24 febbraio 2023

«Tutto su Anna. Conversazione con Patrizia Carrano» di Doriano Fasoli

 

 

A cinquant'anni dalla morte esce, in una edizione ampliata e aggiornata, una biografia intitolata Tutto su Anna. La spettacolare vita della Magnani, edita da Vallecchi e firmata da Patrizia Carrano. Un volume di 400 pagine con una copertina che sottrae la nostra attrice al cliché di grande tragica con cui spesso la si ricorda: a guardare la fotografia che campeggia sul titolo sembra di sentire la risata dirompente di quel personaggio inconfondibile, «donna di cappa e di spada», come la chiamava Totò. Un’interprete capace di traversare il teatro classico e il varietà, il Neorealismo e la commedia leggera, con un suo stile personalissimo, nella vita come nella recitazione. Scapigliata quando le altre portavano acconciature leccate, non bella in un periodo di femminilità leziose, disobbediente e ribelle per temperamento, Anna Magnani è stata paradossalmente più dimenticata negli ultimi anni della sua vita che non oggi. Ne abbiamo parlato con l'autrice della biografia, Patrizia Carrano.

 

Doriano Fasoli: È possibile definire la Magnani in una frase?

 

Patrizia Carrano: Direi anche in una sola parola: contradditoria. Anna è stata antidiva ma primadonna. Bella ma anche brutta. Indipendente ma sottomessa. Coraggiosa ma paurosa. Drammatica ma ironica. Attrice classica ma dialettale. Principesca ma plebea. Moderna ma antichissima. E potrei continuare ancora.

 

A cinquant'anni dalla sua scomparsa che bilancio si può fare della sua presenza nel cinema?

 

Diciamo che la sua celeberrima corsa dietro il camion dei nazisti di Roma città aperta (1945) è divenuta il simbolo stesso del Neorealismo. L'icona del nuovo cinema del dopoguerra. Un cinema che è stato amato da Martin Scorzese, che si è imposto nel mondo per la sua forza dirompente, per ‘urlo delle cose’ che finalmente raccontava. La Magnani, con la sua recitazione moderna, scabra, aveva già attirato l'attenzione di Luchino Visconti che l'aveva scritturata per Ossessione (1943). Ma quando la lavorazione cominciò Anna era incinta di cinque mesi, e dovette rinunciare al ruolo che fu affidato a Clara Calamai. La Magnani apparteneva naturalmente alla temperie dei tempi nuovi. E difatti negli anni Cinquanta ebbe a disposizione dei personaggi indimenticabili, come l’omonima protagonista de L'onorevole Angelina (1947), oppure la carcerata di Nella città l'inferno (1959). La Magnani è stata l'interprete perfetta di un certo ribellismo femminile che affondava le sue radici nel rifiuto delle catene della tradizione, ma che non sapeva porsi traguardi che esulavano dal vitalismo dei propri sentimenti. Ad Anna si addiceva la protesta, si addiceva il disagio, il coraggio. Poteva essere Fedra, Medea, la Lupa di Verga, poteva essere un'amante delusa, una dolente madre mediterranea: tutti personaggi stretti e costretti nel ruolo che il mondo assegnava loro, tutte donne capaci di gesti assoluti, sanguinari. Questo non significa che sia datata. 

24 luglio 2022

«“Rivelazioni dell’incompiuto. Leonardo da Vinci” di André Green. Conversazione con Valter Santilli» di Doriano Fasoli



Medico e psicoterapeuta, Valter Santilli è docente presso la Scuola di Ipnosi e Psicoterapia Ericksoniana (S.I.I.P.E./Roma). Ha curato con Camillo Loriedo la pubblicazione del volume La relazione terapeutica (Franco Angeli, 2000). Le sue più recenti pubblicazioni sono: Il terapeuta in gioco. Tra arte, letteratura e psicoterapia(Carabba, 2013); con Antonello Carusi, Laing R.D., L’ombra del maestro (Alpes, 2015). Ha curato l’edizione italiana del libro di Gabrielle Rubin Il romanzo familiare di Freud (Alpes, 2018). Scrive periodicamente su questo blog, sul quale ha pubblicato «Le complesse oscurità dell’Edipo Re», un commento alla rappresentazione teatrale di Robert Wilson, 2018, e due brevi saggi su Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci di Sigmund Freud (Parte 1, 2019; Parte 2, 2020). 

