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3 marzo 2025

«Senso e intelletto nel pensiero moderno» di Luciano Albanese


Immanuel Kant


La filosofia moderna nasce quando entra in crisi il concetto di somiglianza fra percezioni e oggetti corrispondenti, il cardine di Aristotele e del materialismo ellenistico. Inversamente, la dissomiglianza fra percezioni e oggetti, ricavata dall’atomismo democriteo, era il tema centrale dello scetticismo antico, ma è solo nei tempi moderni che emergono tutte le sue potenzialità, che lo faranno diventare il motivo conduttore dei ‘nuovi filosofi’. 

 

Sesto Empirico aveva dimostrato, come già Democrito a suo tempo, che il fuoco non è ‘caldo’ e la spada non è ‘dolorosa’, ovvero che il fuoco che scalda non sente caldo e la spada che ferisce non sente dolore, quindi che le sensazioni, negli esseri senzienti, erano prodotte da cose non senzienti (Contro i matematici AM VII 357, 367-68). Conseguentemente era impossibile continuare a parlare di somiglianza fra le sensazioni e gli oggetti che le producono. Ne seguiva che le affezioni dei sensi non potevano mai attingere gli oggetti esterni, ovvero i sostrati (hypokeimena, i sostrati della tradizione aristotelica: Schizzi pirroniani PH II 74) delle affezioni stesse – pur dichiarati esistenti. Il senso, perciò, «non fornisce al pensiero gli oggetti esterni, ma si limita a enunciare la propria affezione» (AM VII 354).

 

A questo si aggiungeva che l’esperienza delle guerre europee fatta da alcuni filosofi, come Descartes, aveva dimostrato che le sensazioni possono insorgere anche in assenza degli oggetti corrispondenti. Chi aveva perso uno degli arti in battaglia continuava a sentire dolore nonostante che avesse perso il braccio o la gamba, le fonti originarie di quelle sensazioni. Inoltre, anche i sogni dimostravano che le inani visioni notturne erano in grado di produrre sensazioni sonore, tattili e olfattive dotate di un alto tasso di evidenza (la famosa enargheia comune alla scuola aristotelica, stoica ed epicurea, su cui si fondava l’ipotesi dell’esistenza di una conoscenza certa).

 

La filosofia moderna aveva ripreso in mano, e tradotto, i testi dello scetticismo antico spinta soprattutto da tre esperienze sconvolgenti, che avevano messo in crisi il vecchio sistema del mondo: la rivoluzione copernicana, lo scisma luterano e la scoperta dell’America. A partire da quelle tre date, il dubbio si era insinuato profondamente nella filosofia moderna, e chi desiderava combattere lo scetticismo emergente vedeva davanti a sé due sole opzioni possibili. Una soluzione radicale, quella di eliminare i sostrati, e dire che esistono solo le sensazioni, ovvero che percezioni e oggetti si identificano. Gli unici oggetti esistenti sono le sensazioni, esse est percipi, ovvero esistere significa essere percepiti (Berkeley nella fase dell’empirismo radicale, oggi Matrix dei fratelli Wachowski).

30 gennaio 2024

«Giancarlo Micheli, “Pâris Prassède”», di Luciano Albanese

 


Giancarlo Micheli

Pâris Prassède

Monna Lisa, Roma 2023

644 pp.

€ 25,00

ISBN: 9791254583630

 

Il nuovo romanzo di Giancarlo Micheli Pâris Prassède si apre con un lungo passo di ispirazione manzoniana, dove le innumerevoli subordinate – che richiedono al lettore un’attenzione supplementare per tenere ferma nella memoria la proposizione principale – sono condite con una sottile vena di ironia certamente non estranea al Manzoni, ma più vicina, come già in altri lavori, allo stile di Carlo Emilio Gadda. In questo lungo passo di apertura incontriamo da subito il protagonista dell’opera, Pâris Prassède, che rannicchiato nella coffa della goletta francese Alecton, scruta distrattamente l’orizzonte mentre è immerso nei suoi pensieri. Iniziano qui le avventure/disavventure di Pâris Prassède, che, disceso prontamente in plancia al richiamo del capitano, inciampa in una mostruosa creatura marina appena pescata, calpestandola e rendendola inutile per una auspicata e fruttuosa vendita agli scienziati. La sbadataggine di Pâris Prassède viene ricompensata con numerose frustate, ma il rinvenimento di una creatura marina, che ricorda quella di Ventimila leghe sotto i mari, consente una digressione – la prima di tante – sulla vita della famiglia di Jules Verne e più in generale sulla Parigi del XIX secolo, favorendo così la creazione dello sfondo della prima rimarchevole impresa di Pâris Prassède, la partecipazione alla rivolta della Comune.

 

Pâris Prassède, originario di Haiti, era figlio dell’imperatore Faustin. Era stato lo stesso Faustin ad imporre il nome di Pâris Prassède, un duplice omaggio sia al mitico Paride che alla prassi, l’azione. «In principio era l’azione», diceva anche il Faust di Goethe, e come vedremo la figura di Pâris Prassède fa tutt’uno con le sue azioni. Dopo alterne vicissitudini Pâris Prassède è venduto come schiavo e lavora in una fattoria del Mississippi finché viene riscattato dalla madre e arruolato nella marina francese, nelle cui fila compare appunto in apertura del romanzo. Ben presto congedatosi torna ad Haiti, dove deve fare fronte a molte ostilità e alla fine viene imprigionato per impedirgli di far valere la sua discendenza. Successivamente, dopo la chiusura della prigione haitiana, è trasferito in quella di Sainte-Pélagie a Parigi. Qui incontra Auguste Blanqui, legge Proudhon, e hanno inizio i suoi contatti col movimento operaio europeo, in particolare, inizialmente, coi gruppi clandestini della fazione blanquista. In seguito conosce Paul Lafargue, il creolo originario di Cuba che sposerà Laura Marx. Questo lo conduce a Londra, dove conosce la famiglia di Marx e lo stesso Marx.

12 ottobre 2023

«"Prefazione" (da ‘Alla curva della vita’ di Doriano Fasoli)» di Luciano Albanese



Risulta dalle testimonianze che gli Stoici antichi, soprattutto Crisippo, avevano analizzato a fondo alcuni classici paradossi, in particolare quello del sorite (il mucchio)Quando uno diventa calvo? Quando cade il primo capello o quando cadono tutti? Analogamente potremmo chiederci – e molti in effetti se lo sono già chiesto – quando si comincia a morire, appena nasci o quando finisci di vivere? Montaigne, ricorda Fasoli, diceva che la morte è solo il momento in cui il morire ha termine. Ma, già, agli albori del pensiero occidentale, Aristotele, nel Protrettico, fr. 10 b Ross, diceva che, come i pirati tirreni (gli Etruschi) legavano i vivi ai morti (la tortura inflitta da Mezenzio ai prigionieri nell’Eneide virgiliana), così la nostra anima è legata a un corpo in perpetuo disfacimento fin dall’inizio (un tema, questo, ripreso in lungo e in largo dalla letteratura manichea).

