinta di comunicare il vero». Se è vero, come credo lo sia, che «è di risposte che muore l'uomo» (p. 107), non resta che il dialogo sincero e orizzontale con le domande di senso. Insomma, il lettore farà «d'ogni riga profitto» (p. 57) se ascolta la sinfonia delle domande a strapiombo sull'essere umano composta dall'autore, se entra e permane nello spazio dell'interrogativo e si arrende a esso nella speranza di accendere «luci nella valle dell'ombra» (p. 3). Non si autoassolva e non cerchi consolazioni. Non nella Storia, che «nulla insegna, non tanto perché demente quanto perché eminenti cretini sono stati suoi scolari» (p. 43), non nella scrittura perché non arriverà mai a una conclusione, non nella memoria, dal cui affresco cadono «larghi pezzi e le lacune ti provocano con la loro cecità». Doriano Fasoli ha regalato al lettore un libro antidoto e un libro telescopico: l'antidoto contro il consumo bulimico delle semplificazioni e telescopico nel senso della similitudine di Francesco Algarotti. Parafrasandolo, direbbe che quest'opera nel tempo sarà come un telescopio nello spazio: «così l'uno come l'altro avvicinano gli oggetti lontani» (dalla lettera «Al padre Giambattista Roberti, della Compagnìa di Gesù, a Barbiano. Sopra le comparazioni.»)

 

Marco Quarin

 

(Marzo 2023)

 

28 febbraio 2022

«Cammina leggera. Conversazione con Maria Chiara Risoldi» di Doriano Fasoli




Maria Chiara Risoldi è nata a Bologna nel 1953. Ha fatto la giornalista dal 1977 al 1988, prima a La città futura, poi a Rinascita. Dal 1988 al 2020 ha svolto la libera professione come psicoterapeuta, facendo parte della Società Psicoanalitica Italiana, dell’Associazione Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica Infantile, della Società Italiana di Psicoanalisi e Psicoterapia Sándor Ferenczi e dell’Associazione EMDR Italia. Docente a contratto presso la Facoltà di Psicologia di Bologna dal 2000 al 2009. Ha collaborato, dalla sua fondazione, con la Casa delle donne per non subire violenza Onlus di Bologna e ne è presidente dal 2016. Ha pubblicato con Manni nel 2003 Traumi di guerra. Un’esperienza psicoanalitica in Bosnia-Erzegovina e con Tombolini nel 2018 #MeToo. Il patriarcato dalle mimose all’hashtag.

 

Doriano Fasoli: Dottoressa Risoldi, quando è nata l’idea di questo romanzo Cammina leggera, pubblicato in questi giorni da Manni?

 

Maria Chiara Risoldi: L’ennesima volta che mi sono sentita rispondere: «No, non ne abbiamo mai parlato». Ho incontrato molte persone che durante il primo colloquio mi avevano raccontato di avere già fatto precedenti esperienze psicoanalitiche, concluse o interrotte per le più diverse ragioni. Sono sempre stata molto attiva, facevo domande, esprimevo le mie opinioni, spiegavo il mio punto di vista, non sono mai stata ligia alla regola del silenzio, se non, forse, un po’ durante il training. Stare in silenzio, parlare… Questioni complesse che sto semplificando molto. Se mi veniva un’idea, una curiosità non la tenevo per me. La proponevo al paziente. Questo modo di lavorare facilitava l’emergere di questioni importanti, di eventi cruciali dell’infanzia e accelerava il cammino. Anche questa è una questione complessa che sto semplificando.

 

Quello che mi ha fatto venire voglia di scrivere un libro è stato il dolore, la rabbia, la delusione delle persone che avevano fatto anni di analisi, anche dieci, perfino venti o più di una analisi e non avevano aperto quella porta, che loro non sapevano che ci fosse e che il loro psicoanalista si era astenuto, secondo la regola, di fargli vedere oppure che nemmeno lui aveva visto, accecato da una teoria che non contemplava l’esistenza di quella porta. Condividere con l’ennesima persona la sofferenza che comportava pensare di avere perso tempo è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Avevo bisogno di scrivere.