 

Doriano FasoliÈ stata pubblicata dall’editore Alpes, nel maggio 2022, la traduzione italiana del libro di André Green Rivelazioni dell’incompiuto. Leonardo da Vinci. Chiedo al curatore dell’edizione italiana, Valter Santilli, non solo di introdurci ai temi principali del libro, ma anche di parlarci della genesi di questo progetto editoriale.

 

Valter SantilliGrazie Doriano, rispondo volentieri alle tue sollecitazioni. Il libro di André Green Révélations de l’inachèvement. Léonard de Vinci era uno dei pochi libri del famoso psicoanalista francese non ancora pubblicati in italiano. La pubblicazione italiana arriva nel decennale della scomparsa di Green e vuole essere anche un omaggio a questo grande psicoanalista, autore prolifico di saggi che hanno esplorato non solo nuovi territori della ‘cura’ ma anche nuove aree del ‘sapere interdisciplinare’.

 

Il progetto di traduzione di questo libro, bello e misconosciuto, nasce grazie alla virtuosa sintonia che nel 2020 si è creata con Lorena Preta, che ha scritto una intensa e densa prefazione a questa edizione italiana del libro, e con Andrea Baldassarro, che stava progettando una nuova collana editoriale, chiamata «Sconfinamenti». Venni a saper di questo libro quando lessi il contributo di Lorena Preta nel libro curato da Baldassarro La passione del negativo,omaggio al pensiero di André Green, pubblicato da Franco Angeli nel 2018. Mi incuriosirono molto le citazioni di Lorena Preta da questo testo di Green. Con qualche difficoltà riuscii poi ad averne una copia e quando lo lessi mi catturò talmente che proposi sia a Baldassarro che a Preta la pubblicazione in italiano. 

19 maggio 2022

«Inconscio del pensiero, inconscio del linguaggio. Conversazione con Gabriele Pulli» di Doriano Fasoli



Gabriele Pulli insegna psicologia filosofica, psicologia generale e psicologia dell’arte e della letteratura all’Università di Salerno ed è autore di numerosi libri, tra i quali Freud e Severino (Moretti & Vitali, 2009)Severino e Matte Blanco (Moretti & Vitali, 2018; con la prefazione di Emanuele Severino) e L’inconscio e il tempo. Freud, Epicuro, Sartre, Leopardi (Liguori Editore, 2019; con la prefazione di Cesare Milanese). Da qualche giorno è uscito l’ultimo suo libro Inconscio del pensiero, inconscio del linguaggio, presso le edizioni Mimesis (pp. 147, euro 12). 

 

Doriano Fasoli: Le chiediamo innanzitutto quale sia il tema e quale la ragion d’essere di questo libro.

 

Gabriele Pulli: Il libro parte dalla distinzione fra un pensare relativamente originale, che pensa qualcosa di non ancora pensato, ma che sarebbe stato pensabile nelle forme del pensiero di cui già si disponeva, e un pensare assolutamente originale, che giunge a pensare qualcosa che sino ad allora sarebbe risultato impensabile; laddove pensare qualcosa che sino ad allora risultava impensabile significa acquisire qualcosa di quello che sino ad allora era stato l’inconscio del pensiero. Ora, l’àmbito di questo secondo genere del pensare, del pensiero che sposta in avanti i limiti del pensiero, rendendo pensabile ciò che prima risultava impensabile, è quello del pensiero filosofico, o almeno di un suo specifico modo di essere particolarmente ristretto ed elevato. Come si vede, in questa idea di filosofia, svolge un ruolo essenziale il concetto di inconscio. Si direbbe addirittura che un’opera filosofica sia tale un quanto faccia i conti con il concetto di inconscio; più precisamente: in quanto svelando qualcosa del modo di essere dell’inconscio sospinge più in avanti i limiti del pensiero. E dunque, rispondendo in sintesi alla sua domanda: il tema è soprattutto l’inconscio del pensiero, la sua ragion d’essere è spingere in avanti i limiti del pensiero, proporre qualcosa di non ancora pensato in quanto impensabile, cogliere qualcosa di non ancora colto dell’inconscio del pensiero.

 

Ma allora di cosa si tratta in particolare? 

