16 giugno 2013

“Dance and Poetry” by Alfred Corn



Mirth by William Blake from
John Milton's “L'Allegro”








In George Balanchine’s great ballet Apollo, choreographed to one of Stravinsky’s most ravishing scores, we see the god summon three Muses to assist in the invention of dance. One of these is Calliope, Muse of epic poetry; her presence stands as a symbol of the fact that choreographers have many times drawn on poems for themes to be developed into dances. Without giving an exhaustive catalogue, I’ll begin by mentioning Le Corsaire, based on Byron’s narrative poem and choreographed by Petipa in 1899. There is Fokine’s Le Spectre de la rose, drawn from a lyric by Théophile Gautier, as well as Nijinsky’s L’Après-midi d’un faune from 1912, which was inspired by the Mallarmé poem. And that same theme was thoughtfully updated in the early 1950s by Jerome Robbins in a work for the New York City Ballet. A few years earlier, Robbins had choreographed The Age of Anxiety, a ballet based on a dialogic long poem by W. H. Auden. Stepping back a decade, recall Martha Graham’s Letter to the World of 1941, whose title comes from the first line of Dickinson’s poem, “This is my letter to the World/That never wrote to me,—”. The work has two characters, named simply “The One Who Dances” and “The One Who Speaks,” the latter reading passages from Dickinson in the course of the dance. From the same years is Graham’s Appalachian Spring, choreographed to one of Aaron Copland’s most vital scores and drawing part of its inspiration from a passage in Hart Crane’s “The Dance”:
O Appalachian Spring! I gained the ledge;
Steep, inaccessible smile that eastward bends
And northward reaches in that violet wedge
Of Adirondacks!
In the tradition of story ballets, there is John Cranko’s elegant Eugene Onegin, based on Pushkin’s masterpiece and choreographed to music by Tchaikovsky for the Stuttgart Ballet in 1965. And then, bringing the topic up to our own day, we have the splendid example of Mark Morris’s L’Allegro, il Penseroso ed il Moderato, to the Handel’s score, a work using verses from Milton’s paired pastoral poems “L’Allegro” and “Il Penseroso.” Mr. Morris incurs a second debt to poetry (or at least to a poet) by borrowing from the 1816 set of pen and watercolor drawings William Blake made to accompany the Milton poems. Blake’s drawings suggested not only costumes and color schemes but also dance steps as well, which sometimes resemble the poses of Blake’s exhilarated or pensive figures. The resulting work, based on several artistic sources from disparate eras, is described by dance critic Joan Acocella (in her book Mark Morris) as follows: “So everything is there together, and bound together—the universe, the human race, and also the arts, for L’Allegro is a hymn to the unity of poetry, music, and dance: a story of how each . . . can follow its own laws and still harmonize with the others. The piece is also a hymn to the unity of history, for the poetry, music, and dance that are wedded in this piece are from the seventeenth, eighteenth, and twentieth centuries.” To that cavalcade of earlier eras, Ms. Acocella also appends the nineteenth century (because of Blake’s drawings) and finally reaches back as far as the third century B.C.E., when the tradition of pastoral poetry was first inaugurated in Hellenistic Alexandria.

We’re also concerned here with the complementary question, how poetry has drawn on dance—as religious ritual, performance art, or a popular pastime—for subject matter and for aesthetic cues. A vast topic, because the association of the two arts is as old as the Western tradition. Only think of the Psalms, the Bible’s most ringing praise songs—for example, Psalm 149, which exclaims, “Let them praise his name in the dance: let them sing praises unto him with the timbrel and harp.” Or, to turn to Greek tradition, recall (from Book 18 of the Iliad) the description of the shield that Hephaistos makes for Achilles. Among the subjects sculpted on it is an elaborate scene of dancing, with young men and women engaged a choral performance described this way: “At whiles on their understanding feet they would run very lightly,/as when a potter crouching makes trial of his wheel, holding/it close in his hands, to see if it will run smooth. At another/time they would form rows, and run, rows crossing each other./And around the lovely chorus of dancers stood a great multitude/happily watching, while among the dancers two acrobats/led the measures of song and dance revolving among them.” [Richmond Lattimore, trans., ll. 570-72; and ll. 599-605]

12 giugno 2013

«L'incubo ad aria condizionata», un racconto di Angela Bubba

Angela Bubba, in una foto di Roberto Nistri


Un pomeriggio in una libreria di Crotone, ore diciotto-diciotto e trenta, entro e dico buonasera ai presenti, non risponde nessuno. Non m'importa. Continuo a camminare e penso che è una bellissima giornata: dolciastra, moderatamente calda, col teatro dei burattini che fa rumore in piazza e i bambini che perdono sangue dai ginocchi perché correndo sono caduti; l'odore dei gelati ovunque, la luce roseoviolacea di tutto, la primavera già estate.