31 dicembre 2021

«"Il Canto di Ulisse" di Dante» di Nicola d'Ugo

 


  

La conoscenza: la sua importanza e i suoi limiti

 

Dopo l'invettiva contro Firenze, inizia il vero e proprio tema del Canto XXVI dell’Inferno dantesco: la conoscenza, i suoi pericoli e i suoi limiti. Conoscere va bene, ma fino a un certo punto. Dio ha posto dei limiti all'uomo e tali limiti, per quanto estesi, non devono essere superati. Dante, lo sappiamo, è un poeta che ricerca il nuovo, ciò che non conosce. Ciò che è estraneo, la novità, porta al miglioramento dell'uomo. La sua prima opera si chiamava Vita nova, la vita che cambia, si rinnova, attraverso l'amore per Beatrice: di fronte alla novità non si guarda più con gli stessi occhi, ma con un sentimento e una «coscïenza» diversi. Anche la Commedia parla di cose nove, del tutto inaudite: il viaggio di Dante nel regno dei morti.


La conoscenza del nuovo («esperïenza» dirà Ulisse) è quindi fondamentale per il miglioramento della propria anima, per la sua nobilitazione. Nello Stilnovo, la nobilitazione dell'uomo avveniva attraverso l'esperienza, attraverso la donna gentile o angelicata, immagine in terra dello splendore divino. Dante riassume questo concetto nella formula «novo miracolo e gentile», in cui all’eccezionalità esteriore debba corrispondere un contenuto intimo virtuoso, nobile, «gentile» appunto (Vita nova, XXI, « Ne li occhi porta la mia donna Amore», v. 14). Come sappiamo dalla storia della Commedia, per raggiungere il bene bisogna passare attraverso il male e non solo rimanere in quello che consideriamo, a priori, il bene. Solo guardando il male in faccia, da vicino, possiamo riconoscere in noi i tratti del male, le implicazioni dei nostri pensieri, dei nostri gesti, delle nostre omissioni. Il male non è qualcosa che riguardi gli altri, ma se stessi: posso scorgere il male nell'altro, ma questo è molto meno importante dello scoprire il male in me stesso, poiché ciò che è fondamentale è sempre, per Dante, il bene e il male all'interno di sé.


La conoscenza svolge quindi un ruolo fondamentale nei riguardi della propria salvezza. In questo, il Canto di Ulisse trova la sua centralità, in quanto è emblematico di un modo sbagliato di concepire la conoscenza. Infatti, la conoscenza per Dante non si limita a una serie di nozioni: la conoscenza non è informazione, qualcosa di astratto, un insieme di dati relativi alla vita. La conoscenza è, innanzitutto, passione, è emozione, è desiderio. L'uomo raggiunge la conoscenza attraverso una forza emotiva che lo spinga verso ciò che è inusitato, che lo trascini verso la novità. L’uomo deve essere sensibile, quindi, a ciò che lo circonda, riconoscere in ciò che incontra l’eccezionalità della specie di sapere e perseguire il proprio percorso conoscitivo attraverso la selezione di ciò che entra in quel genere di conoscenza.

4 dicembre 2021

«Doriano Fasoli. “Derive. Schegge di vita in versi e in prosa”» di Luciano Albanese

 


Doriano Fasoli

Derive. Schegge di vita in versi e in prosa

Prefazione di Stefano Santuari

Alpes, Roma 2021

X-139 pp.

€ 15,00

ISBN: 8865317345



Scrittore, critico, giornalista e sceneggiatore, studioso e docente di psicoanalisi e letteratura, Doriano Fasoli si ripresenta ora al pubblico in veste di poeta. Lo stile di Fasoli, sul quale tornerò, ricorda quello delle ‘poesie in prosa’ di Rimbaud, ed è particolarmente in linea col contenuto dell’opera, bene compendiato dal titolo. Come una barca che ha perso gli ormeggi e fluttua alla mercé della corrente – spiega Fasoli – così è la vita. Non si sa da dove si parte, non si sa da dove si viene e non si sa dove si arriva. È un moto che i greci definivano ‘planetario’, ovvero ‘errante’, come quello dei ‘pianeti’, appunto, chiamati così perché nella prospettiva geocentrica apparivano retrogradi. Tuttavia, osserva Fasoli, verso la fine di questo viaggio ‘planetario’ ci si accorge che non è tanto importante la meta – peraltro ignota – ma certe stazioni incontrate lungo la via.