 

Di qualcosa di compendiabile nella formula per la quale eternità e temporaneità si danno contemporaneamente e inscindibilmente e tale loro inscindibilità risulta al tempo stesso come un affermarsi con maggior forza dell’eternità. È una strana formula; d’altra parte se così non fosse, se non fosse strana, se non apparisse a prima vista assurda, non potrebbe corrispondere al tentativo di spingere in avanti i limiti del pensiero. Il libro racconta innanzitutto come si arrivi a tale formula e poi cosa possa significare, quale sia il suo senso, che appare poi corrispondere al senso del dolore del desiderio e infine, persino, come ciò che rende la vita vivibile. 

4 aprile 2022

«Soggetto e masse e il Teatro di Oklahoma. Conversazione con Sergio Benvenuto» di Doriano Fasoli



Sergio Benvenuto, ricercatore senior al CNR, psicoanalista e filosofo, è presidente dell’Istituto Elvio Fachinelli – Studi Avanzati in Psicoanalisi (ISAP). Ha fondato e diretto la prestigiosa rivista European Journal of Psychoanalysis, ed è co-redattore di altre importanti riviste in inglese, come American Imago e Philosophy World Democracy. Insegna psicoanalisi al Mižnarodnyj Instytut hlybynnoji psycholohiji (Istituto Internazionale di Psicologia del Profondodi Kiev. La conversazione si incentra sui due ultimi libri di Sergio Benvenuto, Soggetto e masse. La psicologia delle folle di Freud e Il teatro di Oklahoma. Miti e illusioni della filosofia politica di oggi, editi da Castelvecchi nel 2021.

 

Doriano Fasoli: Due tuoi libri escono a distanza di poco tempo con la stessa casa editrice, e affrontano temi del tutto simili: si ha l’impressione che tu abbia scritto un solo libro, ma pubblicato in due puntate.

 

Sergio Benvenuto: È proprio così. Il tema comune ai due libri è una teoria generale del politico, ovvero in che cosa consiste l’impegno politico. Non mi occupo quindi della società in generale, ma delle organizzazioni e concezioni politiche.

 

Il primo volume, Soggetto e masse, prende le mosse dal saggio di Freud Psicologia delle masse e analisi dell’io. Cerco di spiegarne il senso profondo, precisando che non si tratta – come credono molti – di una teoria della società in generale, ma di quelle che Freud chiama Massen, ovvero gruppi mossi da una passione in senso lato politica. Si va dalla folla improvvisata che si costituisce per un fine preciso – ad esempio, compiere un pogromcontro ebrei – fino a Massen molto strutturate come le chiese e gli eserciti. Che cosa c’è in comune tra tutti questi gruppi? Il fatto di organizzarsi attorno a una figura che Max Weber chiamò capo carismatico. Freud non si interessa a gruppi burocratici o funzionali, dove ci possono essere capi, ma non c’è la partecipazione calda, direi, dei partecipanti. Freud descrive insomma i gruppi politici in senso lato, che includono le militanze religiose e militari. E psicoanalitiche.

 

Ma già in questo primo volume allargo l’analisi del saggio di Freud affrontando temi molto vasti, per esempio il populismo, il fascismo, e altri tipi di configurazioni politiche. 

 

Nel secondo volume, Il teatro di Oklahoma, articolo una critica delle principali filosofie politiche oggi prevalenti, che corrispondono agli indirizzi politici che oggi dominano nel mondo industrializzato: il marxismo, il liberalismo, le politiche su base religiosa, il populismo, il nazionalismo o fascismo. 

28 febbraio 2022

«Cammina leggera. Conversazione con Maria Chiara Risoldi» di Doriano Fasoli




Maria Chiara Risoldi è nata a Bologna nel 1953. Ha fatto la giornalista dal 1977 al 1988, prima a La città futura, poi a Rinascita. Dal 1988 al 2020 ha svolto la libera professione come psicoterapeuta, facendo parte della Società Psicoanalitica Italiana, dell’Associazione Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica Infantile, della Società Italiana di Psicoanalisi e Psicoterapia Sándor Ferenczi e dell’Associazione EMDR Italia. Docente a contratto presso la Facoltà di Psicologia di Bologna dal 2000 al 2009. Ha collaborato, dalla sua fondazione, con la Casa delle donne per non subire violenza Onlus di Bologna e ne è presidente dal 2016. Ha pubblicato con Manni nel 2003 Traumi di guerra. Un’esperienza psicoanalitica in Bosnia-Erzegovina e con Tombolini nel 2018 #MeToo. Il patriarcato dalle mimose all’hashtag.

