Fiorangela Oneroso è ordinario di Psicologia Generale nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Salerno. Si è da sempre occupata di questioni teoriche ed epistemologiche riguardanti il rapporto tra il campo delle scienze e quello della creatività artistica. Nell'ambito specifico delle teorie psicoanalitiche ha studiato in particolare il pensiero di Ignacio Matte Blanco, teorico della bi-logica, per gli aspetti che riguardano la riflessione sui nessi tra pensiero razionale e pensiero emozionale, e sulle relative forme di conoscenza. Per ciò che attiene l'influenza delle emozioni nei processi conoscitivi ha esplorato problematiche inerenti al campo dell'arte e della letteratura alla luce delle diverse estetiche e delle diverse poetiche. Fra i suoi lavori più recenti: i due volumi curati con Anna Gorrese nel 2004 Mente e pensiero. Incontri con l'opera di W. R. Bion (premio Gradiva) e Le emozioni fra cognitivismo e psicoanalisi; «Emozioni e reversibilità: l'origine e la coscienza del tempo» (2007); Nei giardini della letteratura (2009); «Il tempo, la coscienza, l'estasi» (2010).
4 febbraio 2011
«Due parole sulla critica» di Nicola D'Ugo
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T. S. Eliot |
Il filo condutture degli articoli che costituiscono il lavoro di un critico impegnato, nella loro diversità di stile e ampiezza, è l’attenzione posta alla letteratura in quanto capace di produrre discorsi sulle tematiche contemporanee (amore, diversità, paternità, guerra, democrazia, tecnologia, ambiente, città, calchi culturali, comunicazione, aspirazione ecc.). Quello che interessa un critico attento è la letteratura, la capacità di un testo di stimolare domande e, anche, di offrire risposte a domande, siano risposte alle nostre richieste di emozioni che di idee.
Una difficoltà della critica letteraria applicata ai testi contemporanei sta nell’individuazione della forza di un testo, a prescindere dagli interessi momentanei del lettore e del critico, dalla loro sfera culturale e ideale, dalla sensibilità che rivolgono a certe tematiche: in altre parole, dalla prospettiva del lettore che preceda la lettura. Un grande testo mette in crisi, in genere, proprio quella prospettiva; in qualche caso, invece, le dà spessore, la approfondisce.
Una difficoltà della critica letteraria applicata ai testi contemporanei sta nell’individuazione della forza di un testo, a prescindere dagli interessi momentanei del lettore e del critico, dalla loro sfera culturale e ideale, dalla sensibilità che rivolgono a certe tematiche: in altre parole, dalla prospettiva del lettore che preceda la lettura. Un grande testo mette in crisi, in genere, proprio quella prospettiva; in qualche caso, invece, le dà spessore, la approfondisce.
15 gennaio 2011
«Ultima intervista a Emilio Garroni» di Doriano Fasoli
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Emilio Garroni, Immagine Linguaggio Figura, Laterza, Roma-Bari 2005. 132 pp. EUR 22.00 |
L’intervista che segue fu l’ultima che (mi) concesse il filosofo Emilio Garroni (in occasione dell’uscita del volume Immagine Linguaggio Figura), poco prima della sua scomparsa, avvenuta nel 2005.
Doriano Fasoli: È da poco uscito da Laterza un suo nuovo libro: Immagine Linguaggio Figura, ultimo prodotto della sua attività instancabile. Ne vogliamo parlare insieme? Di che si tratta? È un libro, mi pare, di contenuto nuovo, se escludiamo il suo primissimo lavoro, La crisi semantica delle arti.