 

Ognuno di noi avverte la costanza del disfacimento del nostro corpo, ma l’istinto di sopravvivenza è forte, e siamo riluttanti ad ammetterlo. Perduti nel gorgo delle incombenze quotidiane, abbiamo inventato, come scrive Heidegger, un «essere per la morte medio e quotidiano» all’interno del mondo del «si dice». In questo mondo «si muore» allo stesso modo in cui si commentano gli ultimi, lontani avvenimenti seduti al caffè. «Si muore» significa che un si anonimo muore. Muore sempre qualcun altro, quindi è come se non morisse nessuno, perché il Si è nessuno.

 

Non è questa la strada imboccata da Fasoli nel suo ultimo, breve, ma densissimo lavoro. Fasoli sembra voler passare attraverso la morte, quella vera, per poi venircela a raccontare. La curva della vita di cui si parla qui non è quella dell’epistrophè plotiniana, in cui l’anima, staccata dal corpo, ritorna alla sua vera patria, quella celeste. No, qui parliamo di una curva senza ritorno, in cui il singolo, nato dalla polvere, polvere ridiventa. E gli ultimi tratti di questa curva sono i più dolorosi, perché mentre percepiamo malinconicamente di essere diventati un corpo che non risponde più ai nostri comandi, assistiamo impotenti alla morte di amici e parenti meno fortunati – ma è poi una fortuna continuare a vivere così? – che hanno lasciato questo mondo. Percorrendo questa curva, scrive Fasoli, ci ritroviamo a sfogliare i morti, ad uno ad uno. Ma non ci arrendiamo alla loro scomparsa, preludio alla nostra, e continuiamo ansiosamente a pianificare il futuro, illudendoci ancora, forse, che l’avvenire teorizzato dalla Sinistra hegeliana – la Filosofia dell’avvenire di Feuerbach, ecc. – sia qualcosa in grado di sconfiggere il vero avvenire a cui siamo destinati fin dalla nascita, quello della morte.

13 maggio 2023

«Luciano Albanese legge di Doriano Fasoli» di Luciano Albanese

 

Doriano Fasoli. Foto di Roberto Canò. Roma 2019.


Il nuovo libro di Doriano FasoliFinestre sulla memoria (Alpes, Roma 2022, pp. XII-157), è in parte, come il precedente Derive, costellato dal ricordo di molte esperienze personali, in cui l’ispirazione poetica – poesie in prosa anche queste – avvolge il lettore, specie quello coetaneo dell’autore – in una nube di malinconica nostalgia per un tempo irrimediabilmente perduto. A questo ordine tematico appartengono, ad esempio, i ritratti di Giovanni Macchia ed Enrico Guaraldo, l’addio a Gianni Celati, i «Frammenti di un dialogo amoroso», i ricordi del Filmstudio a Via degli Orti d’Alibert, dove andavamo tutti alla fine degli anni ’60 (nessuno dimenticherà mai il grido «americani a casa!» – uno degli slogan del Movimento studentesco – lanciato dal fondo della sala da Massimiliano Fuksas, durante la proiezione di Lonesome Cowboys di Andy Warhol, alla vista dell’ennesima fellatio), Jeanne, o la contadina del Caso fortuito. E ancora, il lirismo di Sempre più solo e vintoGiornata di soleBreve nota sull’imbecillitàDue donne, e di quasi tutta l’intera sezione «Impressioni di orizzonti», di cui segnalo, in particolare, Parigio cara (pochi soldi, i libri trafugati e nascosti nel giubbotto, e la lunga sfilata di mostri sacri, Henry Miller e Céline in testa, che aveva vissuto nella mitica Parigi dell’immaginario europeo) e Al mattino, in cui sembra riecheggiare il finale del monologo di Molly nell’Ulisse di Joyce.

 

Ma, oltre a questo, dal libro emerge un tema cruciale per tutta la modernità: che cosa succede quando il sapere fallisce completamente i suoi scopi, e diventa solo erudizione? «Ho studiato filosofia, – diceva il Faust di Goethe in apertura della sua tragedia – medicina, teologia, da cima a fondo, e con tenace ardore, e mi ritrovo a saperne quanto sapevo prima. Anzi, ho finito per accorgermi che non ci è dato di sapere nulla di nulla». Lo scetticismo di Fasoli sul valore conoscitivo della cultura filosofica e scientifica prese nel loro insieme è abbastanza simile a quello di Faust, e questo si avverte già dalle prime pagine del libro, «La valle dell’ombra» e «Essere o non essere» (il famoso dilemma di Amleto), in cui svaniscono tre pietre angolari della nostra esistenza, Io, Dio e l’Essere. Doriano è un uomo di ampie letture, perché è un individuo curioso, nel senso più nobile del termine, e la sua conoscenza della cultura sia antica che moderna è molto vasta. Cominciando dal cogito ergo sum di Cartesio, le pagine di Finestre sulla memoria offrono al lettore una galleria di temi e di personaggi che non ha nulla da invidiare a quanto possiamo apprendere da una enciclopedia del sapere. Bertrand Russell, Heidegger guardiano dell’Essere, il topo di Schrödinger, la lettura manichea della vagina, il suicidio di van Gogh, Carmelo Bene e Artaud, Foucault in California nella Valle della Morte, col Marchese de Sade ideale compagno, le Baccanti di Euripide, il Concilio di Nicea, Gadda e Roscellino – sintomatico questo accoppiamento –, la difficoltà di scrivere usando parole che non ci appartengono, perché hanno già una loro storia (ancora Foucault), le oscure radici del sacrificio – tema comune, per motivi diversi, al Burkert di Homo necans e a Bataille –, Libertà e Necessità, Alice attraverso lo specchio letta da Lacan,  il mistero del corpo, della sua nascita e della sua morte, e quindi la sua costante esposizione al pericolo, la Rivoluzione scientifica che ci ha tragicamente “spiazzati” (il tema centrale di John Donne e del Controrinascimento), le tragedie di Euripide, etica e scienza, Aristotele e la babele delle lingue, sull’anima, le Memorie del sottosuolo di Dostoevskij, le mosche, esseri tutt’altro che irrazionali (grazie ad esse è stato scoperto il principio di reafferenza), il Libro e la tela di Penelope, post coitum tristitiam, lo Stige e Caronte, l’ottuso moralismo del “politicamente corretto”, Deleuze, Spinoza e la tirannia, il daimon, fisici e filosofi, elogio dei sensi, la vecchiaia e il suo mistero, ultimo capitolo del più grande mistero di vivere. 

