28 dicembre 2020

«Il covid ha preso Collagna nella sua generosa montagna» di Nicola d’Ugo



A Orly e alla mia gente

Come una valanga,

come una vanga,

il covid ha preso Collagna

nella sua generosa montagna,

seme della mia carne,

carne dei miei pensieri.

 

Confido nella forte fibra

dei miei compaesani,

nella pelle dura che non teme

i geloni invernali,

nel nugolo di calli nelle mani,

negli avvinazzati e briosi

canti montanari.

 

Confido nella loro tempra,

loro ce la faranno tutti

o quasi, anziani, adulti e bambini.

Tu Orlando, cuore nel mio cuore,

maestro di vita e fratello,

possa il cielo e la nostra carne

e i semi che fanno alberi e fiori e amori

tenerti in vita coma una goccia

sul viso, perché sei stato bello,

un dolcissimo fratello maggiore,

coi controcazzi, come si dice in gergo,

gesti tuoi nei miei gesti, carne tua

nella mia carne e in quella dei miei cuginetti.

 

Vanga, valanga e frutti che s'aprono

al sole e alla neve, che ci ubriacano d'amore.

No, Collagna, non sarà rasa al suolo,

non sarà decimata da questo morbo.

Conterà i suoi morti sapendo

che non sono numeri gli uomini.

Collagna resisterà a tutto questo

come sempre, nei secoli. 

 

Nicola d’Ugo

 

(Lerici, 3 dicembre 2020)

 

 

 

 

 

3 dicembre 2020

«“The Bourne Legacy”, il futuro in atto» di Luciano Albanese

 


Schiacciato dagli altri episodi della serie Jason Bourne, privo di Matt Damon, evocato, ma non presente, come l’Achille omerico sotto la tenda; infestato da alcuni spezzoni dei film precedenti della stessa serie, The Bourne Legacy (2012) poteva avere l’apparenza di un centone poco digeribile e inutile. Io stesso mi ero sempre rifiutato di vederlo. Poi mi è capitato di trovarlo su Netflix e ho capito che avevo fatto male. Il film offre in apertura alcune scene bellissime ad alta quota, che impegnano colui che si era già rivelato un grande attore in The Hurt Locker (2008), Jeremy Renner, in una difficile gara di sopravvivenza fisica, a tu per tu con la natura selvaggia delle montagne dell’Alaska e circondato dai lupi. Ma sopravvive alla grande, e da questo si capisce che deve avere un fisico fuori del comune. Attraversate le montagne, si dirige verso una baita in mezzo alla neve e alla foresta, dove l’aspetta un uomo, altrettanto in buona salute. Aaron Cross, questo il nome del protagonista, dice all’abitatore della baita che ha perso la sua dotazione di medicine, e ne chiede di nuove.

 

Nel frattempo abbiamo capito, dalle scene precedenti e dagli spezzoni degli altri film, che i due sono agenti, e che siamo nel corso di un’altra delle operazioni coperte che già hanno reso la vita difficile a Jason Bourne. Ma qualcuno ha deciso di terminare questa operazione che rischia di essere scoperta e, come nei Tre giorni del Condor (1975), di chiudere la bocca a tutti gli agenti coinvolti. Quindi lo stesso drone che il giorno prima aveva rifornito la baita di materiali, torna improvvisamente e la distrugge in modo spettacolare insieme al compagno di Aaron che stava al suo interno.

22 maggio 2020

«Su “Un ricordo d'infanzia di Leonardo da Vinci” di Sigmund Freud (Parte 2)» di Valter Santilli


Leonardo da Vinci, Cartone di sant'Anna, 1499-1500,
gessetto nero, biacca e sfumino su carta, Londra, National Gallery




L’errore di Leonardo: «Mercoledì a ore 7 morì ser Piero da Vinci […]. Mercoledì vicino alle 7 ore».