Il posto è fresco e quasi senza suono, oscuro quanto una chiesa.

Mi metto a girovagare fra gli scaffali con nulla in testa a parte un rumore come di frullatore in continuo movimento, una pala grande e invisibile che in qualche modo riesce a farmi sentire in procinto di scomparire, di essere rubata al mondo da una banda di zingari e venduta a degli sconosciuti che dovrebbero cambiarmi l'identità e tutto il resto per sempre. Per sempre. Non potrò più litigare con mia sorella, penso, non potrò più chiedere a mia madre se mi vuole bene e sentirmi tramortita un attimo dopo perché lei mi guarderà incredula e disperata e divertita, non potrò più dire “papà scusa se ogni settimana ti faccio venire qua a Crotone, scusa…”

Mi rigiro un paio di titoli famosi e osceni in mano, strascico i passi, infine mi blocco. Mi soffermo su un libro di Herny Miller intitolato L'incubo ad aria condizionata. C'è molto celeste sulla copertina, e soprattutto c’è bella stampigliata sopra la frase: “i ciechi guidano i ciechi: è il sistema democratico”.

“Perfetto” esclamo ad alta voce.

“Cosa?”

Un uomo basso e brutto alle mie spalle mi ha sentito e cerca spiegazioni.

“Niente”.

Mi allontano.

9 giugno 2013

«Conversazione con Roberto Calasso» di Doriano Fasoli

Roberto Calasso (foto di Ferdinando Scianna)

L'intervista a Roberto Calasso (in gran parte inedita), su uno dei suoi libri di maggior successo, Le nozze di Cadmo e Armonia (Adelphi), si svolse in una stanza, stipata di libri e carte, della sua casa al centro di Milano (un palazzo del Seicento) nel mese di ottobre 1988.

Come una narrazione tramandata oralmente, prossimo alle favole, alle leggende, ai canti celti dei Bardi è racconto inventato, senza fondamento storico, ma, piuttosto, è tradizione riguardante oscuri tempi antichi: così il mito viene definito. Ad essere sempre affascinato dai miti è Roberto Calasso, fondatore, insieme a Luciano Foà, della casa editrice Adelphi. Mito per lui vuol dire «una conoscenza che è già in sé sovrana, che non tollera un sapere che si pretenda ulteriore (normale atteggiamento invece dell'Occidente)»; e «le figure del mito vivono molte vite e molte morti, a differenza dei personaggi del romanzo, vincolati ogni volta a un solo gesto». Al mitografo poi non è permesso inventare nulla, il mito è una costruzione fatta di varianti ed egli può solo scegliere un percorso invece che un altro all'interno di queste varianti: a quel punto però, aggiunge Calasso, «deve dirle, deve raccontare la storia e dare lui il senso di questa storia. Perciò si ritrova, in realtà, a dover dar forma non meno di un romanziere che invece s'inventa, da zero, dei personaggi.»

Dopo L'impuro folle, del 1974 (ripensato oggi «come una specie di prologo a ciò che è venuto successivamente, proprio un prologo che avviene in cielo, tra tutti quei tanti cieli che stanno nella testa di Schreber con i vari arconti che li dominano ecc.»), dopo La rovina di Kasch (1983), Calasso è alla sua terza prova narrativa con Le nozze di Cadmo e Armonia (appena uscito, già in ristampa). In quest'ultimo libro ha voluto addentrarsi nell'Olimpo greco per narrarne le avventure, grondanti di sangue e di eros (vendette e tradimenti sono i protagonisti). Ed ecco Zeus rapire, sotto forma di toro bianco, la principessa Europa; ecco Fedra smaniare invano per Ippolito; ecco come Odisseo («l'ultimo degli eroi») soggiornò presso Calipso; ecco, infine, come gli Olimpi scesero a Tebe per partecipare alle nozze di Cadmo (l'eroe dell'alfabeto) e Armonia.