10 gennaio 2022

«Vale la pena di tradurre un testo letterario?» di Luciano Albanese



Come si dice: traduttore traditore. Dopo il classico ‘naftalina’ per ‘mandarini cinesi’ nelle storie di Eta Beta di Gottfredson, mi è caduto l’occhio, si parva licet, su un passo della Ricerca del tempo perduto di Proust. Durante una delle conversazioni a tavola a casa dei Verdurin, in Un amore di Swann (dove purtroppo si capisce che il livello culturale delle stesse, quindi della classe dominante, non è più quello dei Saturnali di Macrobio o dei Deipnosofisti di Ateneo) Odette si lamenta del fatto che Swann sembra non ritenere degna né lei, né altri, di abbeverarsi alla sua cultura. In effetti Swann interviene raramente, e se ne sta quasi sempre aristocraticamente sulle sue. In ogni caso, il rimprovero di Odette offre l’occasione a uno dei commensali, che si distingue solo per le sue facezie, di cimentarsi in un gioco di parole. Swann cerca di difendersi, e cerca di dire che il rimprovero di Odette non ha giustificazioni. Odette risponde insofferente: « Cette blague ! ». Allora il: commensale, un dottore che pensa di essere divertente, si inserisce dicendo: « Blague à tabac ? ».

 

Il traduttore è messo davanti a una grossa difficoltà. ‘Blague’ in francese significa tanto ‘bugia’ quanto ‘tabacchiera’, e per un francese o per chiunque legga il francese il gioco di parole è forse discutibile, ma certamente comprensibile. Ma il povero traduttore italiano che deve fare? Oreste Del Buono se la cava abbastanza bene, e traduce:

 

«Che bugia!» disse Odette.

«Bugia da candele?», si informò il dottore.

 

‘Bugia’ in italiano è anche il piccolo candeliere che ancora accendono alcuni ristoranti sul tavolo di una intima cena a due. Il senso del gioco di parole è colto bene, ma resta il fatto che il testo originale rimarrebbe oscuro usando le sue stesse parole, quindi il lettore italiano ha di fronte sempre e comunque un testo diverso da quello francese.

 

Le cose vanno ancora peggio nella traduzione di Giovanni Raboni. Odette dice, rivolta a Swann: «E non mi prendete in giro!» E il dottore chiede: «Giro turistico?». Qui il testo francese è completamente stravolto, e sinceramente è difficile non provare un senso di fastidio davanti a questa soluzione (penso che almeno una nota che avvertisse il lettore dello scempio fatto all’originale sarebbe stata necessaria). Moltiplicate questo episodio per mille, e avrete un’idea, ancora approssimativa, della distanza che separa un testo letterario originale dalle sue traduzioni. In realtà tradurre un testo letterario è come ‘tradurre’ un monumento o un dipinto. In entrambi i casi, sono operazioni impossibili e prive di senso. Si fanno perché si pensa che la divulgazione di un’opera sia comunque utile. Ma non è quell’opera che si divulga, si divulga sempre qualcos’altro che o le somiglia poco o non le somiglia affatto.

 

Luciano Albanese

 

(Gennaio 2022)

 

 

 

 

 

4 dicembre 2021

«Doriano Fasoli. “Derive. Schegge di vita in versi e in prosa”» di Luciano Albanese

 


Doriano Fasoli

Derive. Schegge di vita in versi e in prosa

Prefazione di Stefano Santuari

Alpes, Roma 2021

X-139 pp.

€ 15,00

ISBN: 8865317345



Scrittore, critico, giornalista e sceneggiatore, studioso e docente di psicoanalisi e letteratura, Doriano Fasoli si ripresenta ora al pubblico in veste di poeta. Lo stile di Fasoli, sul quale tornerò, ricorda quello delle ‘poesie in prosa’ di Rimbaud, ed è particolarmente in linea col contenuto dell’opera, bene compendiato dal titolo. Come una barca che ha perso gli ormeggi e fluttua alla mercé della corrente – spiega Fasoli – così è la vita. Non si sa da dove si parte, non si sa da dove si viene e non si sa dove si arriva. È un moto che i greci definivano ‘planetario’, ovvero ‘errante’, come quello dei ‘pianeti’, appunto, chiamati così perché nella prospettiva geocentrica apparivano retrogradi. Tuttavia, osserva Fasoli, verso la fine di questo viaggio ‘planetario’ ci si accorge che non è tanto importante la meta – peraltro ignota – ma certe stazioni incontrate lungo la via.

 

Derive è il ricordo, tradotto nella forma poetica, di un centinaio di queste soste, siano esse incontri, interviste, ricordi di viaggio o emozioni vissute interiormente. Si inizia con infanzia e adolescenza, dove emerge la figura della madre e soprattutto del padre, controfigura di Jean Gabin nel Porto delle nebbie. Poi il militare, e successivamente l’incontro decisivo con Stefano Santuari, autore della bella prefazione. Gustosissima la loro irruzione nell’eremo di Camaldoli: un tentativo di fuga mistica dal mondo risolto in tagliatelle ai funghi porcini e telefonate di nascosto alle ragazze, prima della inevitabile cacciata dal convento. Anche Michele Psello, mutatis mutandis, fece un’esperienza simile, prima che il gorgo della vita lo risucchiasse di nuovo. 

 

Esperienze di vita e di morte si intrecciano continuamente nel libro di Fasoli. Dal sofferto ricordo della lunga, eroica sofferenza di Martine alle interviste con Carmelo Bene e Fabrizio De André, entrambi destinati a una vita breve, ma quasi consapevoli di questo, e del fatto che dopo sarebbero vissuti perennemente nel ricordo. Altre figure note emergono dal ‘Vortice di incontri’ che vede sfilare personaggi come Barilli, Maria Luisa Spaziani, Attilio Bertolucci, Mario Luzi, Cesare Brandi, colto nella serenità della bella villa di Vignano di Siena, Emilio Garroni, Giovanni Macchia, Toti Scialoja, Sergio Endrigo, e altri ancora. In Appendice ritroviamo Carmelo Bene, intervistato nel corso del suo memorabile Riccardo III, Emilio Garroni, il cui ricordo mi riporta agli anni della Sapienza, ed Elémire Zolla, il nuovo, aristocratico vate della filosofia perenne di Agostino Steuco. E ancora, l’indimenticabile ritratto di Marguerite Duras, che aveva ribattezzato Fasoli ‘Terence Stamp’.

3 dicembre 2020

«“The Bourne Legacy”, il futuro in atto» di Luciano Albanese

 


Schiacciato dagli altri episodi della serie Jason Bourne, privo di Matt Damon, evocato, ma non presente, come l’Achille omerico sotto la tenda; infestato da alcuni spezzoni dei film precedenti della stessa serie, The Bourne Legacy (2012) poteva avere l’apparenza di un centone poco digeribile e inutile. Io stesso mi ero sempre rifiutato di vederlo. Poi mi è capitato di trovarlo su Netflix e ho capito che avevo fatto male. Il film offre in apertura alcune scene bellissime ad alta quota, che impegnano colui che si era già rivelato un grande attore in The Hurt Locker (2008), Jeremy Renner, in una difficile gara di sopravvivenza fisica, a tu per tu con la natura selvaggia delle montagne dell’Alaska e circondato dai lupi. Ma sopravvive alla grande, e da questo si capisce che deve avere un fisico fuori del comune. Attraversate le montagne, si dirige verso una baita in mezzo alla neve e alla foresta, dove l’aspetta un uomo, altrettanto in buona salute. Aaron Cross, questo il nome del protagonista, dice all’abitatore della baita che ha perso la sua dotazione di medicine, e ne chiede di nuove.