Nel quinto capitolo del saggio su Leonardo, Freud analizza il rapporto che Leonardo, artista e scienziato, ebbe con la figura paterna. Egli riporta pertanto una breve nota scritta su uno dei diari leonardeschi, un’annotazione importante per il contenuto e interessante per la forma tanto da suscitare l’attenzione dello psicoanalista; la piccola nota contiene un «minuscolo errore formale». Leonardo nel mese di luglio del 1504 annota giorno, mese, anno e ora della morte di suo padre, Ser Piero da Vinci, di anni 80; egli annota inoltre il numero dei figli che l’anziano padre lasciava «10 figlioli maschi e 2 femmine».

«Il piccolo errore formale consiste nel fatto che l’indicazione di tempo “a ore 7” viene ripetuta due volte». Freud in prima battuta commenta il «minuscolo errore» di Leonardo come fosse stata la comprensibile distrazione di un figlio mentre appuntava l’ora della morte del padre, ma subito non trattiene l’interpretazione psicoanalitica e addebita l’errore alla inibizione affettiva di Leonardo nei confronti di suo padre. Liberato da questa inibizione, scrive Freud, Leonardo avrebbe voluto o potuto scrivere: «Oggi alle ore 7 è morto mio padre, Ser Piero da Vinci, povero padre mio!».

È certo che il padre di Leonardo ebbe «un ruolo importante nella sua evoluzione psicosessuale». Freud delinea sinteticamente un bel ritratto di Ser Piero da Vinci: «fu uomo di grande forza vitale che raggiunse stima ed agiatezza». Sottolinea con enfasi gli aspetti socialmente volitivi e umanamente virili di questo «notaio discendente di notai»:

Si sposò quattro volte, le prime due mogli gli morirono senza figlioli e solo dalla terza ebbe nel 1476 il primo figlio legittimo, quando Leonardo aveva già ventiquattr’anni […]; con la quarta e ultima moglie, che sposò già cinquantenne, generò altri nove figli e due figlie.

Curioso destino familiare quello di Leonardo: fino all’età di ventiquattro anni egli fu l’unico figlio, ma illegittimo, di un agiato notaio fiorentino. La condizione di illegittimità negli ambienti urbani borghesi era allora causa di svantaggi sociali: ad esempio un figlio illegittimo non avrebbe mai potuto accedere agli studi umanistici ordinari, e Leonardo, nel caso, non sarebbe mai potuto diventare a sua volta notaio, come da tradizione familiare. All’età di 17 anni il padre con acume aveva riconosciuto in lui una inclinazione artistica e lo aveva indirizzato verso lo studio delle arti e delle tecniche. Il giovane Leonardo venne per questo affidato alla bottega di Andrea Verrocchio, una delle più rinomate della città di Firenze. La città era allora governata dal giovane Lorenzo dei Medici detto il Magnifico per la disposizione che aveva verso le arti e per lo sfarzo dei suoi costumi. Firenze stava vivendo un’età d’oro: la città era non solo la culla del Rinascimento delle arti e delle lettere, ma anche il luogo privilegiato dove gli architetti e gli artigiani iniziavano a sperimentare nella loro pratica delle nuove tecniche, le più varie. Il mondo non piangerà certo Leonardo da Vinci ‘mancato notaio’.

10 dicembre 2019

«Uomini e sogni. Conversazione con Vincenzo Marsili» di Doriano Fasoli



Vincenzo Marsili ha iniziato la propria formazione psicologica lavorando con i bambini nel Servizio di Neuropsichiatria infantile dell’Ospedale di Pisa e poi di Lucca e successivamente ha lavorato per più di trent’anni con gli adulti nel reparto psichiatrico di Diagnosi e Cura dell’Ospedale di Lucca. È socio fondatore dell’Associazione per la Ricerca in Psicologia Analitica (ARPA) e membro didatta dell’International Association for Analytical Psychology (IAAP). Ha scritto i libri Tempo e Anima (Moretti e Vitali, Bergamo 2008); Sottile come il domani. Storie di un mondo ossessivo (Armando, Roma 2014); Madri Assassine. Tre letture di Euripide (Alpes Italia, Roma 2017). Il suo ultimo volume, Uomini e sogni, è stato recentemente pubblicato da Alpes Italia e su di esso si incentra questa conversazione.