 

Doriano Fasoli: Dottoressa Risoldi, quando è nata l’idea di questo romanzo Cammina leggera, pubblicato in questi giorni da Manni?

 

Maria Chiara Risoldi: L’ennesima volta che mi sono sentita rispondere: «No, non ne abbiamo mai parlato». Ho incontrato molte persone che durante il primo colloquio mi avevano raccontato di avere già fatto precedenti esperienze psicoanalitiche, concluse o interrotte per le più diverse ragioni. Sono sempre stata molto attiva, facevo domande, esprimevo le mie opinioni, spiegavo il mio punto di vista, non sono mai stata ligia alla regola del silenzio, se non, forse, un po’ durante il training. Stare in silenzio, parlare… Questioni complesse che sto semplificando molto. Se mi veniva un’idea, una curiosità non la tenevo per me. La proponevo al paziente. Questo modo di lavorare facilitava l’emergere di questioni importanti, di eventi cruciali dell’infanzia e accelerava il cammino. Anche questa è una questione complessa che sto semplificando.

 

Quello che mi ha fatto venire voglia di scrivere un libro è stato il dolore, la rabbia, la delusione delle persone che avevano fatto anni di analisi, anche dieci, perfino venti o più di una analisi e non avevano aperto quella porta, che loro non sapevano che ci fosse e che il loro psicoanalista si era astenuto, secondo la regola, di fargli vedere oppure che nemmeno lui aveva visto, accecato da una teoria che non contemplava l’esistenza di quella porta. Condividere con l’ennesima persona la sofferenza che comportava pensare di avere perso tempo è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Avevo bisogno di scrivere.

10 gennaio 2022

«Vale la pena di tradurre un testo letterario?» di Luciano Albanese



Come si dice: traduttore traditore. Dopo il classico ‘naftalina’ per ‘mandarini cinesi’ nelle storie di Eta Beta di Gottfredson, mi è caduto l’occhio, si parva licet, su un passo della Ricerca del tempo perduto di Proust. Durante una delle conversazioni a tavola a casa dei Verdurin, in Un amore di Swann (dove purtroppo si capisce che il livello culturale delle stesse, quindi della classe dominante, non è più quello dei Saturnali di Macrobio o dei Deipnosofisti di Ateneo) Odette si lamenta del fatto che Swann sembra non ritenere degna né lei, né altri, di abbeverarsi alla sua cultura. In effetti Swann interviene raramente, e se ne sta quasi sempre aristocraticamente sulle sue. In ogni caso, il rimprovero di Odette offre l’occasione a uno dei commensali, che si distingue solo per le sue facezie, di cimentarsi in un gioco di parole. Swann cerca di difendersi, e cerca di dire che il rimprovero di Odette non ha giustificazioni. Odette risponde insofferente: « Cette blague ! ». Allora il: commensale, un dottore che pensa di essere divertente, si inserisce dicendo: « Blague à tabac ? ».

 

Il traduttore è messo davanti a una grossa difficoltà. ‘Blague’ in francese significa tanto ‘bugia’ quanto ‘tabacchiera’, e per un francese o per chiunque legga il francese il gioco di parole è forse discutibile, ma certamente comprensibile. Ma il povero traduttore italiano che deve fare? Oreste Del Buono se la cava abbastanza bene, e traduce:

 

«Che bugia!» disse Odette.

«Bugia da candele?», si informò il dottore.

 

‘Bugia’ in italiano è anche il piccolo candeliere che ancora accendono alcuni ristoranti sul tavolo di una intima cena a due. Il senso del gioco di parole è colto bene, ma resta il fatto che il testo originale rimarrebbe oscuro usando le sue stesse parole, quindi il lettore italiano ha di fronte sempre e comunque un testo diverso da quello francese.