Emilio Garroni: Sì, in qualche modo è vero, anche se indirettamente mi sono sempre occupato di questi argomenti, la nascita del significato, del segno e della complessa strategia culturale umana. Ma qui prendo la cosa di petto. Debbo premettere che tutto ciò che qui diremo nel libro è detto in modo piano e comprensibile. Questa mi pare la sua vera novità, in particolare rispetto a quel primo libro, che è pieno di note, citazioni, autori, spesso anche non necessari. Ricordo che Italo Calvino, che lo apprezzò molto e lo utilizzò anche per un racconto sul segno, me lo fece notare. E da allora seguo sempre le sue indicazioni. L’ultimo insomma è scritto come se parlassi tra me e me, non ci sono note e vengono citati nel testo pochissimi autori, quasi solo classici, e il discorso giunge al lettore con una capacità notevole, a quel che mi dicono, di farsi comprendere. Badi, non è un testo divulgativo. Ma risulta comprensibile per la ragione detta.
2 dicembre 2010
«Poesia e critica» di Nicola D'Ugo
È proprio la risposta, mammina
cara, che non cerchiamo piú;
residui individui come siamo
di un tempo vecchio e assieme
di uno nuovo che ancora non svela
la sua forma. Che non è piú né mito
né storia né progresso.
Franco Marcoaldi¹
Alla memoria di Allen Ginsberg e Gianni Martella
In un tempo in cui si va velocizzando la fruizione estetica (anche delle opere d'arte), ad alcuni anziani artisti e poeti, come nei bei tempi andati, vengono profferti onori nelle piú varie occasioni, dalla mostra rappresentativa di un percorso individuale e di un'epoca, alla presentazione di un libro, a cittadinanze e lauree honoris causa. Questi avvenimenti, apparentemente dedicati alla cultura, ben poco hanno a che fare con la reale fruizione delle opere dei festeggiati e, come barlumi di poca fonte, producono un impercettibile effetto sulla collettività, che può riconoscersi piuttosto in una perniciosissima omissione: i promotori e gli interpreti dell'evento celebrano un passato che è, sí, ancora in vita, ma con il fine non della rivalsa dell'intelligenza e della sensibilità dalle stradine e dai viottoli dell'oblio bensí della garanzia –autopromossa mediante il rito culturale dall'accademico, dal politico, dall'imprenditore, dall'operatore culturale d'occasione– di una spudorata, e talvolta davvero inconsapevole, impunità da parte di quegli italiani i quali all'arte e alla letteratura non sono del tutto restii. Questi italiani vengono di fatto ingannati, giacché la vera letteratura è entro le regole della collettività, e vi dimora bene, solo quando quest'ultima è serena. Non mi pare di riscontrare attualmente in Italia una tale serenità.

22 novembre 2010
«'Hypatia of Alexandria' di Maria Dzielska» di Luciano Albanese
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Maria Dzielska, Hypatia of Alexandria, Harvard University Press, Cambridge (Mass.)-London 1996. Translated by F. Lyra. XII-157 pp. EUR 19.45 |
Il saggio è costruito sulla base di una netta contrapposizione fra la "leggenda di Ipazia” e la realtà storica. La prima trova spazio per lo più nelle opere a carattere eminentemente letterario. Secondo questa tradizione, Ipazia è soprattutto la "martire pagana”, nel duplice significato di testimone del tramonto del mondo classico e di vittima dell'intolleranza cristiana. La sua fine tragica è una sorta di preludio al Medioevo, alla barbarie dei "secoli bui”. La parte introduttiva del volume è dedicata espressamente all'esame degli aspetti più caratteristici di questa linea interpretativa.
In una rapida, ma efficace ricognizione, nella quale viene idealmente ripresa e portata a compimento l'opera di R. Asmus (Hypatia in Tradition und Dichtung, Berlin 1907), sono esaminati, innanzitutto, gli autori del settecento inglese e francese che hanno maggiormente contribuito alla formazione della leggenda, facendo di Ipazia il simbolo della ragione contro l'oscurantismo della Chiesa: Toland, Voltaire, Gibbon, Fielding. L'attenzione si sposta poi sull'ottocento, con Leconte de Lisle, Gérard de Nerval, Maurice Barrès, Charles Kingsley. Ipazia diventa una eroina romantica, che incarna «lo spirito di Platone nel corpo di Afrodite», e affronta la plebaglia cristiana armata solo di cultura e di bellezza. Seguono i positivisti inglesi e americani, come J. W. Draper, che fanno di Ipazia una antesignana di Marie Curie immolata sull'altare della scienza: interpretazione ripresa dagli storici della scienza, come Van der Waerden o, più recentemente, M. Alic e il Dictionary of Scientific Biography.