Doriano FasoliDottor Marsili, come è nata l’idea di Uomini e sogni?

Vincenzo Marsili: È nata da due occasioni di riflessione. Una è legata ad un viaggio nel deserto del Nord Australia. Le tribù nomadi primitive che attraversavano il deserto si fermavano a fare culti (e forse a raccontarsi i sogni, come sostiene qualche esperto) presso le montagne sacre del Kata Tjuta che datano cinquecento milioni di anni. In questo scenario di arenaria rossa che sembra nato da un sogno risiedono ancora degli aborigeni che appartengono alla tribù degli Anangu. Nelle grotte di queste montagne sono ancora visibili le loro pitture. Gli Anangu definiscono Tjukurpa, o Dreaming, il tempo della creazione. All’inizio dei tempi la terra era piatta, oscura e priva di forme. Dalle sue viscere sono emersi poi gli esseri ancestrali, i quali, sognando, si sono fatti strada attraverso la landa desolata, e, prima di tramutarsi in quelle montagne, hanno lasciato dietro di sé delle orme, le prove del loro passaggio e i segni delle strade che hanno aperto. Tutto quello che c’è da sapere per sopravvivere in un deserto terribile, freddissimo e infuocato, pieno di cespugli dalle lame taglienti, insetti velenosi, ragni e serpenti mortali, è in questi sogni sognati che sono visibili nelle tracce che essi hanno lasciato dietro di sé. Il deserto e le leggi che lo governano sono un libro di sole immagini dove è scritta la conoscenza che proviene dal sogno degli esseri ancestrali. Sognando, l’uomo si connette col Sogno della creazione, e ciò permette di ritrovare le informazioni celate ovunque nella natura che servono per poter vivere in armonia con essa. In questo libro il sogno è analizzato proprio nella duplice funzione che gli attribuiscono gli Anangu: quella di dare immagini alle sensazioni, alle percezioni, e ai pensieri diurni, e quella di fare luce in un ammasso informe fornendo la conoscenza che apre strade. 

L’altro spunto di riflessione mi è venuto da un film recente: Maximilian. Il gioco del potere e dell’amore di Andreas Prochaska. Nel film c’è una scena che mi ha molto colpito. Siamo nel 1479: Massimiliano è stato mandato dal padre Federico III d’Asburgo a Gand nelle Fiandre, per prendere in sposa Maria che, dopo la morte del padre in battaglia, è rimasta unica erede del vasto e ricco ducato della Borgogna: in questo modo il ducato verrà strappato al Re di Francia Luigi XI che ne reclama il legittimo possesso, e annesso all’ impero asburgico. Da un matrimonio di interesse, tra i due diciottenni è nato un amore profondo. Maria viene imprigionata dai nobili borgognoni che vogliono costringerla a sposare il delfino del Re di Francia, un bimbo di sette anni. Per evitare di essere intrappolato in congiure e in una lunga guerra di logoramento, Massimiliano, pur disponendo di uno scarso contingente di mercenari e di contadini, ha deciso di uscire in campo aperto e di battersi contro l’esercito francese, uno dei più forti eserciti del mondo. Ora è lì, sulle alture di Guinegatte, in testa alle sue truppe, la picca in pugno, appiedato, con ai lati i suoi fidi compagni, che aspetta di veder comparire dall’orizzonte la fila dei cavalli nemici alla carica. Dall’esito di quella battaglia dipenderà il suo destino, quello del suo amore e del suo regno. Il prode luogotenente che è al suo fianco è preoccupato perché vede Massimiliano ancora provato dalle ferite riportate nell’attentato subito di recente; gli si avvicina per dirgli che è ancora in tempo per rinunciare. Massimiliano lo rassicura dicendogli con tono deciso: «Sono già stato qui». E, dopo una pausa, aggiunge: «In sogno». Alla fine di quella giornata di battaglia, Massimiliano attraverserà da vincitore un’immensa distesa di cadaveri, per correre nelle braccia dell’amata sposa che lo ha aspettato in preghiera. Ha avuto la meglio sull’esercito francese anche grazie all’impiego di una nuova, geniale tattica militare. 