 

Le cose vanno ancora peggio nella traduzione di Giovanni Raboni. Odette dice, rivolta a Swann: «E non mi prendete in giro!» E il dottore chiede: «Giro turistico?». Qui il testo francese è completamente stravolto, e sinceramente è difficile non provare un senso di fastidio davanti a questa soluzione (penso che almeno una nota che avvertisse il lettore dello scempio fatto all’originale sarebbe stata necessaria). Moltiplicate questo episodio per mille, e avrete un’idea, ancora approssimativa, della distanza che separa un testo letterario originale dalle sue traduzioni. In realtà tradurre un testo letterario è come ‘tradurre’ un monumento o un dipinto. In entrambi i casi, sono operazioni impossibili e prive di senso. Si fanno perché si pensa che la divulgazione di un’opera sia comunque utile. Ma non è quell’opera che si divulga, si divulga sempre qualcos’altro che o le somiglia poco o non le somiglia affatto.

 

Luciano Albanese

 

(Gennaio 2022)

 

 

 

 

 

9 gennaio 2022

«"Sergej M. Ejzenštejn. La psicoanalisi e la psicologia." Conversazione con Alberto Angelini» di Doriano Fasoli

 

 

Alberto Angelini è membro ordinario della Società Psicoanalitica Italiana. Ha insegnato psicofisiologia nella Facoltà di Psicologia dell’Università «La Sapienza» di Roma. Ha svolto ricerche nell’Istituto di psicologia del CNR e nel Centro sperimentale di cinematografia di Roma, dove, precedentemente, aveva conseguito il diploma in regia. È stato consulente dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, docente di psicologia clinica presso l’United Nation Interregional Crime and Research Institute (UNICRI), partecipando a campagne internazionali per la prevenzione sanitaria. Direttore di Eidos: Rivista di Cinema, Psyche e Arti visive. Autore di oltre sessanta articoli scientifici e di diversi volumi, tradotti in più lingue. Tra gli altri: La psicoanalisi in Russia. Dai precursori agli anni Trenta (Liguori, Napoli 1988); Psicologia del cinema (Liguori, Napoli 1992); Otto Fenichel: psicoanalisi, politica e società (Cosmopoli, Bologna 1996); Pionieri dell’inconscio in Russia(Liguori, Napoli 2002); Un enciclopedista romantico. Psicoanalisi e metodo sociale nell’opera di Otto Fenichel (Liguori, Napoli 2009), Psicoanalisi e Arte teatrale (Alpes, Roma 2014); Otto Fenichel: psicoanalisi, metodo e storia (Alpes, Roma 2019).

 

La conversazione si incentra sui temi del recente volume di Alberto Angelini Sergej M. Ejzenštejn. La psicoanalisi e la psicologiaedito in questi giorni da Alpes Italia.

 

Doriano Fasoli: Dottor Angelini, chi era Sergej Èjzenštejn?

 

Alberto Angelini: Sergej M. Èjzenštejn è stato il più importante regista della prima metà del Novecento. Egli spicca, nella storia del cinema, per i suoi lavori rivoluzionari, per l'uso innovativo del montaggio e per la composizione formale dell'immagine. 

 

Inizialmente Èjzenštejn si accostò al teatro, come allievo di Mejerchol'd, che fu ideatore della biomeccanica dell’attore, ispirata agli studi del grande fisiologo e psicologo russo Ivan Pavlov. Il regista, già dal periodo teatrale, si interessò molto alla psicologia e alla psicoanalisi. Pavlov, Freud e Mejerchol’d sono i primi nomi che ricorda nella sua ampia autobiografia; attraverso loro «combatté la sua prima lotta contro i mulini a vento della mistica». Èjzenštejn lesse Freud, per la prima volta, nella primavera del 1918 mentre prestava servizio come volontario nell’Armata rossa. In seguito, dal 1920 al 1923, lavorò a Gomel come funzionario locale per le iniziative culturali, viaggiando per tutta la Russia.

31 dicembre 2021

«"Il Canto di Ulisse" di Dante» di Nicola d'Ugo

 


  

La conoscenza: la sua importanza e i suoi limiti

 

Dopo l'invettiva contro Firenze, inizia il vero e proprio tema del Canto XXVI dell’Inferno dantesco: la conoscenza, i suoi pericoli e i suoi limiti. Conoscere va bene, ma fino a un certo punto. Dio ha posto dei limiti all'uomo e tali limiti, per quanto estesi, non devono essere superati. Dante, lo sappiamo, è un poeta che ricerca il nuovo, ciò che non conosce. Ciò che è estraneo, la novità, porta al miglioramento dell'uomo. La sua prima opera si chiamava Vita nova, la vita che cambia, si rinnova, attraverso l'amore per Beatrice: di fronte alla novità non si guarda più con gli stessi occhi, ma con un sentimento e una «coscïenza» diversi. Anche la Commedia parla di cose nove, del tutto inaudite: il viaggio di Dante nel regno dei morti.