 

Derive è il ricordo, tradotto nella forma poetica, di un centinaio di queste soste, siano esse incontri, interviste, ricordi di viaggio o emozioni vissute interiormente. Si inizia con infanzia e adolescenza, dove emerge la figura della madre e soprattutto del padre, controfigura di Jean Gabin nel Porto delle nebbie. Poi il militare, e successivamente l’incontro decisivo con Stefano Santuari, autore della bella prefazione. Gustosissima la loro irruzione nell’eremo di Camaldoli: un tentativo di fuga mistica dal mondo risolto in tagliatelle ai funghi porcini e telefonate di nascosto alle ragazze, prima della inevitabile cacciata dal convento. Anche Michele Psello, mutatis mutandis, fece un’esperienza simile, prima che il gorgo della vita lo risucchiasse di nuovo. 

 

Esperienze di vita e di morte si intrecciano continuamente nel libro di Fasoli. Dal sofferto ricordo della lunga, eroica sofferenza di Martine alle interviste con Carmelo Bene e Fabrizio De André, entrambi destinati a una vita breve, ma quasi consapevoli di questo, e del fatto che dopo sarebbero vissuti perennemente nel ricordo. Altre figure note emergono dal ‘Vortice di incontri’ che vede sfilare personaggi come Barilli, Maria Luisa Spaziani, Attilio Bertolucci, Mario Luzi, Cesare Brandi, colto nella serenità della bella villa di Vignano di Siena, Emilio Garroni, Giovanni Macchia, Toti Scialoja, Sergio Endrigo, e altri ancora. In Appendice ritroviamo Carmelo Bene, intervistato nel corso del suo memorabile Riccardo III, Emilio Garroni, il cui ricordo mi riporta agli anni della Sapienza, ed Elémire Zolla, il nuovo, aristocratico vate della filosofia perenne di Agostino Steuco. E ancora, l’indimenticabile ritratto di Marguerite Duras, che aveva ribattezzato Fasoli ‘Terence Stamp’.

28 dicembre 2020

«Il covid ha preso Collagna nella sua generosa montagna» di Nicola d’Ugo



A Orly e alla mia gente

Come una valanga,

come una vanga,

il covid ha preso Collagna

nella sua generosa montagna,

seme della mia carne,

carne dei miei pensieri.

 

Confido nella forte fibra

dei miei compaesani,

nella pelle dura che non teme

i geloni invernali,

nel nugolo di calli nelle mani,

negli avvinazzati e briosi

canti montanari.

 

Confido nella loro tempra,

loro ce la faranno tutti

o quasi, anziani, adulti e bambini.

Tu Orlando, cuore nel mio cuore,

maestro di vita e fratello,

possa il cielo e la nostra carne

e i semi che fanno alberi e fiori e amori

tenerti in vita coma una goccia

sul viso, perché sei stato bello,

un dolcissimo fratello maggiore,

coi controcazzi, come si dice in gergo,

gesti tuoi nei miei gesti, carne tua

nella mia carne e in quella dei miei cuginetti.

 

Vanga, valanga e frutti che s'aprono

al sole e alla neve, che ci ubriacano d'amore.

No, Collagna, non sarà rasa al suolo,

non sarà decimata da questo morbo.

Conterà i suoi morti sapendo

che non sono numeri gli uomini.

Collagna resisterà a tutto questo

come sempre, nei secoli. 

 

Nicola d’Ugo

 

(Lerici, 3 dicembre 2020)

 

 

 

 

 

23 ottobre 2019

«“A sinistra in fondo al corridoio”. Intervista a Patrizia Carrano» di Doriano Fasoli


Patrizia Carrano nella sua casa romana (foto di Roberto Canò, ottobre 2019)

Patrizia Carrano è nata a Venezia dove ha trascorso l'infanzia, ma vive e lavora a Roma. Scrive per la radio e la televisione; come scrittrice ha esordito con Malafemmina. La donna del cinema italiano (1977), cui è seguito Le signore Grandifirme (1978). È autrice, tra l'altro, dei libri La Magnani (1982), Stupro (1983), Baciami stupido (1984), Una furtiva lacrima (1986), Erna Rossofuoco (1989), Cattivi compleanni (1991), L'ostacolo dei sogni (1992). La sua produzione narrativa più recente comprende la raccolta di racconti Notturno con galoppo (1996), Campo di prova (2002) e i romanzi A lettere di fuoco (1999) e Illuminata. I suoi libri sono tradotti in cinque lingue.

