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16 dicembre 2009

«'Moskovskij Chor' (Il coro di Mosca) di Ljudmila Petruševskaja» di Nicola D'Ugo





Da sinistra, Ljudmila Motornaja e Elena Kalinina in una scena del dramma.






Lo scorso 18 dicembre è andato in scena, nella bella cornice della Sala Petrassi dell’Auditorium di Roma, Moskovskij chor (Il coro di Mosca, 1988) di Ljudmila Petruševskaja, in lingua russa e con sopratitoli in italiano. Il titolo della pièce aiuta a comprendere l’elemento di ambivalenza drammatica ed epica che fa da ordito espositivo della vicenda: la casa che costituisce la scena del dramma, con le sue diverse dislocazioni delle stanze, una dentro l’altra o sopra l’altra, forma una sorta di coro, per cui, di tanto in tanto, gli attori interrompono l’azione per passare al ruolo di cantori, con motivi che, per la maestosità melodica che si succede all’affastellato battibecco, ironizzano amaramente sulle misere vite dei protagonisti.

Il dramma è ambientato negli anni 1956-57 a Mosca, durante la destalinizzazione imposta da Nikita Chruščëv (del 1956 è il suo “discorso segreto” sui crimini di Stalin), che portò alla riabilitazione di numerosi cittadini sovietici sommariamente colpiti, a partire dal 1937, da condanne a morte e deportazioni. Ciò non significò la fine delle persecuzioni politiche, che, in modo meno efferato, continuarono ad attuarsi nell’Unione Sovietica, nonostante la promozione, da parte del Segretario del Pcus, del romanzo di Aleksandr Solženicyn Una giornata di Ivan Denisovič, che nel 1962 avrebbe denunciato, con grande ironia sposata a una gelida crudezza, la vita inumana e socialmente inutile all’interno dei gulagy.

Nel dramma di Petruševskaja tutta la vicenda storica, di ampiezza internazionale oltre che nazionale, si riduce a una casa affollata, come se il clamore dell’evento debba trovare un eco congeniale nel microcosmo domestico di una famiglia divisa fra persecuzioni e povertà. La casa stessa, fortunato espediente scenografico, è un agglomerato di vani e suppellettili, che forma, più che un coro, una sorta di juke-box, in cui la meccanica del movimento degli inquilini è adagiata sotto l'occhio onnicomprensivo dello spettatore. In questa casa, si celebra il paradosso del dissidio famigliare prodotto dalla riabilitazione degli esuli, poiché il ritorno dei parenti non si coniuga con una adeguata ricettività alloggiativa e lavorativa. La casa diventa, allora, attraverso l’espediente del ritorno, il luogo cui la vastità della Russia si rivolge all’individuo, comprimendolo nella struttura sociale che lo ospita.

27 ottobre 2009

«'Mosca felice' di Andrej Platonov» di Nicola D'Ugo




Mosca Felice
Andrej Platonov
Adelphi
Milano 1996
Trad. di Serena Vitale e Ornella Discacciati
EUR 14,00
159 pp.
Isbn: 88-459-12426






Poetico e ricco di metafore ardimentose, tenero nel descrivere i moti del cuore e crudo nel registrare quelli dei sensi, Mosca felice (Sčastlìvaja Moskvà) di Andrej Platonov colpisce anzitutto per la svelta fluidità del linguaggio, l’agile snocciolarsi delle scene e una certa distaccata familiarità con cui ci trascina nelle dimore trasandate e nei campi ventilati a perdita d’occhio in cui si muovono i personaggi, con le loro intime riflessioni su quel mito culturale che fu l’uomo nuovo (novyj čelovék) nella Russia staliniana degli anni trenta. Scritto in quegli anni e pubblicato postumo dopo decenni di censura nel 1991, questo romanzo incompiuto ha il pregio di raccontare una gioventù diversa da quelle cui ci ha abituati la letteratura occidentale, da Woolf a Queneau, da Döblin a García Márquez, da Moravia a Oates, una gioventù che non è nata nel mito capitalista o nella sua opposizione, ma è cresciuta totalmente nella società sovietica, imbevuta dei sui miti, che si trova a confrontarli con le necessità della maturazione individuale.

Mosca Čestnova, una diciottenne cresciuta in orfanotrofio, è la congeniale protagonista della vicenda. Il primo ricordo infantile, che l’accompagnerà nella vita, risale alla rivoluzione d’Ottobre: un bolscevico inseguito e ucciso, quando lei aveva quattro anni. Tale ricordo, in una donna la cui situazione familiare qualifica come sradicata dal passato storico, senza alcun legame con i parenti, si dimostrerà, nel corso della vicenda, anch’esso un’illusione, un’interpretazione fantastica della bambina.

Lo scarto fra immaginazione e realtà è espresso da Platonov attraverso frasi lunghe e morbide, che, come piani differenziati, la sua abile penna inclina sapientemente, per far scivolare il reale nell’immaginario, l’immaginario nel metafisico, finché il metafisico si apre sul dubbio, al punto che una situazione non si impiglia o ingarbuglia nella successiva, ma si estende ad ampie pennellate, temperandosi in sensazioni, emozioni, sentimenti, come un composto chimico di passione e d’amore. Un tale processo della scrittura riflette il processo psicologico dei personaggi, di cui lo scrittore di Vorodež ci avverte fin dall’inizio, quando dice che il ricordo del bolscevico è come dimenticato dalla bambina, ma, in certi momenti, le riaffiora alla memoria, riflettendosi in un gesto condizionato, nell’interruzione di un’attività, in una sua più alacre esecuzione.

Mosca è una ragazza determinata, che ama le situazioni limite, come lanciarsi da un paracadute accendendosi una sigaretta. In ambito sentimentale, fa l’amore senza impegni secondo la propria interpretazione della vita comunista (per lei «l’amore non è il comunism»”, in quanto quest’ultimo è più duraturo e meno deludente), mettendo in crisi una serie di personaggi maschili, i quali, nella forma incompiuta del romanzo, assurgono a protagonisti, con il loro pensiero rivolto a una donna immaginaria, una sorta di emblema, un’illusione ossessiva e memorabile, né più e né meno della città che li ospita e che le ha dato il nome, con i suoi milioni di uomini, in cui un volto nella folla appare perfettamente irriconoscibile.