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25 marzo 2018

«Due traduzioni: i diari di Byron e le poesie di Auden. Conversazione con Ottavio Fatica» di Doriano Fasoli



Ottavio Fatica è nato a Perugia e vive a Roma. È riconosciuto come uno dei più eccellenti traduttori italiani. Una vera vocazione, la sua, coltivata con rigore ormai da decenni. Ha lavorato per Teoria, per Einaudi e soprattutto per Adelphi, presso cui ha tradotto di recente i diari di George G. Byron Un vaso d’alabastro illuminato dall’interno e Poesie scelte di W. H. Auden. Ricordiamo la sua prima raccolta di poesie, Le omissioni, edita da Einaudi nel 2009.

Doriano Fasoli: Un vaso d’alabastro illuminato dall’interno: perché la scelta di questo titolo, Fatica?

Ottavio Fatica: Perché ha un immediato, indubbio fascino, come quello che ‘emanava’ dall’autore. Dovrebbe averlo detto Walter Scott quando si conobbero (i due si stimavano molto) e Byron lo ripete con qualche variante anche in un verso del Don Juan.

Com’è costruito questo volume dei Diari?

Sono i soli diari sopravvissuti. È bastato disporli cronologicamente per avere, certo con qualche sbalzo temporale, una parabola che copre tutto l’arco di vita del poeta. Un’edizione così non c’è neanche in inglese, dove i Diari sono inseriti nel ricchissimo carteggio e, per consultarli, bisogna disporre dei 13 volumi dell’epistolario. Non che sia una brutta idea averli – e leggerli; sono di un interesse e di un piacere non comuni.

Che cosa trasmettono al lettore?

Una scossa. L’uomo è corso da un brivido elettrico in quasi tutto quel che dice e fa che si trasmette in via diretta al lettore. Per giunta da due poli opposti: lo smodato romantico ha un doppio settecentesco a fulminarlo col suo sguardo cinico, roué. Dall’incontro o meglio dallo scontro nascono scintille. Poi ci sono gli infiniti aneddoti mondani e personali, intimi, piccanti, anche scabrosi da gustare.

Byron fu riconosciuto dai suoi contemporanei?

Purtroppo per lui fu idolatrato e poi, come di norma, ripudiato, gettato con disgusto, ma con gusto, nel fango. Come un amore mal riposto: fa tutto chi lo inscena e poi lo perpetra: non può che sbagliare e far del male – ma è quello che vuole – all’idolo presunto. In una breve, caustica, tipica poesia Robert Frost metteva in guardia proprio da questo. A Byron è toccata in misura esemplare e con effetti deleteri una simile sorte.

Come avvenne la sua morte?

Era andato – sempre all’inseguimento di un sogno, un Ideale – ad aiutare il popolo greco a trovare l’indipendenza dai turchi. Lo aveva fatto come un Garibaldi incrociato con un Mishima, con tanto di piccolo esercito al seguito e tanto di uniformi disegnate da lui stesso. Come avrebbe potuto dirgli bene? L’eroica morte, sublimata nei quadri e nell’immaginario, fu una fine atroce, sordida, risibile, quella di un povero cristo coronato di sanguisughe, panacea di allora.

Perché molti dei suoi scritti sono andati persi?

Persi è un eufemismo. Le memorie furono bruciate subito dopo il decesso da un manipolo di solerti parenti e amici terrorizzati dalle rivelazioni sui suoi trascorsi di omosessuale (sbagliando per inadeguatezza: Byron era onnisessuale), questo per salvaguardare un improbabile, improponibile santino, ma soprattutto dalle eventuali ricadute sulla loro vita. C’è chi sogna ancora che ne sia rimasta copia in qualche fondo letterario ottocentesco non ancora setacciato.

27 ottobre 2009

«W. H. Auden: 'In Memory of W. B. Yeats.' L'uomo, la natura, la memoria della scienza e dell'arte» di Nicola D'Ugo








Non era interesse precipuo di W. H. Auden la morte in quanto tale. Ma ne richiamava spesso il tema [1]. Al di là o al di sotto della vita, o dentro come un’ombra che passi sul viso una volta e penetri ineludibilmente attraverso gli occhi fino al fondo dell’anima, la morte non era l’altra faccia della vita, la croce dietro la testa. Né la croce nascondeva una testa. L’uomo vivo e l’uomo morto non rappresentavano una variazione connotativa, ma due entità risolutamente diverse, di cui alcuni punti prendono a riflettersi le loro proprietà a distanza, così come tra due uomini vivi si possono ravvisare proprietà comuni senza che le entità siano identiche.

Questa visione è possibile secondo uno scarto fra la massa e gli individui che la compongono, segnalando diligentemente una mente che sostiene una memoria collettiva, che dai molti è resa possibile, ma la cui essenza non è partecipata appieno da nessuno. Ed è anche dalla memoria collettiva che la memoria di un uomo può prendere forma, senza che la persona di questi sia mai stata direttamente conosciuta. Al di là dei raggiri del problema della morte, senza cioè scansare l’ostacolo con la facile conseguenza di rifarsi ai luoghi comuni, rispettando o la tradizione o le istanze intellettualistiche di uno sperimentalismo letterario, Auden ha preferito prendere una via diversa, percorrendo una serie di tematiche contemporanee ispirate dalla morte di una grande figura del panorama non solo letterario, ma storico.

In questo modo, ci ha indicato che la morte di un uomo è il momento preciso in cui due entità, prima unite sotto un qualche aspetto, prendono a seguire due destini sempre meno condivisibili, come per uno strappo, una frattura incalcificabile di un frammento d’osso che resta e di uno che se ne va e non si unirà più al corpo. Un uomo che muore è, per definizione, ancora vivo. La frattura della morte, invece, nel suo lascito, genera due forme, una aperta ai quattro venti, rilocabile, che tende entropicamente a mutarsi, e un’altra che può mutarsi per modalità affatto diverse. La prima è la fisicità del defunto e dei luoghi su cui egli, da vivo, aveva esercitato la propria influenza, generando, muovendo, commuovendo, suggerendo, consigliando, ordinando: penetrando, insomma, nella memoria singola e dinamica dei vivi e delle cose, secondo le sue manifestazioni biologiche e culturali. La seconda, che più poggiando su supporti fisici indifferenti maggiore ne risulta l’integrità formale, sempre salva nella concretezza di una sua integrità formale preunitaria e più generale (preunitaria in quanto la forma generale precede qualunque particolarità interpretativa, che diremo di volta in volta unitaria, e resta nel suo genere fuori da un’unità di comprensione estetica), non fa parte della fisicità dell’uomo che le ha dato origine.