La conoscenza del nuovo («esperïenza» dirà Ulisse) è quindi fondamentale per il miglioramento della propria anima, per la sua nobilitazione. Nello Stilnovo, la nobilitazione dell'uomo avveniva attraverso l'esperienza, attraverso la donna gentile o angelicata, immagine in terra dello splendore divino. Dante riassume questo concetto nella formula «novo miracolo e gentile», in cui all’eccezionalità esteriore debba corrispondere un contenuto intimo virtuoso, nobile, «gentile» appunto (Vita nova, XXI, « Ne li occhi porta la mia donna Amore», v. 14). Come sappiamo dalla storia della Commedia, per raggiungere il bene bisogna passare attraverso il male e non solo rimanere in quello che consideriamo, a priori, il bene. Solo guardando il male in faccia, da vicino, possiamo riconoscere in noi i tratti del male, le implicazioni dei nostri pensieri, dei nostri gesti, delle nostre omissioni. Il male non è qualcosa che riguardi gli altri, ma se stessi: posso scorgere il male nell'altro, ma questo è molto meno importante dello scoprire il male in me stesso, poiché ciò che è fondamentale è sempre, per Dante, il bene e il male all'interno di sé.


La conoscenza svolge quindi un ruolo fondamentale nei riguardi della propria salvezza. In questo, il Canto di Ulisse trova la sua centralità, in quanto è emblematico di un modo sbagliato di concepire la conoscenza. Infatti, la conoscenza per Dante non si limita a una serie di nozioni: la conoscenza non è informazione, qualcosa di astratto, un insieme di dati relativi alla vita. La conoscenza è, innanzitutto, passione, è emozione, è desiderio. L'uomo raggiunge la conoscenza attraverso una forza emotiva che lo spinga verso ciò che è inusitato, che lo trascini verso la novità. L’uomo deve essere sensibile, quindi, a ciò che lo circonda, riconoscere in ciò che incontra l’eccezionalità della specie di sapere e perseguire il proprio percorso conoscitivo attraverso la selezione di ciò che entra in quel genere di conoscenza.

4 dicembre 2021

«Doriano Fasoli. “Derive. Schegge di vita in versi e in prosa”» di Luciano Albanese

 


Doriano Fasoli

Derive. Schegge di vita in versi e in prosa

Prefazione di Stefano Santuari

Alpes, Roma 2021

X-139 pp.

€ 15,00

ISBN: 8865317345



Scrittore, critico, giornalista e sceneggiatore, studioso e docente di psicoanalisi e letteratura, Doriano Fasoli si ripresenta ora al pubblico in veste di poeta. Lo stile di Fasoli, sul quale tornerò, ricorda quello delle ‘poesie in prosa’ di Rimbaud, ed è particolarmente in linea col contenuto dell’opera, bene compendiato dal titolo. Come una barca che ha perso gli ormeggi e fluttua alla mercé della corrente – spiega Fasoli – così è la vita. Non si sa da dove si parte, non si sa da dove si viene e non si sa dove si arriva. È un moto che i greci definivano ‘planetario’, ovvero ‘errante’, come quello dei ‘pianeti’, appunto, chiamati così perché nella prospettiva geocentrica apparivano retrogradi. Tuttavia, osserva Fasoli, verso la fine di questo viaggio ‘planetario’ ci si accorge che non è tanto importante la meta – peraltro ignota – ma certe stazioni incontrate lungo la via.