È in libreria da due settimane un nuovo romanzo di Patrizia Carrano, dal titolo A sinistra in fondo al corridoio (1000eunanotte). Una saga familiare, che intreccia le vicende spesso rissose di genitori, figli e figliastri, cognate intriganti di stretta osservanza cattolica e anziani professori nostalgicamente legati al ricordo del vecchio Partito Comunista. Il tutto visto e raccontato da una angolatura abbastanza inedita: quella dei domestici che nei decenni si sono avvicendati a lavorare nel vasto appartamento del quartiere Nomentano a Roma dove abitano i protagonisti. 

Doriano Fasoli: Cosa c'è a sinistra in fondo al corridoio?

Patrizia Carrano: Solo la stanzetta della domestica – o del domestico – così come l'aveva previsto l'architetto che nel 1935 ha progettato l'appartamento dove vivono i miei protagonisti: una casa costruita con agio, con salone doppio, stanza da pranzo, studio, ampia zona notte. Ma per la persona di servizio un bugigattolo di due metri per due collocata, appunto, a sinistra in fondo al corridoio.

Poiché questo romanzo racconta la storia di una famiglia attraverso lo sguardo delle persone che hanno lavorato in quella casa, mi sembrava giusto partire da lì.

Da dove nasce la decisione di dar voce ai domestici? 

Perché mi sono resa conto che fra la domestica veneta e semianalfabeta che negli anni Cinquanta andava a servizio quasi gratis, e il badante peruviano, che oggi ha dovuto smettere di fare l'università nel suo paese e cercare lavoro in Europa, corre un intero universo che fino ad oggi la narrativa italiana non ha mai raccontato. Mi è piaciuto osservare, capire e narrare gli intrecci fra colf, badanti, portinaie e i personaggi della famiglia dove hanno lavorato. Il libro si svolge quasi tutto in un appartamento, ma in quelle stanze confluiscono filippini, equadoregni, e prima ancora donne del Frusinate, oppure dell'Appenino marchigiano. Ognuno con il proprio mondo, le proprie necessità. Tutte stipate in una stanzetta due per due.

2 ottobre 2019

«“Elogio delle merci”, tre racconti di Isacco Turina» di Cinzia Baldazzi





La ricchezza delle società nelle quali 
predomina il modo di produzione capitalistico 
si presenta come una “immane raccolta di merci” 
e la merce singola si presenta come sua forma elementare.
Karl Marx, 1867


Nelle tre storie allineate sotto il titolo Elogio delle merci (Coazinzola Press, Mompeo 2018, pp. 302), «il lettore incontrerà le storie minuscole di qualche esistenza umana che si dibatte senza riposo all’ombra maestosa delle merci», spiega l’autore Isacco Turina, «nel loro ciclo infinito di produzione, distribuzione e smaltimento». 

La solitudine e l’alienazione di un’impiegata quarantenne addetta al collaudo manuale di prodotti finalizzati alla vendita («Lo scherzo»); la catastrofica esperienza di decine di clienti costretti in un supermercato a causa dell’infuriare di un uragano («La ginestra»); la vicenda agro-dolce di un giovane disoccupato il quale in una discarica alle porte della città trova il lavoro e l’amore («Il custode»).

In una sapiente architettura semantica “a scala”, Turina introduce nel primo racconto gli oggetti commerciali, destinati nel secondo a essere collocati, distribuiti nel grande circuito, per poi preparare la discesa narrativa della cosalità con l’abbandono e il deperimento nell’ultimo brano. L’utilizzo del climax a lato dell’anticlimax si svolge anche all’interno del plot di ciascuno dei pezzi (mediante effetti di progressione e poi di ingerenza minoritaria dei segni-segnali prescelti).

