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10 gennaio 2022

«Vale la pena di tradurre un testo letterario?» di Luciano Albanese



Come si dice: traduttore traditore. Dopo il classico ‘naftalina’ per ‘mandarini cinesi’ nelle storie di Eta Beta di Gottfredson, mi è caduto l’occhio, si parva licet, su un passo della Ricerca del tempo perduto di Proust. Durante una delle conversazioni a tavola a casa dei Verdurin, in Un amore di Swann (dove purtroppo si capisce che il livello culturale delle stesse, quindi della classe dominante, non è più quello dei Saturnali di Macrobio o dei Deipnosofisti di Ateneo) Odette si lamenta del fatto che Swann sembra non ritenere degna né lei, né altri, di abbeverarsi alla sua cultura. In effetti Swann interviene raramente, e se ne sta quasi sempre aristocraticamente sulle sue. In ogni caso, il rimprovero di Odette offre l’occasione a uno dei commensali, che si distingue solo per le sue facezie, di cimentarsi in un gioco di parole. Swann cerca di difendersi, e cerca di dire che il rimprovero di Odette non ha giustificazioni. Odette risponde insofferente: « Cette blague ! ». Allora il: commensale, un dottore che pensa di essere divertente, si inserisce dicendo: « Blague à tabac ? ».

 

Il traduttore è messo davanti a una grossa difficoltà. ‘Blague’ in francese significa tanto ‘bugia’ quanto ‘tabacchiera’, e per un francese o per chiunque legga il francese il gioco di parole è forse discutibile, ma certamente comprensibile. Ma il povero traduttore italiano che deve fare? Oreste Del Buono se la cava abbastanza bene, e traduce:

 

«Che bugia!» disse Odette.

«Bugia da candele?», si informò il dottore.

 

‘Bugia’ in italiano è anche il piccolo candeliere che ancora accendono alcuni ristoranti sul tavolo di una intima cena a due. Il senso del gioco di parole è colto bene, ma resta il fatto che il testo originale rimarrebbe oscuro usando le sue stesse parole, quindi il lettore italiano ha di fronte sempre e comunque un testo diverso da quello francese.

 

Le cose vanno ancora peggio nella traduzione di Giovanni Raboni. Odette dice, rivolta a Swann: «E non mi prendete in giro!» E il dottore chiede: «Giro turistico?». Qui il testo francese è completamente stravolto, e sinceramente è difficile non provare un senso di fastidio davanti a questa soluzione (penso che almeno una nota che avvertisse il lettore dello scempio fatto all’originale sarebbe stata necessaria). Moltiplicate questo episodio per mille, e avrete un’idea, ancora approssimativa, della distanza che separa un testo letterario originale dalle sue traduzioni. In realtà tradurre un testo letterario è come ‘tradurre’ un monumento o un dipinto. In entrambi i casi, sono operazioni impossibili e prive di senso. Si fanno perché si pensa che la divulgazione di un’opera sia comunque utile. Ma non è quell’opera che si divulga, si divulga sempre qualcos’altro che o le somiglia poco o non le somiglia affatto.

 

Luciano Albanese

 

(Gennaio 2022)

 

 

 

 

 

26 maggio 2019

«Europa cristiana: un falso storico» di Giovanni Sias



Dalla nascita dell’Unione Europea non si è perso tempo a ricordare, ribadire, insistere e infine decretare le radici cristiane dell’Europa. Ancora l’altro giorno, l’8 maggio 2019, sul Corriere della Sera il cardinale Bruno Forte richiamava il senso cristiano delle radici europee, e avverte che «il futuro dell’Europa non può prescindere dalle sue radici etiche e spirituali, le sole a poter alimentare una rinnovata passione morale e un impegno condiviso». Parole di verità, non ho dubbi, parole vere perché oneste nei confronti degli europei (che sono ancora “da fare”). 

Ma… il luogo da cui queste parole vere originano, il loro presupposto, è falso. Perché è un falso storico che l’Europa sia «cristiana». E se noi ci prendessimo la briga di mettere in intreccio e in tensione i processi storici con la teoria freudiana coglieremmo immediatamente sia la falsità della proposizione quanto la sua pretesa tutta ideologica di indirizzare la cultura europea in un’unica direzione: quella del potere ideologico del Cattolicesimo medievale esteso alle coscienze degli europei contemporanei.