 

Nel frattempo abbiamo capito, dalle scene precedenti e dagli spezzoni degli altri film, che i due sono agenti, e che siamo nel corso di un’altra delle operazioni coperte che già hanno reso la vita difficile a Jason Bourne. Ma qualcuno ha deciso di terminare questa operazione che rischia di essere scoperta e, come nei Tre giorni del Condor (1975), di chiudere la bocca a tutti gli agenti coinvolti. Quindi lo stesso drone che il giorno prima aveva rifornito la baita di materiali, torna improvvisamente e la distrugge in modo spettacolare insieme al compagno di Aaron che stava al suo interno.

9 maggio 2018

«Su “Romanzo per la mano sinistra” di Giancarlo Micheli» di Luciano Albanese



Romanzo per la mano sinistra (Manni, 2017), di Giancarlo Micheli, consta di 102 capitoli per complessive 635 pagine. Si tratta di un lavoro molto accurato e molto impegnativo, che emerge prepotentemente dal panorama letterario più recente. Racconta, attraverso le lettere di Stefan al figlio Bruno, le vicissitudini di una famiglia ebraica, Adele (chiamata alternativamente col diminutivo Ada) Stefan e Bruno, in un periodo che va dall’annessione dell’Austria alla Germania nazista alla fine del ‘secolo breve’. Lo sfondo delle vicende dei protagonisti è costituito da una folta galleria di personaggi storici, che acquistano una solida autonomia compositiva – a tratti persino preponderante – e costituiscono una sorta di romanzo parallelo rispetto al filo principale della narrazione. Sfilano così davanti a noi Hitler, Mussolini, Freud, Concetto Marchesi, Marie Bonaparte, Ciano, Luchino Visconti, Alicata, Valerio Borghese, Mario Capanna, Feltrinelli, Asor Rosa, Pasolini, insieme ad altri personaggi indirettamente collegati alle vicende principali, come ad es. Enrico Fermi e gli scienziati di Los Alamos. In effetti una buona metà del romanzo è occupata da questa galleria di personaggi, di cui Micheli, grazie ad un paziente lavoro storiografico, ricostruisce, in uno stile ‘tucidideo’, le conversazioni intercorse. Al punto che potrebbe sorgere il dubbio se il vero sfondo dell’opera siano piuttosto le storie di Stefan, Adele e Bruno, che da questa ottica funzionerebbero da elemento di raccordo.

In realtà i due piani del romanzo si intersecano continuamente, perché i personaggi storici in questione sono, più spesso direttamente che indirettamente, la causa prima dell’odissea dei protagonisti, e quindi della loro tragica fine. Anche una ricostruzione sommaria delle loro vicende – che non credo inutile – è in grado di mostrare quanto e fino a che punto essi abbiano dovuto subire l’iniziativa di chi aveva in mano le leve effettive del potere.

Adele, una storica dell’arte, e Stefan, uno psicanalista, vivono e lavorano felicemente a Vienna insieme al neonato Bruno, quando l’annessione dell’Austria alla Germania nazista li costringe a fuggire in Italia, la patria di Adele. Lì tuttavia nuove difficoltà sorgono in seguito alla promulgazione delle leggi razziali. Dopo una inutile supplica allo stesso Mussolini, i due chiedono consiglio sul da farsi sia a Freud, che, vicino alla morte, li indirizza a Parigi, presso la sua allieva Marie Bonaparte, che a Concetto Marchesi, che li indirizza verso l’Urss, apparente fucina di un futuro migliore. Decidono per la seconda soluzione, e giungono a Leopoli. Lì Stefan viene contattato dall’Nkvd, che lo arruola fra i suoi agenti. Dopo il patto Molotov-Ribbentrop e la spartizione della Polonia, i due ritengono più sicuro trasferirsi a Cracovia sotto la protezione della contessa Lanckorońska. Ma Stefan viene intercettato da ufficiali della Wehrmacht che stanno complottando contro Hitler e intendono servirsi di lui come diagnostico della psicopatologia hitleriana (oggetto della sua tesi dottorale). La congiura fallisce sul nascere, e Stefan viene costretto dai congiurati, per mantenere la sua copertura, ad arruolarsi nelle SS come medico psichiatra. Nel frattempo Ada, ritenendo che della scomparsa di Stefan sia responsabile la contessa Lanckorońska, fugge con Bruno e, mezza assiderata, trova rifugio e momentanea pace nel monastero di Bielany. Tuttavia una improvvisa retata delle SS condurrà Adele e Bruno di fronte al Gruppenführer Heydrich, che invaghito di Adele le prometterà salvezza in cambio di amore.

11 dicembre 2017

«Colletti, Foucault e il marxismo» di Luciano Albanese


Diego Rivera, Zucchero di canna. 1931.

A prima vista affrontare il tema dei rapporti tra Colletti e Foucault potrebbe sembrare tempo perso. Foucault non è ancora stato pubblicato interamente, ma per quello che ho potuto leggere finora il nome di Colletti non sembra comparire nelle sue opere. In Colletti compare, ma solo due volte. La prima citazione è in Pagine di filosofia e politica (Colletti 1989, p. 125), ripresa letteralmente in Fine della filosofia e altri saggi (Colletti 1996, p. 36), e non ha il minimo rilievo. La seconda è in Tra marxismo e no (Colletti 1979, pp. 61-2), ed è più interessante, anche se molto breve. Colletti infatti individua nello strutturalismo francese, in particolare Michel Foucault, la fonte della concezione della scienza (della storia come scienza) di Althusser. In realtà la concezione della storia e della scienza di Michel Foucault, come ha dimostrato Paul Veyne, è molto più complessa di quella strutturalista e di quella di Althusser, e lo stesso Foucault ha sempre preso le distanze dallo strutturalismo. Quello che sembra emergere dalla seconda citazione, in ogni caso, è una sottovalutazione di Foucault da parte di Colletti, e uno scarso interesse per la sua opera.

Forse si potrebbe anche parlare di ostilità: Foucault era tra gli intellettuali firmatari del Manifesto contro la repressione del luglio ’77, ed appoggiò pubblicamente il Movimento studentesco dello stesso anno. Ma Colletti era stato una delle ‘vittime’ di questo stesso movimento, che all’apertura dell’Anno accademico gli aveva impedito ripetutamente di fare lezione, costringendolo a procurarsi un insegnamento nella più tranquilla Svizzera. E conoscendo il carattere passionale di Colletti, difficile non pensare che in questo palese disinteresse interagissero anche motivi personali.