Tuttavia il maggior interesse critico ha luogo, in base a quanto già accennato, quando il medesimo accorgimento si estende al livello superiore di struttura del libro, alla sua architettura, prendendo le mosse dalla silenziosa spietatezza de «Lo scherzo», innalzando il narrato all’apogeo della distruzione ne «La ginestra», infine sigillando una conclusione “discendente” con «Il custode». Infine, l’ambiente dove si conclude il primo brano introduce lo spazio d’azione del secondo, mentre quest’ultimo termina con una riflessione su quello che sarà l’oggetto centrale del terzo.

Insomma, sembra ancora valido l’avvertimento formulato da Umberto Eco all’alba degli anni ’70 ne Le forme del contenuto: «Una cultura, per organizzare le proprie esperienze, deve nominarle: deve cioè fare corrispondere a elementi di forma dell’espressione elementi di forma del contenuto» e, allo scopo di mantenerne intatta la reciproca efficacia, essi dovranno compiere iter di intensità parallela. 

27 aprile 2019

«“Il secchio e lo specchio”, poesie di Francesco Lorusso», di Cinzia Baldazzi




Francesco Lorusso
Il secchio e lo specchio
Nota di Guido Oldani
Manni, San Cesario di Lecce 2018, pp. 96


In un’ironia tutta sua, Jean Cocteau era solito affermare:

Gli specchi dovrebbero pensare più a lungo prima di riflettere.

Ebbene, nella silloge Il secchio e lo specchiodi riflessioni ne vengono offerte numerose, da parte del nostro pensiero e di quello che potrebbe appartenere alle cose in sé: in particolare, a una complessa, arbitraria, ma in certa misura veritiera superficie riflettente di esse. Accade quasi che l’autore Francesco Lorusso, nelle articolate parabole discendenti causate dalla «perdita della memoria e del senso civico», in gran parte relativa all’«onnipotenza elettronica», si liberi dell’idea incombente della morte, illuminata però a tratti, come sostiene Guido Oldani nella nota al testo, in un’atmosfera di casa e di mare, per mezzo di una «scrittura incardinata in questa epoca». E prosegue:

Ma la parabola della traiettoria di queste sequenze dirada il tratteggio mentre si va verso l’apice della narrazione. Man mano la metrica s’impone, persino unitamente a delle tracce di espressionismo d’altre latitudini. Poi, quando la scansione sta andando a compimento, compare qualche concessione al respiro geografico.

Così in Lorusso percepiamo:

La folla già si fondeva al fumo
scuro della sera quando il sogno
si sedeva dietro l’ordine del giorno
accarezzando tutte le nostre cose
come un canto alto di vento
Perfino l’urlo sottile ghiaccia la superficie
e finge di fuggire la goccia di quella bocca
da un pensiero nella pancia che non ritorna
nel dissapore che con forza digerisco per te.

(p. 12)

I versi rievocano alla mente, chissà come, quelli di Nazim Hikmet quando nella poesia «Mosca, 1962» tentava di allontanarsi dal presagio di un’incombente fine:

Mi sono spogliato dell'idea della morte
ho infilato il fogliame di giugno dei viali
quello di maggio era un po’ giovanile per me
tutta un'estate mi attende tutta un'estate in città
con le sue pietre il suo asfalto fuso
le sue gazzose il suo ghiaccio
le sue sale di cinema sudate
gli attori di provincia dalla voce rotonda
[…]
con le poesie che leggerò al balcone
e con i tuoi capelli un po’ accorciati1

2 aprile 2019

«Storie nere in stanze d’analisi. Conversazione con Marcello Turno» di Doriano Fasoli



Marcello Turno è psichiatra e psicoanalista, membro dell’International Psychoanalytical Association (IPA) e della Federazione Europea di Psicoterapia Psicoanalitica (EFPP). Appassionato di scrittura sperimentale è stato autore di numerose azioni sceniche per teatro danza, fra cui Pater nosterIchspaltungMetamorphosisSaffeides, realizzate dal Nouveau Theatre du Ballet International di Venezia e da Immagine Danza. Ha scritto per il teatro ElectraIo Cesare, Bruto, forse la rivoluzione, messo in scena con un gruppo di tossicodipendenti inseriti in un programma di recupero, di cui ha curato anche la regia. Ha collaborato alla sceneggiatura del TV movie L’uomo del vento. Ha pubblicato per Alpes Il mancato suicidio di Luigi Pirandello (2013) e per lo stesso editore, in questi giorni, Storie nere in stanze d’analisi. Vive e lavora a Roma.