3 giugno 2013

«Lucio Colletti e 'Società'» di Luciano Albanese










Società è stata una rivista, prima trimestrale e poi bimestrale, espressione diretta della politica culturale del PCI. Essa vide la luce nel gennaio del 1945 e cessò le pubblicazioni nel 1962, passando successivamente per due diversi editori, prima Einaudi e poi Parenti. In questo arco di tempo essa raccolse i contributi di firme prestigiose. Citiamo fra queste Delio Cantimori, Cesare Luporini, Natalino Sapegno, Ernesto de Martino, ma l’elenco potrebbe continuare per alcune pagine, perché praticamente buona parte della cultura italiana del dopoguerra offrì i propri contributi alla rivista. In un certo senso, si potrebbe dire: «Era difficile restarne fuori»; e questo vale anche per Lucio Colletti.

La partecipazione di Lucio Colletti a Società rappresenta un momento importante tanto nel suo percorso intellettuale e politico quanto nella storia del marxismo italiano e nelle vicende politiche ad esso direttamente o indirettamente conseguenti. Nell’«Intervista politico-filosofica» del ’74 Colletti, sollecitato dall’intervistatore (che era Perry Anderson, direttore della prestigiosa rivista inglese New Left Review, dove l’intervista era stata originariamente pubblicata in lingua inglese, nell’estate del ’74, prima di comparire in italiano per i tipi di Laterza nel dicembre dello stesso anno), si sofferma a lungo sull’esperienza di Società. Colletti aveva iniziato a collaborare con la rivista culturale del Partito Comunista Italiano nel 1952, con lo pseudonimo di Giovanni Cherubini. Colletti era allora impiegato al Ministero degli Affari Esteri, dove era stato chiamato da Carlo Sforza, e gli sembrò più opportuno non usare il suo nome, che peraltro cominciò ad usare dopo solo un anno. L’espediente dovette sembrargli inutile, dal momento che egli si era iscritto al PCI già nel 1949, e la cosa non era certo passata inosservata.

I contributi di Colletti a Società furono numerosi e di grande rilievo, sia come recensore che come saggista. Ma il rapporto con la rivista divenne ancora più stretto dopo i fatti di Ungheria, perché dal 1957 Colletti, insieme a Della Volpe e ad altri esponenti del gruppo dellavolpiano, fra cui Mario Rossi, Nicolao Merker e Giulio Pietranera, il valoroso storico dell’economia classica prematuramente scomparso, entrò a far parte del comitato di direzione (anche se il suo nome compare in realtà fra i membri del comitato solo a partire dal 1959). La cosa può apparire paradossale, se si pensa che Colletti era stato l’estensore materiale del cosiddetto Manifesto dei 101, con cui un folto gruppo di intellettuali aveva preso posizione contro l’intervento dell’Armata Rossa in Ungheria, e quindi contro la linea ufficiale del PCI. L’episodio è ricordato, con un misto di ironia e di nostalgia, da Luciano Cafagna:

Il famoso Manifesto dei 101 intellettuali fu scritto sul tavolo da cucina della mia casa di allora, un appartamento a Palazzo Doria. Avevamo cominciato a scriverlo Sirugo e io, quando Lucio piombò come un falco e ne volle assumere d’imperio la redazione.1

Nonostante ciò Colletti non volle uscire dal PCI, come fecero molti dei firmatari del manifesto. Da un lato, la scelta di campo fatta nel ’49 gli sembrava ancora valida, e dall’altro egli tentava da tempo di imprimere al marxismo, e al comunismo stesso, una impronta scientifica e radicalmente democratica, un obiettivo che gli sembrava difficilmente raggiungibile lavorando all’esterno di un partito che, quali che fossero i suoi difetti, godeva della fiducia e del consenso della gran massa delle classi lavoratrici.

13 aprile 2013

“New Novel by Haruki Murakami Released in Japan” by Nicola D'Ugo













OK. I'm reading Norwegian Wood, the novel that launched Murakami in Japan in 1987. He wrote it mostly in Rome, in the year in which I, a Roman, attended a college in NJ, reading Dylan Thomas, Eugenio Montale, W. H. Auden, John Updike, and E. E. Cummings mostly. There was no Nobel Prize in Literature from Japan at the time, and for a young writer from Europe that undoubtedly mattered. I didn't know, like many of us, that a Japanese novelist with that name even existed. I got to know his work recently, a couple of years back, and had to stick his first name in front of his last (unlike the Japanese practice, which is the other way round), since I already knew the works of two more Murakamis, the novelist and film director Ryū and the visual artist Takashi. I also knew of a porn star with that name, Risa, but I didn't know much about Haruki, except by hearsay, and, as I said, superficially and recently. My brother had read one of his novels, Dance Dance Dance, we talked about it, and I finally decided to read another: 1Q84. Haruki is the most popular Murakami abroad today, although the other two are certainly very important figures in international culture.