L’ostilità del Movimento studentesco del ’77 nei confronti di Colletti – a voler essere generosi – si legava alle polemiche suscitate in Italia dalla pubblicazione dell’Intervista politico-filosofica e dell’accluso saggio Marxismo e dialettica, usciti nel dicembre del 1974 presso Laterza. Tanto a destra quanto a sinistra si era data immediatamente una lettura politica dell’opera. A destra Colletti era stato esaltato come una sorta di Paolo a Damasco, che finalmente aveva visto la luce e aveva rotto col marxismo, il vaso di Pandora di tutti i mali. Dal canto suo la sinistra, in particolare quella legata al PCI, era partita a testa bassa, accusando Colletti di ‘tradimento’ e innescando un effetto domino che sfocerà nell’aperta ostilità verso Colletti degli studenti del Movimento del ’77. Se si pensa che Colletti e La Sinistra, il mensile da lui diretto, erano stati uno dei punti di riferimento del Movimento studentesco del ’68, questo improvviso voltafaccia della sinistra, ancora oggi, non può non suscitare perplessità.

28 novembre 2017

«Recensione di "Envoi Gramsci. Cultura, filosofia, umanismo" (a cura di Neil Novello)» di Luciano Albanese



La recente pubblicazione della raccolta di saggi su Antonio Gramsci curata da Neil Novello, Envoi Gramsci. Cultura,filosofia, umanismo (Campanotto ed., Pasian di Prato 2017, pp. 174), cade in un momento particolarmente appropriato, il centenario della Rivoluzione d’ottobre. Infatti sarebbe difficile spiegare il pensiero di Gramsci e la sua evoluzione senza fare riferimento a questo evento. Come ricorda Michele Maggi nel suo contributo, la rivoluzione bolscevica venne definita da Gramsci, nel celebre articolo dell’Avanti! del 24 novembre del ’17, una «rivoluzione contro il Capitale». Gramsci aveva ragioni da vendere, perché la rivoluzione comunista era scoppiata dove meno il marxismo se lo sarebbe aspettato, vale a dire non in un paese di avanzato sviluppo capitalistico, come l’Inghilterra, la Francia, la Germania o anche gli Stati Uniti, ma in un paese costituito in maggioranza da contadini, e con poche sacche di capitalismo ancora agli albori dello sviluppo. Ciò rappresentò un forte argomento per tutti coloro, compreso il ‘rinnegato’ Kautsky (secondo la colorita espressione di Lenin), che pensavano che la rivoluzione si sarebbe dovuta arrestare alla fase democratico-borghese, cioè a Kerenskij, e (eventualmente) aspettare tempi più opportuni per decollare.

Ma Gramsci non era disposto a gettare la spugna. Da questa rivoluzione contro il Capitale egli trasse la dottrina e la forza che gli fecero pensare che la rivoluzione comunista non era una ‘missione impossibile’, né in paesi arretrati – come era ancora sotto molti aspetti l’Italia – né in paesi altamente sviluppati, come la Germania, dove era stata soffocata nel sangue. La prima e più importante ‘vittima’ della rivoluzione contro il marxismo ortodosso operata da Gramsci fu – come dimostrò Bobbio in un celebre intervento – il concetto di ‘società civile’. Si tratta di un nodo centrale del pensiero di Marx e Engels. Engels, nello scritto del 1885 «Per la storia della Lega dei Comunisti» è molto esplicito su questo punto: «Non lo Stato condiziona e regola la società civile, ma la società civile condiziona e regola lo Stato [e] dunque la politica e la sua storia devono essere spiegate sulla base dei loro rapporti economici e del loro sviluppo, e non viceversa».

Come si capisce, nella visione di Engels e Marx la società civile è il luogo della lotta fra capitale e lavoro salariato, e quindi – tradotta in un linguaggio approssimativo, che Marx ha usato di rado, e che richiederebbe molte precisazioni – appartiene all’ordine della ‘struttura’ (del modo di produzione capitalistico). Ma Gramsci capovolge questo caposaldo dottrinale, perché in lui la società civile appartiene all’ordine della ‘sovrastruttura’, e quindi all’ordine delle idee, della cultura, della filosofia, anziché a quello dell’economia politica. Emerge bene qui la distanza di Gramsci sia dai bolscevichi – ai quali pure deve lo stimolo a uscire dalla camicia di forza del marxismo ortodosso – che dalla corrente di sinistra della II Internazionale (divenuta poi III Internazionale).

23 gennaio 2017

«Alcune considerazioni sul problema del realismo» di Luciano Albanese

Adesso dev'essere l'ora di pranzo di Francesca Woodman, 1979

Quando si parla di recupero del realismo bisogna stare attenti. Prendiamo ad es. una proposizione protocollare del tipo ‘alle ore x y Catone passeggia’. Questa sembrerebbe una descrizione adeguata alla realtà di quello che sta succedendo in un istante dato. Ma se riflettiamo meglio su ciò che sta realmente accadendo non tardiamo a capire che siamo di fronte ad un fenomeno più complesso, o addirittura a uno sciame di fenomeni concomitanti.

Catone, passeggiando, ha anche mosso l’aria circostante, aumentandone la temperatura, ha distrutto un formicaio sotto i suoi piedi, e soprattutto ha sparso germi letali intorno a sé – quelli che hanno sconfitto i marziani nella Guerra dei mondi di H. G. Wells. Ma può anche aver messo in moto una di quelle lunghe catene causali su cui si esercitava l’ironia di Voltaire. E questo, solo rimanendo al livello superficiale o fenomenico, senza scomodare la fisica atomica e le ‘due scrivanie’ di Eddington (quelle che hanno ispirato una scena di Scomodi omicidi, il dialogo tra Nick Nolte e John Malkovich).

Questa concomitanza di eventi, per cui non esiste mai un evento singolo e in totale isolamento dal contesto, è molto utile a chi indaga sugli omicidi. Le ‘tracce’ lasciate dall’assassino non sono altro, infatti, che eventi concomitanti e paralleli all’evento che ci interessa, il delitto. È quindi perfettamente giustificata la raccomandazione di non ‘intorbidare’ la scena del crimine (vedi le raccomandazioni di Denzel Washington ad Angelina Jolie nel Collezionista di ossa).

Conseguentemente, potremmo dire che qualsiasi descrizione di quello che sta facendo Catone in questo istante è totalmente inadeguata, e trova scarsa corrispondenza in quello che sta realmente accadendo. In effetti nessuna descrizione sarà mai adeguata alla miriade di eventi che accompagnano la passeggiata di Catone. In verità noi chiamiamo ‘descrizione realistica’ una proposizione che descrive – approssimativamente – solo un aspetto, trascelto fra mille altri, della realtà che si offre ai nostri sensi: esattamente quello che ci interessa, quello verso il quale siamo predisposti e orientati. Il punto di vista delle formiche vittime di Catone non viene preso in considerazione da noi, anche se sarebbe non meno legittimo.

Ma questo vuol dire anche che proposizioni del tipo ‘Catone distrugge un formicaio’ o ‘Catone distrugge i marziani’, oppure, allungando di qualche secolo la catena causale di Voltaire («Dialogo tra un bramano e un gesuita sul necessario concatenamento delle cose»), ‘Catone fa morire Enrico IV’, sarebbero descrizioni altrettanto realistiche di ciò che accade nell’istante dato.