6 novembre 2010
«Morte di un poeta Beat. Gregory Corso è morto nel gennaio scorso» di Nicola D'Ugo
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Allen Ginsberg e Gregory Corso (foto di Elsa Dorfman) |
Aveva settant’anni Gregory Corso, il poeta più europeista della Beat Generation, il movimento che dagli anni cinquanta aveva aperto la via alla contestazione giovanile in America. Si è spento a gennaio all’ospedale di North Memorial Medical Center di Robbinsdale, nel Minnesota, dove a settembre si era trasferito a casa della figlia Sheri Langerman, un’infermiera, per un tumore alla prostata.
Poeta autodidatta (lesse il russo Dostoevskij, il francese Stendhal e l’inglese Percy Shelley in carcere), il suo linguaggio è considerato tutt’oggi il più onirico della Beat Generation, addirittura il più ingenuo e naïf.
29 settembre 2010
«Nietzsche a Capri» di Luciano Albanese
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Friedrich Wilhelm Nietzsche negli anni Settanta dell'Ottocento |
Nietzsche passò tutto l’inverno del 1876-77 a Sorrento, in compagnia di Paul Ree e della sua amica di vecchia data Malwida von Meysenbug, che si era stabilita in questa città fin dal 1862 e presso la quale trovò ospitalità. In questo periodo Nietzsche visitò tutto il territorio circostante, e naturalmente fece anche una escursione a Capri.
Nietzsche aveva allora trentadue anni. Dal 1869 era diventato professore di filologia classica all’Università di Basilea, ed era famoso per la pubblicazione nel 1872 della Nascita della tragedia e per le violente polemiche che l’avevano seguita. Tuttavia a partire dal 1876 le sue condizioni di salute erano peggiorate, al punto che nel 1879 lo spingeranno a lasciare l’insegnamento. Il viaggio a Sorrento e la visita a Capri si situano in un momento critico della vita di Nietzsche, nel quale egli, sostanzialmente, stava prendendo una decisione importante: quella di cessare la sua attività di filologo per diventare un filosofo, ma un filosofo di tipo particolare, in cui la vita, l’azione e il linguaggio del corpo avrebbero costituito il centro e lo stimolo per ogni riflessione.
6 settembre 2010
«L'infanzia riscattata del bardo Dylan Thomas» di Nicola D'Ugo
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Dylan Thomas, Ritratto dell'artista da cucciolo e altri racconti, Einaudi, Torino 1999. A cura di Ariodante Marianni. 268 pp. EUR 7.75 |
«E là io mi addormentai sul montagnoso
panciotto di mio zio, e, mentre dormivo,
–Chi va là?– gridò Sentry alla luna che volava.»
panciotto di mio zio, e, mentre dormivo,
–Chi va là?– gridò Sentry alla luna che volava.»
Dylan Thomas, «Una storia» (1953)
Di pochi scrittori di questo secolo si sa e si è scritto tanto quanto di Dylan Thomas (Swansea 1914 – New York 1953). Un’attrazione straordinaria ha fatto sì che tutto ciò che lo riguardasse fosse pervaso da un senso di leggenda. Capita così che ogni scrittore aspiri in qualche modo a dire la sua sull’autore, come è evidentemente il mio caso. In altri casi –penso a Bob Dylan– si è preso il nome dell’autore per farne il proprio nome d’arte, o –come è il caso di Dylan Dog– ci si è ispirati per il titolo di un fumetto.