L’Europa è un luogo del Mediterraneo, ma il Mediterraneo è un luogo dai confini incerti. Chi lo vuole stretto fra i Dardanelli e le Colonne d’Ercole vive in un’economia organicistica senza avvertire l’estensione dell’apparato psichico. L’organicismo risponde così alla logica religiosa del discorso, che ha spartito e diviso il Mediterraneo lungo tre punti cardinali: la Croce, il Muro (del pianto) e la Kaʿba (la pietra nera) ciascuno in conflitto con gli altri. Manca il quarto punto, il più importante, quello relativo al linguaggio e dunque insituabile, incollocabile in una qualsiasi spazializzazione o riduzione del Mediterraneo a una ideologia, a un rituale o a una nazione che sono i tre punti ordinali della religione. La distanza fra la mitologia e la religione è molto breve, la distanza che la religione pone sulla visione del mondo invece è infinitamente grande: favola l’una, Verità l’altra, senz’accorgersi della verità della favola né dei vaniloqui che si scambiano di posto con la verità.

Nell’ordine del linguaggio, quell’ordine che la psicanalisi indica in una topologia attraverso cui è possibile tracciare una geografia delle regioni dello psichico, il Mediterraneo si estende, a Oriente, almeno fino a Bagdad. E ci fu un tempo in cui, nella sua estensione, non aveva confini.

24 giugno 2018

«Intervista a Tullio Gregory» di Doriano Fasoli


Tullio Gregory e Doriano Fasoli. Roma, giugno 2018

Tullio Gregory è un filosofo e storico della filosofia italiano. Nato a Roma nel 1929, si è laureato in filosofia nel 1950 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Roma La Sapienza. Di questo ateneo è stato professore ordinario, dal 1962 titolare della cattedra di Storia della filosofia medievale e dal 1967 di quella di Storia della filosofia. È anche direttore del Dipartimento di Ricerche storico-filosofiche e pedagogiche della stessa Università.

Doriano Fasoli: Quando prese a occuparsi di filosofia? E oggi a cosa serve ancora la filosofia?

Tullio Gregory: Preferisco parlare di storia delle idee, data l’ambiguità e la polivalenza del concetto di filosofia nel tempo. Dunque ho cominciato a interessarmi a problemi di storia delle idee negli anni di liceo, anche per suggestioni ricevute dal mio professore di latino e greco, appassionato filologo classico, Antonio Traglia e soprattutto per l’influenza di Ernesto Buonaiuti che ebbi la fortuna di conoscere negli anni di liceo, quando, benché rintegrato nei ruoli universitari dai quali era stato espulso per non aver giurato fedeltà al fascismo, gli fu impedito di tornare a insegnare all’università per l’articolo 5 comma 3 del concordato del 1929, formulato in odio a lui. Mi domanda a cosa serva la filosofia: per fortuna non serve a nulla, se non a soddisfare un interesse personale.

Lei si laureò nel 1950 con Bruno Nardi, un grande medievista e studioso di Dante. Che ricordo ne conserva?

Mi laureai con Bruno Nardi, grande maestro non solo di medievistica e di cultura rinascimentale, ma soprattutto maestro nell’insegnare a leggere i testi, ad amarli e studiarli nella loro fattualità e in tutte le implicanze concettuali o simboliche.

Lei scrive con il computer o si ritiene ostile alla tecnologia?

Scrivo con la penna stilografica, quindi con l’inchiostro; ciò non significa che sia in alcun modo ostile alle tecnologie informatiche. Tenga presente che alcune banche dati di rilievo internazionale nel campo soprattutto della terminologia di cultura, le ho promosse io con l’istituto Lessico Intellettuale Europeo (CNR) da me fondato e diretto per oltre cinquant’anni.

1 giugno 2018

«Discorso interno e auto-comunicazione. Conversazione con Franco Fanelli» di Doriano Fasoli



Franco Fanelli, laureato in Lettere, conduce da lungo tempo ricerche nel campo delle scienze del linguaggio ed ha avuto esperienze di regia documentaristica e di critica cinematografica. Con Francesco Contaldo ha pubblicato L’affare cinema (Feltrinelli, 1979) e di recente, con lo stesso autore, Hollywood e Colossal. Nascita, splendori e morte della grande Hollywood (Alpes, 2017). Il suo nuovo libro, Discorso interno e auto-comunicazione, edito da Alpes, si incentra su delicate questioni di psicolinguistica, che qui ci illustra.

Doriano Fasoli: Fanelli, quali temi affrontano i cinque saggi che compongono il suo nuovo libro Discorso interno e auto-comunicazione?