La non univocità degli eventi non è l’unica difficoltà che incontra la riproposizione del realismo. Ad essa se ne accompagna un’altra – di cui già gli Stoici antichi, come vedremo, erano consapevoli. Essa è data dalla circostanza che, anche ammettendo l’esistenza di eventi isolati, i corpi non sono in grado, da soli, di esprimere chiaramente una ‘sintassi’ o un ordine propri. Tale difficoltà si manifesta in modo evidente nelle arti figurative.

Secondo il Laocoonte di Lessing le arti figurative descrivono azioni per mezzo di corpi, mentre le opere letterarie descrivono corpi per mezzo di azioni. In realtà né le une né le altre riescono a offrire di azioni e di corpi una descrizione incisiva e chiara. La descrizione delle azioni effettuate da un corpo ci parlerà al massimo del carattere del personaggio a cui il corpo appartiene, ma non potrà mai raggiungere l’evidenza della visione autoptica del corpo stesso. E tuttavia la letteratura ha un vantaggio sulle arti figurative. Essa ha già effettuato una selezione preventiva sullo sciame degli eventi, e ci costringe a guardare ciò che interessa allo scrittore. Ma nelle arti figurative la situazione è diversa.

Per citare solo il caso dell’arte mitriaca, che è quella di cui mi occupo da tempo, siamo letteralmente bombardati da immagini di corpi nei monumenti figurati, ma spaventosamente a secco di testi letterari che ci informino sul loro significato, a cominciare dall’evento centrale, la tauroctonia. La conseguenza è che ognuno vi legge quello che gli pare, e da Porfirio a oggi si può dire che ogni anno esce un nuovo libro sul ‘vero’ significato del culto di Mithra.

9 dicembre 2013

«Le lezioni di Lucio Colletti sul I libro del 'Capitale' di Marx», di Luciano Albanese




Il presente articolo di Luciano Albanese costituisce una nuova versione, qui proposta per la prima volta, della «Nota del curatore» al libro postumo di Lucio Colletti Il paradosso del Capitale. Marx e il primo libro in tredici lezioni inedite, edito dalla fondazione liberal nel dicembre 2011 e curato, appunto, dallo stesso Albanese.

* * *





Il volume di lezioni sul I libro del Capitale di Marx si compone di 13 capitoli, corrispondenti a 13 lezioni tenute da Lucio Colletti all’Università La Sapienza di Roma, Istituto di Filosofia, all’inizio degli anni ’70. Il corso risente dell’impostazione del primo Colletti, il Colletti ancora marxista. Elementi caratteristici di tale impostazione erano – come in Della Volpe – la tesi del carattere assolutamente scientifico dell’opera di Marx, ma anche – diversamente da Della Volpe – quella del carattere assolutamente scientifico della stessa teoria dell’alienazione e del feticismo sviluppata da Marx a partire dagli anni giovanili e massicciamente presente soprattutto nel I libro del Capitale. Questa seconda tesi venne abbandonata da Colletti, come è noto, nell’Intervista politico-filosofica del ’74, nella quale la teoria dell’alienazione veniva giudicata un residuo hegeliano. Essa tuttavia è ancora presente, e in modo decisivo, in queste lezioni, dove si affianca – e in certo senso alimenta e arricchisce – alla teoria quantitativa del valore.

La teoria quantitativa del valore dice che il valore di una merce dipende dalla quantità di lavoro mediamente necessario a riprodurla nelle condizioni storiche date. E che il valore del lavoro speso in tale operazione – cioè più esattamente il valore della forza-lavoro – dipende esso stesso dalla quantità di lavoro necessario a riprodurla, ossia dal valore dei mezzi di sostentamento dell’operaio: alimenti, vestiario, affitto, ecc.: quindi dalle ore di lavoro contenute in tali mezzi. Il plusvalore necessario alla riproduzione e all’accrescimento del capitale investito (D-M-D’) viene ottenuto in una prima fase facendo lavorare l’operaio per un tempo superiore a quello necessario a riprodurre il valore della sua forza-lavoro, cioè dei suoi mezzi di sostentamento. Ma in seguito alla riduzione dell’orario di lavoro da 12 a 8 ore il capitalismo deve cercare di recuperare il plusvalore perduto (passaggio dal plusvalore assoluto al plusvalore relativo).

Tale recupero può avvenire, secondo Marx, solo riducendo il valore della forza lavoro, e tale riduzione si ottiene aumentando la produttività della stessa grazie alle innovazioni introdotte nel processo produttivo. Infatti tale aumento comporta automaticamente la riduzione del prezzo delle merci che entrano a far parte dei mezzi di sostentamento dell’operaio, e che riproducono la sua forza lavoro. Questo aumento della produttività del lavoro consente di ridurre il valore della forza lavoro, e conseguentemente di abbreviare il primo segmento della giornata lavorativa (quello in cui l’operaio riproduce il valore della propria forza lavoro) per poter prolungare il secondo segmento, cioè il tempo di pluslavoro. I capitoli 11, 12, 13 del I libro del Capitale (Cooperazione, Divisione del lavoro e manifattura e, in particolare, Macchine e grande industria), studiano i modi con cui il capitalismo rivoluziona costantemente il processo produttivo al fine di incrementare la produttività del lavoro.

18 settembre 2013

«Silvia Avallone, 'Acciaio'», di Luciano Albanese






Acciaio
Silvia Avallone
Rizzoli
Milano 2010
EUR 18,00
357 pp. 18,00
ISBN: 88-17-03763-X









Premetto che le mie frequentazioni con la letteratura contemporanea sono scarse, e la parola ‘romanzo’ evoca nella mia mente più Le etiopiche di Eliodoro o Le metamorfosi di Apuleio che i finalisti dei premi letterari. La circostanza che mi ha spinto ad occuparmi del romanzo di Silvia Avallone è puramente casuale e abbastanza inusuale. Quello che mi ha spinto alla lettura di Acciaio, infatti, non sono stati né il successo del libro né le discussioni che ha suscitato – di cui fino a poco tempo fa non sapevo nulla – ma il manifesto promozionale del film (che non ho visto e che non vedrò, almeno per ora) ricavato dal romanzo stesso. La bellezza apparentemente aggressiva, in realtà malinconica, delle due ragazze sullo sfondo della ciminiera dell’altoforno mi ha incuriosito, ed è nata la voglia di leggere il romanzo. Quello che segue è quindi il frutto di un’incursione in un campo che non è esattamente il mio: incursione che ha prodotto una interpretazione molto personale di Acciaio, e che tuttavia potrebbe averne messo in luce, mi auguro, aspetti rimasti più in ombra rispetto ad altri.

Acciaio adotta un linguaggio che cerca di essere il più aderente possibile alla realtà, e la realtà è costituita da corpi fatti di materia: corpi vivi, quelli dei personaggi, fasci di bisogni e di desideri, e corpi morti, quelli dell'acciaieria e delle sue macchine. In realtà questi corpi morti sono più vivi dei corpi vivi, e li utilizzano senza pietà, facendoli diventare un’appendice delle macchine. Macchine che, usate dal capitale, finiscono per assurgere inevitabilmente, insieme alla scienza e alla tecnologia che le produce, a manifestazioni materiali del capitale stesso, e quindi cose da cui fuggire via prima possibile. Il potere della materia morta, l’acciaio, sulla materia viva, è il primo e fondamentale centro di gravità del romanzo.