Questo autore lo vorrebbero raccontare in molti. Purtroppo, come nel caso di un ampio articolo di Pietro Citati pubblicato su La Repubblica un paio di anni fa, ognuno descrive il poeta a modo suo, infischiandosi di cosa accadde nella vita di Thomas e nella sua opera. Da un certo punto di vista, questa posizione è legittima, nella misura in cui si vuole sentirsi vivi all’ombra semovente d’uno dei grandi bardi del Novecento, scherzoso e ridanciano e cupo come pochi altri colleghi. Del resto il personaggio pare uscito da un film: povero in canna, ubriacone, donnaiolo, vissuto in uno sperduto paesino gallese di duecento anime e diventato famoso in tutto il mondo.
«Gli eroi e antieroi di Raymond Queneau. 'I fiori blu'» di Nicola D'Ugo
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Raymond Queneau, I fiori blu, Einaudi, Torino 1984. Traduzione di Italo Calvino. 277 pp. EUR 14.46 |
«Si avvicinò ai merli per considerare
un momentino la situazione storica.»
un momentino la situazione storica.»
Raymond Queneau, I fiori blu (1965)
Vi sono vari romanzi del Novecento che raccontano storie di gente comune e di eroi. Per uno scrittore, alcuni di questi raccontano storie come altre, che si perdono nei rivoli delle possibilità delle nostre vite o delle nostre fantasticherie. A volte vorremmo ripetere le gesta di quel personaggio qualsiasi avviluppato di nebbie e oscurità, che una lucentezza improvvisa, una chiarezza natalizia, fatta di festoni e palle di Natale accese, rende invidiabile per un certo tepore che abbiamo conosciuto in un momento della nostra esistenza; a volte, più trasognanti, vorremmo essere quel tale eroe che compie gesta straordinarie e traccia un segno netto nella storia dell’uomo e delle sue possibilità. Questi due tipi di uomini e personaggi la critica letteraria, che si è autorizzata a descrivere la letteratura degli uomini, li ha voluti chiamare eroi e antieroi. Nel Novecento non vi sono solo gli antieroi (gli uomini comuni costretti dai loro limiti virtuali), ma anche gli eroi dell’antichità riproposti da certi gialli e da certa fantascienza, che i nomi di Maigret e Superman rappresentano in maniera esemplare. Questi eroi non sono invincibili, ma, come Achille, hanno una sorta di loro tallone, sia esso la kryptonite, o qualche pistolettata o beffa criminosa imprevista dal protagonista.
10 marzo 2010
«'Cathay' di Ezra Pound» di Nicola D'Ugo
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La copertina della prima edizione di Cathay |
Il primo aprile 1977 compariva su The Times Literary Supplement, in traduzione inglese, un articolo di Gianfranco Contini su Ezra Pound, che così recitava:
Il punto dolente è proprio questo: uno scrittore che è stato un traduttore principe, non soltanto dalle quasi per tutti inverificabili lingue dell'Estremo Oriente, ma da territorî familiari, quale che fosse la sua comprensione della lettera (basti citare come esempio minimo la parafrasi del finale di Inferno XXVIII in Near Perigod), non è poeticamente fruibile in traduzioni italiane. Non certo che le versioni manchino, basti menzionare a titolo di lode, a parte quelle della figlia esegeticamente capitali, il fedelissimo Alfredo Rizzardi e l'impegnato Giovanni Giudici. Ma troppi, anche di firme celebrate, si sono cimentati alla spicciolata con Pound per omaggio e come per una sorta di gioco di società. . . . Non esito a dire che [queste tentazioni approssimative] o distorcono la lettera o lasciano svaporare la poesia. («Ezra Pound e l'Italia», in Ultimi elzeviri ed esercizî, Einaudi, Torino 1989, pp. 267-268).
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