Franco Fanelli: Il sottotitolo del volume, «Cinque saggi sulle forme del discorso verbale», ci può dare una prima indicazione. Ho dedicato, infatti, uno specifico saggio a ciascuna delle cinque principali forme del discorso verbale: orale, scritto, gestuale (come lingua dei segni dei sordi), testuale e interno, descrivendo le loro caratteristiche e sottolineando la complessità della sfera comunicativa umana che mi interessava mettere in luce. Si tratta, in sostanza, di cinque ricerche nel campo delle scienze del linguaggio con cui si osserva da più punti di vista il discorso verbale e le sue forme. Affrontando, ad esempio, il tema del linguaggio orale, ho potuto svelare i punti di contatto tra le tesi storico-culturali di Eric Havelock e quelle linguistiche di Roman Jakobson oppure, trattando il tema della lettura silenziosa dei testi, ho potuto tenere presente sia gli studi dello storico inglese Paul Saenger sia quelli del neuroscienziato sovietico Aleksandr Sokolov. La particolare attenzione, rivolta ai processi di auto-comunicazione, poi, mi ha permesso di chiarire aspetti controversi delle diverse forme del discorso verbale ed anche di effettuare una rilettura imprevista di un passo del Cours de linguistique générale che ad un tratto mi è sembrato incomprensibile senza un riferimento al «linguaggio interno».

Da quale idea prende le mosse il suo lavoro?

Un’idea-guida che circola in tutti i saggi è quella secondo cui le diverse forme del discorso verbale sono in relazione storica e funzionale con le tecnologie attraverso le quali sono espresse (fonia, grafia, gestualità, testualità, endofonia) e si fondano su una base semantico-cognitiva comune derivata dalla natura sociale del processo comunicativo umano. Da questa premessa deriva una conseguenza metodologica basilare per poter impostare correttamente l’analisi delle forme del discorso ovvero l’idea che la comunicazione umana non si attua attraverso linguaggi (verbali o non verbali), al contrario essa è la premessa al costituirsi di forme linguistiche. Questa impostazione fatica a palesarsi nel campo delle teorie linguistiche mentre è più evidente negli studi sulle lingue dei segni dei sordi (vedi Volterra) oppure in quelli sull’origine della comunicazione (vedi Tomasello), dove è molto chiaro quanto la competenza sociale sia una premessa e una condizione indispensabile al costituirsi di qualunque scambio semantico comunque veicolato. Ovvero, come afferma anche Bruner, la competenza comunicativa si può sviluppare solo come parte di una più vasta competenza sociale. 

Cos’è propriamente il «discorso interno»?

Il «discorso interno» è un argomento estremamente poco frequentato sia negli studi linguistici che psicologici. Questo lavoro è in gran parte anche il tentativo di restituire a questo tema la dignità che dovrebbe avere soprattutto nel campo delle scienze del linguaggio. Nell’analisi di tutte le forme di discorso trattate ci si sforza di mettere in luce quanto siano decisivi i processi di comunicazione interna per la corretta realizzazione della comunicazione esterna. Ad esempio, nei saggi sul discorso scritto e su quello testuale si mostra che i processi di riformulazione endofonica propri della lettura/scrittura, che sono stati sempre pressoché ignorati, sono invece decisivi per chiarire il ruolo della sintassi e dell’ordine del discorso nella comunicazione scritta. L’ultimo saggio, poi, intitolato appunto «Il discorso interno», delinea un inquadramento generale di questo tema ripercorrendo gli studi di Lev S. Vygotskij e quelli di Pavel P. Blonskij, che hanno dibattuto sull’argomento negli anni Trenta, e riproponendo anche, in una nuova chiave, la storica contrapposizione Vygotskij/Piaget sul linguaggio egocentrico. Il saggio chiarisce un punto fondante dell’analisi dei processi comunicativi umani: non può sussistere alcuna forma di comunicazione esterna che non si basi sulla comunicazione interna. Dunque, il vero oggetto di una teoria della comunicazione è la comunicazione interna, un fenomeno multistratificato che va di conseguenza analizzato a più livelli. Il discorso interno è certamente il tratto più identificabile della comunicazione interna. Per cercare di chiarirne i contorni e metterne a fuoco gli aspetti salienti ho fatto ricorso a parametri provenienti da numerosi campi: storico, filosofico, semiotico, linguistico, psicologico, glottoantropologico, neurofisiologico. Ma certamente si tratta di un primo approccio per un lavoro di ricerca in gran parte ancora di là da venire.