Yesterday Haruki Murakami's thirteenth novel was released in Japan. He is a cult figure there too, not one of those prophets who are honoured everywhere except in their home country. The youth audience loves him there, but here in Italy he is read more by adults. His success is based on an appeal to one age groups in Japan and another in the West.

Not every novel by the same novelist meets our expectations. I'm finding Norwegian Wood a bore so far—it's very well written, with a lot of realistic details and Murakami's dependable ability to represent self-consciousness but it doesn’t have the electric charge I found in 1Q84 (his last novel), Kafka on the Shore, and The Wind-Up Bird Chronicle (even the less ambitious Sputnik Sweetheart has more excitement than the first 160 pages of Norwegian Wood I have read). I'm reading all of his novels, since Murakami is a unique master of storytelling, an author who can guarantee a future for the novel after so many decades in which many of us, myself included, expected the genre to come to an end.

15 marzo 2013

«Cordoglio per la scomparsa della Prof.ssa Fiorangela Oneroso»




Cordoglio per la scomparsa della Prof.ssa Fiorangela Oneroso
Data evento: 10 marzo 2013

Il 10 marzo del 2013 è venuta a mancare Fiorangela Oneroso, già Professore Ordinario di Psicologia generale e, per due mandati, Presidente del Corso di Laurea in Filosofia. Il suo profilo è caratterizzato soprattutto dal rilevante contributo dato allo sviluppo e – prima ancora – alla definizione stessa del campo della psicologia. Suo tratto distintivo è stata la capacità di coniugare lo sguardo rivolto verso l'interno della psicologia con l'attenzione a ciò che avveniva all'esterno di essa, dunque al suo nesso con le altre discipline, dapprima con l'epistemologia e le scienze umane, poi con l'estetica e le teorie della letteratura. Fra i più giovani professori ordinari degli atenei italiani – prima a Cassino, poi a Salerno – aveva iniziato la sua carriera di studi nell'ambito delle attività di ricerca promosse dalla professoressa Giulia Villone Betocchi, presso le università di Salerno e di Napoli. A quel periodo risalgono i suoi primi scritti, fino all'impegnativo volume L'oggetto della psicologia nella riflessione marxista (Liguori, Napoli 1979), che dà inizio al riconoscimento dell'importanza della sua ricerca nella sfera più prestigiosa degli addetti ai lavori. Il suo ruolo di docente è segnato dall'aver dato vita a un filone di studi sulle radici teoriche del pensiero psicoanalitico. Al volume Mente e pensiero. Saggi sull'opera di Wilfred Bion (Liguori, Napoli 2004), che raccoglie scritti suoi, di suoi allievi e colleghi, e da lei curato insieme ad Anna Gorrese, è stato assegnato il premio «Gradiva». Alla sistematizzazione e allo sviluppo delle intuizioni più feconde del pensiero di Ignacio Matte Blanco sono dedicati alcuni suoi volumi personali, Nei giardini della letteratura (Clinamen, Firenze 2009), in parte Memoria, tempo, desiderio (Idelson Liviana, Napoli-Padova 1992), e alcuni volumi collettivi da lei ideati e curati insieme a Pietro Bria – nell'ambito di un collaborazione fra l'Università di Salerno e l'Università Cattolica del «Sacro Cuore» di Roma – a partire da L'inconscio antinomico (Franco Angeli, Milano 1999), con la partecipazione di alcuni fra i protagonisti più importanti della cultura italiana ed europea. Negli ultimi anni, ha pubblicato due raccolte di poesie: Inoltre (Anterem Edizioni, Verona 2010), Intus (idem, 2011).