23 ottobre 2019

«“A sinistra in fondo al corridoio”. Intervista a Patrizia Carrano» di Doriano Fasoli


Patrizia Carrano nella sua casa romana (foto di Roberto Canò, ottobre 2019)

Patrizia Carrano è nata a Venezia dove ha trascorso l'infanzia, ma vive e lavora a Roma. Scrive per la radio e la televisione; come scrittrice ha esordito con Malafemmina. La donna del cinema italiano (1977), cui è seguito Le signore Grandifirme (1978). È autrice, tra l'altro, dei libri La Magnani (1982), Stupro (1983), Baciami stupido (1984), Una furtiva lacrima (1986), Erna Rossofuoco (1989), Cattivi compleanni (1991), L'ostacolo dei sogni (1992). La sua produzione narrativa più recente comprende la raccolta di racconti Notturno con galoppo (1996), Campo di prova (2002) e i romanzi A lettere di fuoco (1999) e Illuminata. I suoi libri sono tradotti in cinque lingue.

È in libreria da due settimane un nuovo romanzo di Patrizia Carrano, dal titolo A sinistra in fondo al corridoio (1000eunanotte). Una saga familiare, che intreccia le vicende spesso rissose di genitori, figli e figliastri, cognate intriganti di stretta osservanza cattolica e anziani professori nostalgicamente legati al ricordo del vecchio Partito Comunista. Il tutto visto e raccontato da una angolatura abbastanza inedita: quella dei domestici che nei decenni si sono avvicendati a lavorare nel vasto appartamento del quartiere Nomentano a Roma dove abitano i protagonisti. 

Doriano Fasoli: Cosa c'è a sinistra in fondo al corridoio?

Patrizia Carrano: Solo la stanzetta della domestica – o del domestico – così come l'aveva previsto l'architetto che nel 1935 ha progettato l'appartamento dove vivono i miei protagonisti: una casa costruita con agio, con salone doppio, stanza da pranzo, studio, ampia zona notte. Ma per la persona di servizio un bugigattolo di due metri per due collocata, appunto, a sinistra in fondo al corridoio.

Poiché questo romanzo racconta la storia di una famiglia attraverso lo sguardo delle persone che hanno lavorato in quella casa, mi sembrava giusto partire da lì.

Da dove nasce la decisione di dar voce ai domestici? 

Perché mi sono resa conto che fra la domestica veneta e semianalfabeta che negli anni Cinquanta andava a servizio quasi gratis, e il badante peruviano, che oggi ha dovuto smettere di fare l'università nel suo paese e cercare lavoro in Europa, corre un intero universo che fino ad oggi la narrativa italiana non ha mai raccontato. Mi è piaciuto osservare, capire e narrare gli intrecci fra colf, badanti, portinaie e i personaggi della famiglia dove hanno lavorato. Il libro si svolge quasi tutto in un appartamento, ma in quelle stanze confluiscono filippini, equadoregni, e prima ancora donne del Frusinate, oppure dell'Appenino marchigiano. Ognuno con il proprio mondo, le proprie necessità. Tutte stipate in una stanzetta due per due.