 

Derive è il ricordo, tradotto nella forma poetica, di un centinaio di queste soste, siano esse incontri, interviste, ricordi di viaggio o emozioni vissute interiormente. Si inizia con infanzia e adolescenza, dove emerge la figura della madre e soprattutto del padre, controfigura di Jean Gabin nel Porto delle nebbie. Poi il militare, e successivamente l’incontro decisivo con Stefano Santuari, autore della bella prefazione. Gustosissima la loro irruzione nell’eremo di Camaldoli: un tentativo di fuga mistica dal mondo risolto in tagliatelle ai funghi porcini e telefonate di nascosto alle ragazze, prima della inevitabile cacciata dal convento. Anche Michele Psello, mutatis mutandis, fece un’esperienza simile, prima che il gorgo della vita lo risucchiasse di nuovo. 

 

Esperienze di vita e di morte si intrecciano continuamente nel libro di Fasoli. Dal sofferto ricordo della lunga, eroica sofferenza di Martine alle interviste con Carmelo Bene e Fabrizio De André, entrambi destinati a una vita breve, ma quasi consapevoli di questo, e del fatto che dopo sarebbero vissuti perennemente nel ricordo. Altre figure note emergono dal ‘Vortice di incontri’ che vede sfilare personaggi come Barilli, Maria Luisa Spaziani, Attilio Bertolucci, Mario Luzi, Cesare Brandi, colto nella serenità della bella villa di Vignano di Siena, Emilio Garroni, Giovanni Macchia, Toti Scialoja, Sergio Endrigo, e altri ancora. In Appendice ritroviamo Carmelo Bene, intervistato nel corso del suo memorabile Riccardo III, Emilio Garroni, il cui ricordo mi riporta agli anni della Sapienza, ed Elémire Zolla, il nuovo, aristocratico vate della filosofia perenne di Agostino Steuco. E ancora, l’indimenticabile ritratto di Marguerite Duras, che aveva ribattezzato Fasoli ‘Terence Stamp’.

11 luglio 2021

«Black Widow (2021)» di Nicola d’Ugo

 

 

Black Widow (2021) non ha nulla a che fare con le iperboliche avventure degli Avengers. È un thriller alla James Bond con un taglio da romanzo di formazione, tipico di altri film della regista australiana Cate Shortland (Somersault, 2004, e Lore, 2012). Un apologo sulla liberazione delle donne: le migliaia di Vedove Nere, sottomesse e sottoposte fin da bambine ai disumani trattamenti da cavie nella Stanza Rossa.

 

La seconda e terza Vedova Nera, Natasha Romanoff (Scarlett Johansson e, da piccola, Ever Anderson) e la sua sorella adottiva ed emula Yelena Belova (Florence Pugh; da piccola, Violet McGraw), cercano di distruggere definitivamente la Stanza Rossa, di liberare le Vedove Nere e uccidere il suo scellerato direttore russo, il massiccio generale Dreykov (Ray Winstone). Neppure troppo velato il parallelismo tra Dreykov e il corpulento manipolatore Harvey Weinstein, l'allusione alla sua Miramax hollywoodiana, al movimento #MeToo ecc.

 

Con un bel po' d'azione, pochi personaggi e senza effetti visivi notevoli, il taglio è spesso comico, parodico, il tema domestico. Una famiglia di spie russe in Ohio che si ritrova un ventennio dopo (dopo il finto matrimonio e due figlie adottive portate via a forza da Dreykov) a fare i conti con quegli strani genitori (interpretati dal simpatico David Harbour e l’affettuosa, astuta Rachel Weisz), scellerati dal punto di vista di sorella e sorellina, navigate supereroine assassine. Non li cercano per una nemesi (in questo sono poco Avengers, Vendicatrici), ma per fini strumentali al proprio progetto. Rivederli rende la nemesi certa.

 

La Marvel ha deciso di produrre un film diverso dal resto della serie, più rétro anziché più innovativo. A parte l'inizio ambientato nel 1995, la storia si svolge nel 2016 in varie parti del mondo, soprattutto a Budapest. E ha due finali: il secondo, ambientato nel 2023, potrebbe sfuggirvi, perché è dopo i lunghissimi titoli di coda. Il livello qualitativo della regia lascia un po' a desiderare, a cominciare dal fatto che sacrifichi le straordinarie doti espressive della Johansson nelle vesti del personaggio più affascinante degli Avengers a vantaggio della pur brava Pugh, forse per 'lanciare' la simpatica e più infantile terza Vedova Nera nei prossimi film della Marvel. Peccato, davvero.

 

Nicola d’Ugo

 

(Luglio 2021)