L'altissimo esempio di studiosa e di docente, l'assoluta onestà intellettuale, il singolare, inconfondibile modo di sintonizzarsi sulle istanze più profonde dei suoi interlocutori, studenti o docenti che fossero, fanno della sua stessa figura una preziosa eredità per tutti coloro che l'hanno conosciuta.
Università degli Studi di Salerno

11 marzo 2013

«Critica e ricerca su Haruki Murakami online: poco sostegno» di Nicola D'Ugo


Nakata mostra ai gatti Kawamura e Mimì
una foto di Goma. Illustrazione di Lisa Ito.









Quando scrivo su Haruki Murakami mi rendo conto dello scarso contributo degli studiosi della cultura giapponese su internet. Non so se questo valga anche con le riviste. Ne ho collezionate tante nella vita, ma non essendo come i libri fatti bene, le ho regalate alle biblioteche o buttate nel cassonetto della spazzatura. Una volta facevano pamphlet più o meno clandestini che circolavano a iosa per esprimere le proprie idee. Poi venne la stampa liberale. Ora c’è internet, i blog, i social network, e fuori da questo ambito ogni intervento è marginale. L’affidabilità dei notiziari, e anche la loro rapidità informativa, vien meno.

La critica che oggi non circoli su internet ha la pretesa di diventare un classico, di accedere alla Biblioteca di Alessandria d’Egitto, che, secondo quest’ottica, dovrebbe amorevolmente darle una carezzina sul capo o sulla costa e catalogarla nella sua cuccetta dorata. Intanto a Palo Alto conservano tutto quel che si scrive su internet, questa mia esternazione inclusa, e la mandano in digitale alla Library of Congress di Washington.

Qualche mese fa mi sono occupato, senza aver conoscenze del giapponese, della parola ‘goma’ in Murakami, fondamentale in un suo romanzo, ma su cui nessuno, quantomeno in italiano e in inglese, ha scritto nulla. Nel senso che voleva dire semplicemente ‘sesamo’ e che salvare una gattina di nome Sesamo, ed accarezzare una pietra come una gattina (ma anche come la lampada di Aladino) bisbigliandole una parola magica, era un modo per aprire una porta d’accesso che salvasse il protagonista. Ora, i traduttori di Kafka sulla spiaggia in inglese e in italiano il nome della gattina non l’hanno tradotto ed è rimasto Goma anziché, rispettivamente, Sesame e Sesamo.

Certo, si capisce che ai traduttori il nome Goma per una gattina può suonar bene, magari è frequente pei gatti nipponici, i traduttori hanno una gran fretta, l’editore vuole la traduzione, e, col fiato sul collo, loro non hanno capito il riferimento dell’autore ad Alì Babà, e alla fin fine devono consegnare il lavoro e buona notte al secchio piuttosto che alla lampada. E si capisce pure che quei traduttori non intervengano a rettificare il loro errore, dovendo scaricar poi le colpe sulla fretta che gli ha imposto l’editore. L’affidabilità loro, per questi e altri motivi, è dubbia.

Però poi ritoccherà fare la traduzione sulla base di quel che scriviamo e diciamo io e altri analizzando il romanzo, perché l’ingenuità, in questo e in altri ambiti, ha le gambe più o meno corte. Uno dei pochi interventi interessanti sul romanzo di Murakami che abbia letto è di John Updike; per il resto si tratta solo di interviste preziose a Murakami stesso, o di qualche suo saggio esplicativo. Insomma, la comunità critica – abituata qual è ad usare le mani in luogo delle nuove forchette come i romani antichi nell’imbandita tavola – continua a scrivere su riviste storicamente importanti, ma che oggi non hanno alcuna importanza se non per far carriera, ossia far punti per metterli nel curriculum o per presentarli, come avviene da noi, in un concorso pubblico.

26 febbraio 2013

«Conversazione con Sandra Petrignani» di Doriano Fasoli


Sandra Petrignani, autrice negli anni Ottanta e Novanta del romanzo postmoderno Navigazioni di Circe (Theoria, 1987; Premio Elsa Morante, «Opera prima»), dell'incantevole Il catalogo dei giocattoli (Theoria, 1988), del preveggente Vecchi (Theoria, 1994), di interviste alle grandi scrittrici italiane raccolte ne Le signore della scrittura (La Tartaruga, 1984), è nata a Piacenza nel 1952. Vive a Roma e nella campagna umbra. Le sue opere più recenti sono: l'autofiction Dolorose considerazioni del cuore (Nottetempo, 2009); e il vagabondaggio E in mezzo il fiume. A piedi nei due centri di Roma (Laterza, 2010). Nel catalogo Neri Pozza: il fortunato La scrittrice abita qui (2002), pellegrinaggio nelle case di grandi scrittrici del Novecento; i racconti di fantasmi Care presenze (2004); il libro di viaggio Ultima India (Baldini & Castoldi, 1996); e il recente volume intitolato Addio a Roma (2012), che ci ha fornito il pretesto per intervistarla.