2 ottobre 2019

«“Elogio delle merci”, tre racconti di Isacco Turina» di Cinzia Baldazzi





La ricchezza delle società nelle quali 
predomina il modo di produzione capitalistico 
si presenta come una “immane raccolta di merci” 
e la merce singola si presenta come sua forma elementare.
Karl Marx, 1867


Nelle tre storie allineate sotto il titolo Elogio delle merci (Coazinzola Press, Mompeo 2018, pp. 302), «il lettore incontrerà le storie minuscole di qualche esistenza umana che si dibatte senza riposo all’ombra maestosa delle merci», spiega l’autore Isacco Turina, «nel loro ciclo infinito di produzione, distribuzione e smaltimento». 

La solitudine e l’alienazione di un’impiegata quarantenne addetta al collaudo manuale di prodotti finalizzati alla vendita («Lo scherzo»); la catastrofica esperienza di decine di clienti costretti in un supermercato a causa dell’infuriare di un uragano («La ginestra»); la vicenda agro-dolce di un giovane disoccupato il quale in una discarica alle porte della città trova il lavoro e l’amore («Il custode»).

In una sapiente architettura semantica “a scala”, Turina introduce nel primo racconto gli oggetti commerciali, destinati nel secondo a essere collocati, distribuiti nel grande circuito, per poi preparare la discesa narrativa della cosalità con l’abbandono e il deperimento nell’ultimo brano. L’utilizzo del climax a lato dell’anticlimax si svolge anche all’interno del plot di ciascuno dei pezzi (mediante effetti di progressione e poi di ingerenza minoritaria dei segni-segnali prescelti).

Tuttavia il maggior interesse critico ha luogo, in base a quanto già accennato, quando il medesimo accorgimento si estende al livello superiore di struttura del libro, alla sua architettura, prendendo le mosse dalla silenziosa spietatezza de «Lo scherzo», innalzando il narrato all’apogeo della distruzione ne «La ginestra», infine sigillando una conclusione “discendente” con «Il custode». Infine, l’ambiente dove si conclude il primo brano introduce lo spazio d’azione del secondo, mentre quest’ultimo termina con una riflessione su quello che sarà l’oggetto centrale del terzo.

Insomma, sembra ancora valido l’avvertimento formulato da Umberto Eco all’alba degli anni ’70 ne Le forme del contenuto: «Una cultura, per organizzare le proprie esperienze, deve nominarle: deve cioè fare corrispondere a elementi di forma dell’espressione elementi di forma del contenuto» e, allo scopo di mantenerne intatta la reciproca efficacia, essi dovranno compiere iter di intensità parallela. 

29 settembre 2019

«Su “Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci” di Sigmund Freud (Parte 1)» di Valter Santilli



Francesco Melzi (1493-1570), Ritratto di Leonardo da Vinci, gesso rosso, Royal Collection Trust 


Tempo fa lessi un libro di Thomas H. Ogden, Il leggere creativo. Sul retro di copertina della edizione italiana è scritto che nel volume sono stati raccolti i lavori che l’autorevole psicoanalista americano «ha dedicato all’esperienza del leggere creativamente». 

Il libro è composto da una raccolta di saggi su «fondamentali lavori» di autori psicoanalitici di grande rilievo e tra essi è compreso, naturalmente, un lavoro fondamentale di Freud, «Lutto e melanconia». 

Lo stile dello scritto di Ogden sull’esperienza del leggere creativamente è rigoroso, ed in parte richiama lo stile impegnato degli esercizi scolastici di parafrasi di testi letterari fondamentali. Quella di Ogden è un tipo di creativa parafrasi che illumina e arricchisce i testi che sono stati oggetto del suo appassionante studio, così come viene descritto nei dizionari: «Esposizione di un testo […] spesso accompagnata da sviluppi o chiarimenti». 

Nell’introduzione del libro l’autore descrive la sua esperienza di lettura creativa che fa da fondamenta alla sua scrittura creativa: Thomas Ogden leggendo e scrivendo creativamente cerca di rimanere il più possibile fedele agli scritti dell’autore letto. Lo psicoanalista americano chiarisce che ha trattato lo stile di scrittura e il contenuto ideativo dei saggi di ciascun autore come «due qualità di una entità singola», ed esplicita che quel determinato saggio scritto da quell’autore, con lo stile particolare che lo contraddistingue, non si potrebbe scrivere diversamente perché «dire qualcosa diversamente è dire qualcosa di diverso». 