Ma non meno importanti, nel romanzo, sono altri tre centri gravitazionali, due palesi e uno che affiora a tratti per poi restare costantemente sottotraccia, senza essere per questo meno rilevante. Il primo, un filo rosso che si snoda dall’inizio alla fine, l’amicizia/amore tra le due protagoniste principali, Francesca e Anna. Il secondo, la storia di tre operai metallurgici, Enrico, Arturo e Alessio, che lavorano alla Lucchini, ex Ilva, fabbrica che produce una merce destinata all’obsolescenza, l’acciaio. Essi sono, rispettivamente, il padre di Francesca e il padre e il fratello di Anna. Ma, soprattutto, i tre operai sono il simbolo vivente, l’epitome e il precipitato finale di tre diverse generazioni di quella classe operaia che in tempi eroici era lo ‘zoccolo duro’ del PCI, quella che aveva difeso la fabbrica contro i nazisti. Il terzo, gli ‘extracomunitari’ che appaiono e scompaiono come ombre inquietanti sullo sfondo dello scenario: il marocchino che gioca ostinatamente tutti i giorni al video poker, sperando di vincere qualcosa, i raccoglitori di pomodori o di olive, i trans sui marciapiedi di Milano. Effetti e varianti/variabili di un solo gigantesco atto criminale che nessun tribunale internazionale condannerà mai, perché equivarrebbe a condannare la Storia nel suo insieme: lo sterminio sistematico e il depredamento di civiltà ‘altre’ perpetrato dall’Europa, che ne ha soffocato lo sviluppo costruendo in tal modo, nel contempo, la base materiale della sua ‘civiltà superiore’.

3 giugno 2013

«Lucio Colletti e 'Società'» di Luciano Albanese










Società è stata una rivista, prima trimestrale e poi bimestrale, espressione diretta della politica culturale del PCI. Essa vide la luce nel gennaio del 1945 e cessò le pubblicazioni nel 1962, passando successivamente per due diversi editori, prima Einaudi e poi Parenti. In questo arco di tempo essa raccolse i contributi di firme prestigiose. Citiamo fra queste Delio Cantimori, Cesare Luporini, Natalino Sapegno, Ernesto de Martino, ma l’elenco potrebbe continuare per alcune pagine, perché praticamente buona parte della cultura italiana del dopoguerra offrì i propri contributi alla rivista. In un certo senso, si potrebbe dire: «Era difficile restarne fuori»; e questo vale anche per Lucio Colletti.

La partecipazione di Lucio Colletti a Società rappresenta un momento importante tanto nel suo percorso intellettuale e politico quanto nella storia del marxismo italiano e nelle vicende politiche ad esso direttamente o indirettamente conseguenti. Nell’«Intervista politico-filosofica» del ’74 Colletti, sollecitato dall’intervistatore (che era Perry Anderson, direttore della prestigiosa rivista inglese New Left Review, dove l’intervista era stata originariamente pubblicata in lingua inglese, nell’estate del ’74, prima di comparire in italiano per i tipi di Laterza nel dicembre dello stesso anno), si sofferma a lungo sull’esperienza di Società. Colletti aveva iniziato a collaborare con la rivista culturale del Partito Comunista Italiano nel 1952, con lo pseudonimo di Giovanni Cherubini. Colletti era allora impiegato al Ministero degli Affari Esteri, dove era stato chiamato da Carlo Sforza, e gli sembrò più opportuno non usare il suo nome, che peraltro cominciò ad usare dopo solo un anno. L’espediente dovette sembrargli inutile, dal momento che egli si era iscritto al PCI già nel 1949, e la cosa non era certo passata inosservata.

I contributi di Colletti a Società furono numerosi e di grande rilievo, sia come recensore che come saggista. Ma il rapporto con la rivista divenne ancora più stretto dopo i fatti di Ungheria, perché dal 1957 Colletti, insieme a Della Volpe e ad altri esponenti del gruppo dellavolpiano, fra cui Mario Rossi, Nicolao Merker e Giulio Pietranera, il valoroso storico dell’economia classica prematuramente scomparso, entrò a far parte del comitato di direzione (anche se il suo nome compare in realtà fra i membri del comitato solo a partire dal 1959). La cosa può apparire paradossale, se si pensa che Colletti era stato l’estensore materiale del cosiddetto Manifesto dei 101, con cui un folto gruppo di intellettuali aveva preso posizione contro l’intervento dell’Armata Rossa in Ungheria, e quindi contro la linea ufficiale del PCI. L’episodio è ricordato, con un misto di ironia e di nostalgia, da Luciano Cafagna:

Il famoso Manifesto dei 101 intellettuali fu scritto sul tavolo da cucina della mia casa di allora, un appartamento a Palazzo Doria. Avevamo cominciato a scriverlo Sirugo e io, quando Lucio piombò come un falco e ne volle assumere d’imperio la redazione.1

Nonostante ciò Colletti non volle uscire dal PCI, come fecero molti dei firmatari del manifesto. Da un lato, la scelta di campo fatta nel ’49 gli sembrava ancora valida, e dall’altro egli tentava da tempo di imprimere al marxismo, e al comunismo stesso, una impronta scientifica e radicalmente democratica, un obiettivo che gli sembrava difficilmente raggiungibile lavorando all’esterno di un partito che, quali che fossero i suoi difetti, godeva della fiducia e del consenso della gran massa delle classi lavoratrici.

9 ottobre 2012

«Cosa è l'ideologia. Teoria e Storia» di Luciano Albanese




Trascrizione:

Si è parlato di «natura». Ora: c'è una cosa interessante in Marx che a me ha sempre colpito. Nei Manoscritti del '44 fa dei grandi elogi di Feuerbach. Ne L'ideologia tedesca, che è del '45, Feuerbach viene fatto a pezzi, sostanzialmente. Nel senso che si accusa Feuerbach di credere ad una natura che non esiste più da nessuna parte, salvo in qualche atollo corallino, se non ricordo male.

Ora, bisognerebbe, diciamo, tornare un attimo a perché Feuerbach aveva introdotto il concetto di «natura». Il progetto di Feuerbach è molto diverso dalla naturalizzazione delle categorie sociali di cui si è parlato qui. Il punto di vista di Feuerbach è, diciamo, anti-hegeliano. Cioè: Feuerbach tenta di recuperare una natura vera contro la natura finta di Hegel.

24 aprile 2012

«Lezioni su Edmund Husserl. La percezione» di Luciano Albanese


Edmund Husserl
Nella storia della filosofia, sia antica che moderna, il significato del termine percezione non è univoco. Esso va dedotto di volta in volta tramite un esame del contesto filosofico nel quale compare. In linea generale, è possibile delineare una grossa dicotomia fra tendenze filosofiche dualistiche e tendenze filosofiche monistiche. Le filosofie dualistiche assumono l’esistenza di due fonti distinte della conoscenza, senso da una parte e intelletto dall’altra. Nel primo caso il termine percezione cade interamente dalla parte della sensibilità, e l’assunto fondamentale è che la sensibilità, tramite la percezione, sia in grado – da sola e senza l’intervento dell’intelletto – di attingere le caratteristiche fondamentali degli oggetti esterni, in particolare la loro collocazione nello spazio e nel tempo.