Doriano Fasoli: Dottor Turno, Storie nere in stanze d’analisi. Un titolo forte! Spaventa un po’. Di che si tratta?

Marcello Turno: Sono cinque racconti, organizzati in un volume il cui indice richiama volutamente a un trattatello di psicoanalisi: «Una questione di transfert», «Analisi interminabile», «La seduta d’analisi», «Enactment» e «Psicoanalisi futura». Più che spaventare vuole essere un sovversivo, fuori dagli schemi tradizionali. Rompere la consuetudine a cui ci ha abituato In Treatment. Nei miei racconti il protagonista è la relazione paziente-analista. C’è sempre qualcosa che porta ad agire o l’uno o l’altro.

Analisti o pazienti che diventano killer, appunto. Non teme di attirarsi le ire dei suoi colleghi?

A leggerli bene i racconti ironizzano sui tic e gli stereotipi degli analisti. L’ho già detto in una intervista televisiva: vediamo se sanno sorridere. A volte si prendono troppo sul serio e fino ad ora, escluso Woody Allen e Moni Ovadia, non mi sembra che ci siano altri a prenderli in giro.

Nel suo libro condensa il paradigma indiziario della crime investigation con teorie psicoanalitiche. A detta di chi ha letto Storie nere in stanze d’analisi riesce a farlo egregiamente. Sembra quasi che siano casi clinici. Come mai questa idea?

Sono convinto che un buon psicoanalista debba essere un investigatore della mente. Comunque è una deriva autobiografica. Da ragazzo, ma anche in età adulta, sono stato un accanito lettore di letteratura gialla e nera e molte altri generi ancora. Dove mi è possibile dissemino omaggi. Ad esempio rimasi colpito che Raymond Chandler stette giorni interi per decidere se usare una frase: «l’ombra […] gli tagliò la faccia». Io questa frase l’ho usata. È diventata «l’ombra gli tagliò la testa», è un omaggio a lui. Non vedevo l’ora. A mo’ di mosaico ho incastrato il background culturale con teoria e pratica psicoanalitica e sono nati i racconti.

28 marzo 2019

«Potere e storia d’Italia in Pier Paolo Pasolini. Conversazione con Bruno Moroncini» di Doriano Fasoli



Bruno Moroncini (Napoli, 1946) ha insegnato Filosofia morale, Antropologia filosofica e Psicologia clinica nelle Università di Messina e Salerno. Per Cronopio ha pubblicato: Mondo e sensoHeidegger e Celan (1998); La comunità e l’invenzione (2001); Sull’amore. Jacques Lacan e il Simposio di Platone (2005, II ed. 2010); con Rossana Petrillo, L’etica del desiderioUn commentario del seminario di Jacques Lacan (2007); Walter Benjamin e la moralità del moderno (2009); Gli amici non si danno del tu (2011); Lacan politico (2014), Perdono giustizia crudeltàFigure dell’indecostruibile in Jacques Derrida (2016). L’ultimo suo lavoro, pretesto del nostro incontro, s’intitola: La morte del poeta. Potere e storia d’Italia in Pier Paolo Pasolini (edito sempre da Cronopio).

Doriano Fasoli: Professor Moroncini, quando Pasolini avverte per la prima volta che i tentacoli del potere si stanno insinuando in lui?