A proposito di bravi scrittori e di buoni lettori un grande scrittore, nonché autorevole critico letterario, Vladimir Nabokov, in Lectures on Literature, pubblicate postume, scrive che «non si legge un libro, un libro lo si può solo rileggere. Un buon lettore, un grande lettore, un lettore attivo e creativo è un rilettore». Per marcare quindi l’esperienza intellettuale del «leggere», Nabokov specifica che «un libro di qualunque genere esso sia – opera narrativa oppure opera scientifica – interessa per prima cosa la mente»

Nella «Introduzione» al saggio di Freud «Lutto e malinconia»Ogden riporta una particolare frase del testo la cui lettura rende «impossibile separare le idee dalla scrittura»

Il commento che egli fa di questa frase particolare è che: «Lo scritto è denso – una grande quantità di pensiero è contenuta nell’atto stesso di scrivere poche parole». Mi pare che la stessa definizione, sebbene molto sintetica, possa applicarsi al testo di Freud su Leonardo da Vinci. 

11 settembre 2019

«Otto Fenichel. Conversazione con Alberto Angelini» di Doriano Fasoli



Alberto Angelini, psicoanalista, ha insegnato Psicofisiologia all’Università La Sapienza di Roma e svolto ricerche presso l’Istituto di Psicologia del Cnr. Diplomatosi in Regia al Centro Sperimentale di Cinematografia, è stato consulente dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e docente di Psicologia clinica presso l’Istituto internazionale delle Nazioni Unite per la ricerca sul crimine e la giustizia (UNICRI). Direttore responsabile della rivista Eidos. Cinema Psyche e Arti visive dal 2004 e direttore vicario della rivista Letteratura e cinema, è autore di oltre cinquanta articoli scientifici e di diversi volumi, tradotti in più lingue. Tra le opere principali di Angelini si ricordano: La psicoanalisi in Russia. Dai precursori agli anni Trenta, prefazione di C. Musatti (1988); Psicologia del cinema, prefazione di L. Mecacci (1992); Pionieri dell’inconscio in Russia (2002); Un enciclopedista romantico. Psicoanalisi e società nell'opera di Otto Fenichel (2009), pubblicati per i tipi Liguori. Psicoanalisi e Arte teatrale (2014) e il recente Otto Fenichel. Psicoanalisi, metodo e storia (2019), entrambi editi da Alpes Italia.

Doriano Fasoli: Dottor Angelini, in quale periodo Otto Fenichel ha esercitato la sua professione di psicoanalista?

Alberto Angelini: Fenichel lavorò, negli anni Venti e Trenta, prima a Vienna, dov’era nato nel 1897, poi a Berlino. Il giovane Otto apparteneva ad una famiglia borghese. Fin dall’infanzia tenne un diario dei concerti e del teatro, tipico oggetto viennese, dove commentava ogni rappresentazione. Dotato di grande ingegno psicoanalitico e di una formazione culturale classica, oltre a svolgere una intensa attività clinica, fu autore di numerosi lavori scientifici. Gli amici sapevano com’egli possedesse una memoria fotografica non solo per le citazioni di Freud, con relativo numero di pagina, ma, ad esempio, per l’intero orario ferroviario europeo. Le sue proposte psicoanalitiche, tuttavia, sono basate sulla novità e profondità dei concetti avanzati e non sull’accumulo dei dati. Nel 1938 si trasferì negli Stati Uniti, dove esercitò la psicoanalisi in California fino all’anno della sua scomparsa, il 1946. La morte prematura impedì al suo pensiero di svilupparsi pienamente.

Qual è l’attualità del suo pensiero?