30 maggio 2011

«Cicerone e l'epicureismo» di Luciano Albanese


Dettaglio del busto di Cicerone.
Musei Capitolini, Roma
Marco Tullio Cicerone nasce ad Arpino il 3 gennaio 106 a.C. e muore a Formia il 7 dicembre del 43. Egli è stimato dal mondo moderno soprattutto come oratore, uomo di legge e politico, ma almeno fino al Settecento lo era anche come filosofo. Anzi, gran parte dei proemi di stile aristotelico che ricorrono nei suoi dialoghi sono dedicati a difendersi dall’accusa, che gli veniva rivolta frequentemente, di cimentarsi in una attività completamente inutile, posto che chi sapeva il greco conosceva già la filosofia, mentre chi non lo conosceva non avrebbe mai capito.

I rapporti di Cicerone con la filosofia sono in effetti di vecchia data. Nell’80 Cicerone, già noto come avvocato, accettò la difesa di Sesto Roscio Amerino, accusato di parricidio per un intrigo a sfondo politico che faceva capo a un liberto di Silla. Cicerone vinse la causa, ma subito dopo intraprese un viaggio in Grecia e in Asia, si mormorò per sottrarsi alla vendetta di Silla.

22 novembre 2010

«'Hypatia of Alexandria' di Maria Dzielska» di Luciano Albanese


Maria Dzielska,
Hypatia of Alexandria,
Harvard University Press,
Cambridge (Mass.)-London 1996.
Translated by F. Lyra.
XII-157 pp. EUR 19.45
Il saggio è costruito sulla base di una netta contrapposizione fra la "leggenda di Ipazia” e la realtà storica. La prima trova spazio per lo più nelle opere a carattere eminentemente letterario. Secondo questa tradizione, Ipazia è soprattutto la "martire pagana”, nel duplice significato di testimone del tramonto del mondo classico e di vittima dell'intolleranza cristiana. La sua fine tragica è una sorta di preludio al Medioevo, alla barbarie dei "secoli bui”. La parte introduttiva del volume è dedicata espressamente all'esame degli aspetti più caratteristici di questa linea interpretativa.

In una rapida, ma efficace ricognizione, nella quale viene idealmente ripresa e portata a compimento l'opera di R. Asmus (Hypatia in Tradition und Dichtung, Berlin 1907), sono esaminati, innanzitutto, gli autori del settecento inglese e francese che hanno maggiormente contribuito alla formazione della leggenda, facendo di Ipazia il simbolo della ragione contro l'oscurantismo della Chiesa: Toland, Voltaire, Gibbon, Fielding. L'attenzione si sposta poi sull'ottocento, con Leconte de Lisle, Gérard de Nerval, Maurice Barrès, Charles Kingsley. Ipazia diventa una eroina romantica, che incarna «lo spirito di Platone nel corpo di Afrodite», e affronta la plebaglia cristiana armata solo di cultura e di bellezza. Seguono i positivisti inglesi e americani, come J. W. Draper, che fanno di Ipazia una antesignana di Marie Curie immolata sull'altare della scienza: interpretazione ripresa dagli storici della scienza, come Van der Waerden o, più recentemente, M. Alic e il Dictionary of Scientific Biography.

29 settembre 2010

«Nietzsche a Capri» di Luciano Albanese


Friedrich Wilhelm Nietzsche
negli anni Settanta dell'Ottocento
Nietzsche passò tutto l’inverno del 1876-77 a Sorrento, in compagnia di Paul Ree e della sua amica di vecchia data Malwida von Meysenbug, che si era stabilita in questa città fin dal 1862 e presso la quale trovò ospitalità. In questo periodo Nietzsche visitò tutto il territorio circostante, e naturalmente fece anche una escursione a Capri.

Nietzsche aveva allora trentadue anni. Dal 1869 era diventato professore di filologia classica all’Università di Basilea, ed era famoso per la pubblicazione nel 1872 della Nascita della tragedia e per le violente polemiche che l’avevano seguita. Tuttavia a partire dal 1876 le sue condizioni di salute erano peggiorate, al punto che nel 1879 lo spingeranno a lasciare l’insegnamento. Il viaggio a Sorrento e la visita a Capri si situano in un momento critico della vita di Nietzsche, nel quale egli, sostanzialmente, stava prendendo una decisione importante: quella di cessare la sua attività di filologo per diventare un filosofo, ma un filosofo di tipo particolare, in cui la vita, l’azione e il linguaggio del corpo avrebbero costituito il centro e lo stimolo per ogni riflessione.

27 ottobre 2009

«Il primo e l'ultimo Heidegger» di Luciano Albanese


Martin Heidegger nasce nel 1889 a Messkirch, nel Baden. Compie gli studi universitari a Friburgo, dove diventa libero docente e poi assistente di Husserl (1916). Nel 1923 è nominato professore a Marburgo. Nel 1927, dopo la pubblicazione di Essere e tempo, è richiamato a Friburgo per succedere a Husserl. Nel 1933 è nominato rettore della stessa Università. Aderisce al nazionalsocialismo e pronuncia la celebre prolusione rettorale sull’Autoaffermazione dell’università tedesca. Tuttavia l’anno successivo si dimette, continuando in silenzio e senza pubblicare nulla l’attività accademica. Tale vicenda dai lati ancora oscuri ha dato origine alla questione dei rapporti fra Heidegger e il nazismo, oggetto di interpretazioni molto divergenti fra di loro, ed ha procurato a Heidegger non pochi fastidi. Dopo la fine della guerra, infatti, gli Alleati gli impedirono di continuare l’insegnamento, e Heidegger si dedicò alla pubblicazione delle opere inedite successive ad Essere e tempo, opere che manifestano quella che viene definita comunemente una «svolta» rispetto all’opera del 1927. Nel 1951 gli viene concesso di riprendere l’attività accademica, che dura fino al 1958. Muore nel 1976 a Messkirch.

Il clima filosofico nel quale si colloca la produzione di Heidegger è caratterizzato, in linea generale, da quello che viene chiamato il «ritorno a Kant», successivo alla decadenza dell’hegelismo. Tale ritorno si era manifestato soprattutto nella teoria della conoscenza, con la Scuola di Marburgo (Cohen, Natorp, Cassirer), e nella filosofia della storia, soprattutto con Dilthey (1833-1911) e poi con autori come Rickert (1863-1936), Meinecke e Weber. All’interno del «ritorno a Kant» bisogna anche tener conto, tuttavia, di un sottoinsieme che compie un ulteriore passo indietro, operando una sorta di «ritorno a Hume». Si tratta di autori come Lipps e Meinong, che, insieme alla psicologia di Bolzano, avranno un ruolo non secondario nello sviluppo del pensiero di Husserl.