Doriano Fasoli: Petrignani, a quale «Roma» lei dice «addio»?

Sandra Petrignani: A quella bellissima e miserabile degli anni Cinquanta, quella che usciva dalla guerra, dall’occupazione, dalla tragedia collettiva, e tornava a sorridere. Quella che senza soldi in tasca aveva grandi ambizioni artistiche e le realizzava in ogni campo, diventando un polo d’attrazione culturale per il mondo intero. E anche a quella degli anni Sessanta: delle rivolte e delle contestazioni, letterarie e sociali. L’ultimo periodo in cui la letteratura ha creduto in se stessa (collettivamente intendo, non solo per i singoli scrittori), anni in cui l’arte è stata vivacissima.

24 febbraio 2013

«Gli insorti» di Luigia Sorrentino


Nella foto, Luigia Sorrentino


noi fummo poco o nulla
poi, notte e niente
quel che non esisteva
spuntava lento e largo
di molti altri,
nel nome di colui che venne
la carne si avventò su noi
l’uno nell’altro ci stringemmo
il corpo sollevato
dal nostro forte peso
chiede l’umano il movimento
la notte adolescente canta
il cuore orfano del nulla

* * *


allargando lo sterno respirano
accorrono verso lo scudo fisso
provati dalla lotta, dalla necessità
vengono da lontano, nel concatenarsi
di vivi e di morti
con un tocco immediato il tronco
sostiene il rifiuto totale
la mappa di un mondo risale alla luce
ormai privo d’acqua
abitato solo dal vento
niente rispondeva dalla montagna
solo quel rivolgersi così umano
scompariva dietro la nuvola


[ dalla silloge poetica di Luigia Sorrentino, Olimpia, Interlinea, Novara 2013, pp. 77-78 ]

18 febbraio 2013

«Conversazione con Dionys Mascolo» di Doriano Fasoli


Dionys Mascolo e Marguerite Duras
«L’intento di queste riflessioni non era di produrre qualche giudizio in più sul ‘caso Heidegger’, e più precisamente sul coinvolgimento del filosofo oltre mezzo secolo fa. Non si poteva d’altronde evitare di tenerne conto. L’intenzione era in effetti quella di interrogarsi su quella che sembra una generale crisi degli spiriti di fronte ai tradizionali compiti della conoscenza, e del processo filosofico in particolare.» È così che Dionys Mascolo (nato a Saint Gracian, Parigi, nel 1916 e scomparso all’inizio del nuovo millennio) in Bassezza e profondità. Saggio su Heidegger – pubblicato in Italia dagli Editori Riuniti – intraprendeva una critica  che andava oltre l’esegesi filosofica per appuntarsi sul «pensiero tecnico» di Heidegger preso qui a modello. Pensiero atomizzato, specializzato che, nelle sue pretese di obiettività, fornisce in effetti gli strumenti per nascondere e sottomettere alla censura di un Super-Io filosofico la «stupidità» del pensiero. È solo a partire dalla diffidenza del pensiero verso se stesso che si rivela possibile un «pensiero integro» quale «pensiero che si forma nello scambio di parole a viva voce o per iscritto» e il cui luogo privilegiato sono i rapporti d’amore e d’amicizia.
E di ciò Mascolo (che viveva a Parigi e del quale molti ricorderanno il libro intitolato Le Communisme, edito da Gallimard nel 1953) è in grado – in questa intervista inedita – di dare tracce, riferendo, com’era solito fare, pensiero, frasi, battute di coloro che gli sono stati interlocutori: Queneau, Breton, Bataille, Blanchot…

Doriano Fasoli: Mascolo, perché chiama la filosofia un «pensiero specialistico» oppure una «tecnica di pensiero»? 

Dionys Mascolo: Perché non è il vero pensiero. È il pensiero che ubbidisce alla logica, alla ragione, alle categorie, e non tiene conto delle passioni, dell’animo, del cuore, del sesso eccetera. I grandi pensatori non sono dei filosofi.