Fenichel considerava come valori non solo scientifici, ma addirittura etici, la razionalità e l’aspirazione al rigore metodologico. Egli, già negli anni Trenta, percepiva l’incombere, sul movimento psicoanalitico, d’idee antirazionaliste e antilluministe. In epoca contemporanea assistiamo ad un attacco alla razionalità, non solo in ambito psicoanalitico, ma in generale, su più fronti, socialmente e culturalmente. Fatta salva la casistica clinica che comunque possiede sempre una sua grande utilità riguardo al metodo, nella psicoanalisi, con il dilagare del pensiero bioniano, si è scivolati verso la metafisica, escludendo la dimensione di filosofica realtà che il pensiero psicoanalitico dovrebbe avere per aspirare ad uno statuto scientifico. Per altri versi sono addirittura ridicoli i criptolinguaggi di discendenza lacaniana, la cui sofisticata complicazione linguistica non trova motivi di sostegno. Anche il banale empirismo psicoanalitico, pur utile, non offre solidità di metodo. Chi, opponendosi a tutto ciò, volesse cercare le fondamenta metodologiche della psicoanalisi appellandosi ai neuroni e al cervello andrebbe incontro ad analoghe difficoltà di principio, su un altro versante. Infatti la strada del meccanicismo materialista si è sempre scontrata con le enormi diversità degli esseri umani. I cervelli, anatomicamente, sono uguali in tutto il pianeta, ma le persone no. Gli esseri umani sono profondamente diversi, per tutto ciò che riguarda le funzioni psichiche superiori, come il linguaggio, l’attenzione, la memoria e altro.

15 giugno 2019

«Trasgressioni Bataille, Lacan. Intervista a Silvia Lippi» di Doriano Fasoli



Silvia Lippi, bolognese di nascita, vive a Parigi. È psicoanalista, affiliata all’associazione Espace analytique di Parigi e all’ALIPSI di Milano. È psicologa all’ospedale psichiatrico Barthélemy Durand d’Étampes, ricercatrice presso l’Università di Parigi 7 e docente titolare dell’IRPA, Istituto di ricerca di psicoanalisi applicata diretto da Massimo Recalcati, nelle sedi di Milano e Grottammare. Oltre a numerose pubblicazioni in Francia, nel 2017 è uscito in Italia La decisione del desiderio (Mimesis), già vincitore del Prix Oedipe le Salon 2014, mentre del 2018 sono Freud. La passione dell’ingovernabile (Feltrinelli) e Ritmo e melanconia (Poiesis).

Doriano Fasoli: Dottoressa Lippi, cosa suggerisce il titolo del suo nuovo lavoro Trasgressioni. Bataille, Lacan (che ricorda quello di Masud Khan, Trasgressioni, Bollati Boringhieri), pubblicato in questi giorni da Orthotes Editrice?

Silvia Lippi: Bisognerebbe chiederlo agli ipotetici lettori! Per quanto mi riguarda, ho voluto scrivere un libro sul desiderio, abbordato dal punto di vista del fantasma. Per fantasma intendo, alla maniera freudiana, lo scenario che ognuno di noi si costruisce per accedere all’oggetto del desiderio. E uno dei fantasmi fondamentali è proprio la trasgressione. Non solo dal punto di vista strettamente sessuale: il bimbo che ruba di nascosto la marmellata è spinto da un moto trasgressivo, come il feticista che invece di innamorarsi di una donna si innamora di una pelliccia, o di una scarpa. Il concetto di trasgressione rinvia alla vergogna ma anche alla colpa, quindi all’infrazione, alla disobbedienza, dunque alla legge. Uno psicoanalista non può rimanere indifferente a tutto questo materiale, e agli interrogativi connessi che riguardano la vita psichica. Che rapporto esiste tra la trasgressione come atto e la trasgressione come fantasma? Il desiderio può esistere senza la trasgressione? Come si articolano i concetti di «legge» e di «trasgressione»? E a che tipo di godimento ci riferiamo quando mettiamo in atto un fantasma di trasgressione? Sono questi i quesiti a cui il libro cerca di rispondere.