Bruno Moroncini: Non saprei datare con assoluta precisione il momento in cui Pasolini si rende conto di essere anche lui parte, sebbene in un modo periferico, del potere, né so se ciò sia possibile di per sé. Quel che è certo è che da un certo punto in poi, verso la fine degli anni ’60, forse per la notorietà procuratagli dal cinema, Pasolini incomincia ad avvertire che la gente intorno a lui lo considera un uomo di potere. È lui stesso a darne testimonianza: in un articolo del giugno del 1969, intitolato «Travestiti da poveri», racconta una sua esperienza accadutagli in Turchia dove si è recato per girare alcune scene di Medea. Il sindaco della cittadina dove si trova, accortosi della sua presenza ad una rappresentazione teatrale, lo tratta con grande deferenza, lo fa sedere in un posto d’onore del teatro all’aperto, insomma fa gli onori di casa all’ospite famoso. Pasolini si interroga allora su due cose: sul fatto che anche lui è trattato come una persona importante, di potere, e che il povero sindaco della cittadina turca soggiace al fascino che promana dal potere. Il punto è che questo fascino lo prova anche Pasolini che lo confessa nello stesso articolo ricordando l’emozione intensa e sconvolgente che ha provato all’apparizione in un film di Miklós Jancsó di un gruppo di ufficiali ungheresi a cavallo che incarnavano ai suoi occhi la forma più estrema del potere, quella della possibilità di infliggere la morte. Ne era totalmente affascinato. Credo che da queste esperienze nasca la riflessione sul potere che occupa l’ultimo Pasolini e che in esse siano presenti in nuce anche le tesi della abiura della Trilogia della vita.

10 dicembre 2018

«Sessantotto visionario. Conversazione con Renzo Paris» di Doriano Fasoli



Renzo Paris (Celano, 1944), poeta, romanziere e critico, ha tradotto le poesie di Tristan Corbière e di Guillaume Apollinaire. Tra le sue opere ricordiamo le raccolte di poesie Album di famiglia Il fumo bianco (Elliot, 2013), i romanzi Frecce avvelenateLa casa in comuneLa croce tatuataLa vita personaleCani sciolti (Elliot, 2016), Bambole e schiavi (Elliot, 2018) e le biografie romanzate La banda Apollinaire (2011), Alberto Moravia. Una vita controvoglia (Castelvecchi, 2013), Il fenicottero. Vita segreta di Ignazio Silone (Elliot, 2014) e Pasolini. Ragazzo a vita (Elliot, 2015). Ha insegnato letteratura francese in diverse università. Collabora con Il Venerdì di Repubblica. Da poco è uscito, sempre per Castelvecchi, Sessantotto visionario, che ci ha fornito il pretesto per incontrarlo.

Doriano Fasoli: «Sono uno di coloro che hanno vissuto gli anni Sessanta come una primavera che prometteva di essere interminabile. Per questo, mi risulta difficile dovermi abituare a questo lungo inverno.» Paris, sei d’accordo con queste parole pronunciate dal filosofo Félix Guattari?

Renzo Paris: La primavera di cui parla Guattari, che conobbi a Sabaudia, nella villa affittata da Laura Betti, è stata anche la mia. Andavo per mostre ogni pomeriggio e la sera mi vedevo un film. Leggevo libri di ogni tipo, soprattutto di critica, ma anche romanzi e ne parlavo con gli amici di allora, che li recensivano per il giornale dei socialisti, la cui pagina culturale era diretta da Walter Pedullà. Ero un cane sciolto fin d'allora e non volli scrivere per quel giornale, che vedeva le prime prove di Alfonso Berardinelli, Franco Cordelli e altri. L'inverno era quello del settarismo e dell'ideologia, che spense la bellezza dell'arte. Io però in quell'inverno non dimenticai la luce.

Chi era Paolo Rossi, il diciannovenne assassinato dai fascisti?

Paolo Rossi era un giovane universitario socialista che mi morì accanto. Eravamo in piedi sul muretto del pianerottolo della Facoltà di Lettere della Sapienza. Reagivamo a parole contro i fascisti che salivano quei gradini armati di bastoni con punteruoli di ferro. La polizia non interveniva. Vidi Paolo cadere come corpo morto fin sul pavimento, rompendosi la testa. Quella mattina era stato picchiato con un pugno di ferro dai fascisti che odiavano quel venticinque aprile di Resistenza. Fu il primo caduto della mia generazione. Avevano poco più di vent'anni quelli che dimostravano contro l'aumento delle tasse universitarie voluto dal ministro Gui. E fu l'inizio di quello che sarà, due anni dopo, il Sessantotto. Ho raccontato tutto nel mio Sessantotto visionario.