23 gennaio 2017

«Alcune considerazioni sul problema del realismo» di Luciano Albanese

Adesso dev'essere l'ora di pranzo di Francesca Woodman, 1979

Quando si parla di recupero del realismo bisogna stare attenti. Prendiamo ad es. una proposizione protocollare del tipo ‘alle ore x y Catone passeggia’. Questa sembrerebbe una descrizione adeguata alla realtà di quello che sta succedendo in un istante dato. Ma se riflettiamo meglio su ciò che sta realmente accadendo non tardiamo a capire che siamo di fronte ad un fenomeno più complesso, o addirittura a uno sciame di fenomeni concomitanti.

Catone, passeggiando, ha anche mosso l’aria circostante, aumentandone la temperatura, ha distrutto un formicaio sotto i suoi piedi, e soprattutto ha sparso germi letali intorno a sé – quelli che hanno sconfitto i marziani nella Guerra dei mondi di H. G. Wells. Ma può anche aver messo in moto una di quelle lunghe catene causali su cui si esercitava l’ironia di Voltaire. E questo, solo rimanendo al livello superficiale o fenomenico, senza scomodare la fisica atomica e le ‘due scrivanie’ di Eddington (quelle che hanno ispirato una scena di Scomodi omicidi, il dialogo tra Nick Nolte e John Malkovich).

Questa concomitanza di eventi, per cui non esiste mai un evento singolo e in totale isolamento dal contesto, è molto utile a chi indaga sugli omicidi. Le ‘tracce’ lasciate dall’assassino non sono altro, infatti, che eventi concomitanti e paralleli all’evento che ci interessa, il delitto. È quindi perfettamente giustificata la raccomandazione di non ‘intorbidare’ la scena del crimine (vedi le raccomandazioni di Denzel Washington ad Angelina Jolie nel Collezionista di ossa).

Conseguentemente, potremmo dire che qualsiasi descrizione di quello che sta facendo Catone in questo istante è totalmente inadeguata, e trova scarsa corrispondenza in quello che sta realmente accadendo. In effetti nessuna descrizione sarà mai adeguata alla miriade di eventi che accompagnano la passeggiata di Catone. In verità noi chiamiamo ‘descrizione realistica’ una proposizione che descrive – approssimativamente – solo un aspetto, trascelto fra mille altri, della realtà che si offre ai nostri sensi: esattamente quello che ci interessa, quello verso il quale siamo predisposti e orientati. Il punto di vista delle formiche vittime di Catone non viene preso in considerazione da noi, anche se sarebbe non meno legittimo.

Ma questo vuol dire anche che proposizioni del tipo ‘Catone distrugge un formicaio’ o ‘Catone distrugge i marziani’, oppure, allungando di qualche secolo la catena causale di Voltaire («Dialogo tra un bramano e un gesuita sul necessario concatenamento delle cose»), ‘Catone fa morire Enrico IV’, sarebbero descrizioni altrettanto realistiche di ciò che accade nell’istante dato.

La non univocità degli eventi non è l’unica difficoltà che incontra la riproposizione del realismo. Ad essa se ne accompagna un’altra – di cui già gli Stoici antichi, come vedremo, erano consapevoli. Essa è data dalla circostanza che, anche ammettendo l’esistenza di eventi isolati, i corpi non sono in grado, da soli, di esprimere chiaramente una ‘sintassi’ o un ordine propri. Tale difficoltà si manifesta in modo evidente nelle arti figurative.

Secondo il Laocoonte di Lessing le arti figurative descrivono azioni per mezzo di corpi, mentre le opere letterarie descrivono corpi per mezzo di azioni. In realtà né le une né le altre riescono a offrire di azioni e di corpi una descrizione incisiva e chiara. La descrizione delle azioni effettuate da un corpo ci parlerà al massimo del carattere del personaggio a cui il corpo appartiene, ma non potrà mai raggiungere l’evidenza della visione autoptica del corpo stesso. E tuttavia la letteratura ha un vantaggio sulle arti figurative. Essa ha già effettuato una selezione preventiva sullo sciame degli eventi, e ci costringe a guardare ciò che interessa allo scrittore. Ma nelle arti figurative la situazione è diversa.

Per citare solo il caso dell’arte mitriaca, che è quella di cui mi occupo da tempo, siamo letteralmente bombardati da immagini di corpi nei monumenti figurati, ma spaventosamente a secco di testi letterari che ci informino sul loro significato, a cominciare dall’evento centrale, la tauroctonia. La conseguenza è che ognuno vi legge quello che gli pare, e da Porfirio a oggi si può dire che ogni anno esce un nuovo libro sul ‘vero’ significato del culto di Mithra.