Nonostante la mole bibliografica esistente, cosa l’ha spinta a occuparsi di Bataille e Lacan?

Ogni causalità è surdeterminata: voglio dire, le ragioni che mi hanno spinta a scrivere il libro sono molteplici. Prima di tutto, mi chiamo Silvia, come Sylvia Maclès, che è stata prima la moglie di Bataille e poi la moglie di Lacan. Scherzi a parte, ho conosciuto Bataille sui banchi del liceo, a Bologna, grazie al mio professore di letteratura, Gian Paolo Roffi, di cui mi ricordo un corso stupefacente sul romanzo Storia dell’occhio. A quell’epoca, non sapevo ancora che sarei andata a vivere a Parigi un giorno, tantomeno che avrei scritto un libro su Georges Bataille. Ricordo solamente che rimasi colpita dallo strano erotismo di questo suo racconto, gioioso e sconsolato nello stesso tempo. E sicuramente anche dai personaggi della storia, certo così poco epici. Vorrei qui precisare che la trasgressione nell’opera di Bataille non è mai ostentata. È una trasgressione sobria, rigorosa, oserei dire, come fosse l’effetto dell’amor fati. Non vi è nessuna provocazione, nessuna sfida all’Altro e alla sua legge. La trasgressione è una ricerca di verità che passa attraverso il desiderio del soggetto.

26 maggio 2019

«Europa cristiana: un falso storico» di Giovanni Sias



Dalla nascita dell’Unione Europea non si è perso tempo a ricordare, ribadire, insistere e infine decretare le radici cristiane dell’Europa. Ancora l’altro giorno, l’8 maggio 2019, sul Corriere della Sera il cardinale Bruno Forte richiamava il senso cristiano delle radici europee, e avverte che «il futuro dell’Europa non può prescindere dalle sue radici etiche e spirituali, le sole a poter alimentare una rinnovata passione morale e un impegno condiviso». Parole di verità, non ho dubbi, parole vere perché oneste nei confronti degli europei (che sono ancora “da fare”). 

Ma… il luogo da cui queste parole vere originano, il loro presupposto, è falso. Perché è un falso storico che l’Europa sia «cristiana». E se noi ci prendessimo la briga di mettere in intreccio e in tensione i processi storici con la teoria freudiana coglieremmo immediatamente sia la falsità della proposizione quanto la sua pretesa tutta ideologica di indirizzare la cultura europea in un’unica direzione: quella del potere ideologico del Cattolicesimo medievale esteso alle coscienze degli europei contemporanei.

L’Europa è un luogo del Mediterraneo, ma il Mediterraneo è un luogo dai confini incerti. Chi lo vuole stretto fra i Dardanelli e le Colonne d’Ercole vive in un’economia organicistica senza avvertire l’estensione dell’apparato psichico. L’organicismo risponde così alla logica religiosa del discorso, che ha spartito e diviso il Mediterraneo lungo tre punti cardinali: la Croce, il Muro (del pianto) e la Kaʿba (la pietra nera) ciascuno in conflitto con gli altri. Manca il quarto punto, il più importante, quello relativo al linguaggio e dunque insituabile, incollocabile in una qualsiasi spazializzazione o riduzione del Mediterraneo a una ideologia, a un rituale o a una nazione che sono i tre punti ordinali della religione. La distanza fra la mitologia e la religione è molto breve, la distanza che la religione pone sulla visione del mondo invece è infinitamente grande: favola l’una, Verità l’altra, senz’accorgersi della verità della favola né dei vaniloqui che si scambiano di posto con la verità.

Nell’ordine del linguaggio, quell’ordine che la psicanalisi indica in una topologia attraverso cui è possibile tracciare una geografia delle regioni dello psichico, il Mediterraneo si estende, a Oriente, almeno fino a Bagdad. E ci fu un tempo in cui, nella sua estensione, non aveva confini.