10 marzo 2010

«'Cathay' di Ezra Pound» di Nicola D'Ugo


La copertina della prima edizione di Cathay
Il primo aprile 1977 compariva su The Times Literary Supplement, in traduzione inglese, un articolo di Gianfranco Contini su Ezra Pound, che così recitava:

Il punto dolente è proprio questo: uno scrittore che è stato un traduttore principe, non soltanto dalle quasi per tutti inverificabili lingue dell'Estremo Oriente, ma da territorî familiari, quale che fosse la sua comprensione della lettera (basti citare come esempio minimo la parafrasi del finale di Inferno XXVIII in Near Perigod), non è poeticamente fruibile in traduzioni italiane. Non certo che le versioni manchino, basti menzionare a titolo di lode, a parte quelle della figlia esegeticamente capitali, il fedelissimo Alfredo Rizzardi e l'impegnato Giovanni Giudici. Ma troppi, anche di firme celebrate, si sono cimentati alla spicciolata con Pound per omaggio e come per una sorta di gioco di società. . . . Non esito a dire che [queste tentazioni approssimative] o distorcono la lettera o lasciano svaporare la poesia. («Ezra Pound e l'Italia», in Ultimi elzeviri ed esercizî, Einaudi, Torino 1989, pp. 267-268).

2 febbraio 2010

«'Poesie' di Dylan Thomas» di Nicola D'Ugo


Uno dei poeti mitici del Novecento, il più stimato in lingua inglese da Montale («ultimo bardo» lo definì Attilio Bertolucci), Dylan Thomas è stato recentemente riproposto, rigorosamente con testo a fronte, al lettore italiano dalla casa editrice Tea. Si tratta, salvo qualche aggiunta, delle traduzioni di Roberto Sanesi accresciute più volte da Guanda a partire dal 1954, l'anno dopo la morte del poeta, avvenuta accidentalmente per assunzione di alcool e farmaci, all'età di trentanove anni.

A soli vent'anni aveva pubblicato la sua prima raccolta di versi. A ventidue la seconda. Sue passioni principali erano la poesia e le donne, la conversazione e l'alcool, e l'accanita lettura di cronaca nera. Poco prima di morire aveva curato la raccolta fondamentale, e mai per intero tradotta, Collected Poems 1934-52.

«'Il libro delle preghiere' (a cura) di Enzo Bianchi» di Nicola D'Ugo


Enzo Bianchi (a cura di),
Il libro delle preghiere,
Einaudi, Torino 1997.
XXII-315 pp. EUR 8.50
Che senso ha oggi pregare? Basta affermare, come fa Enzo Bianchi, curatore del volume, che la «preghiera è anzitutto un fenomeno umano» e «proprio per questo stupisce che ancora oggi il fatto di pregare susciti tanti sospetti», perché si possa essere interessati alla preghiera al punto da elevarla a statuto di «genere» letterario? Non è forse un «fatto» essenzialmente umano anche dire le parolacce, bestemmiare, calunniare, diffamare, vilipendere? E, ancora, non è essenzialmente umano inventare i grandi congegni distruttivi che hanno segnato la storia di questo secolo?

Il rapporto fra poesia e preghiera, avvertito da Enzo Bianchi nella breve introduzione, si muove dalla distinzione fra magia e preghiera, fra l'esercitare un potere per mezzo della parola e il riconoscere che la «preghiera invece … in tutte le sue forme esprime la non-disponibilità dell'esistenza, il suo non essere immediatamente fruibile da parte dell'uomo, afferma che la vita è al cospetto di un Altro». Ma un fine conoscitore dei testi biblici, il canadese Northrop Frye, indicava, proprio nella differenziazione fra poesia e magia, il carattere di tramite del poeta fra l'universo e gli altri uomini.

«'Otello' di William Shakespeare» di Nicola D'Ugo


William Shakespeare,
Otello,
Feltrinelli, Milano 1996.
A cura di Agostino Lombardo.
Testo originale a fronte.
VIII-304 pp. EUR 8.50
Una domanda che ci si pone rispetto alla traduzione di un classico di cui abbondino le traduzioni novecentesche riguarda la necessità di una nuova traduzione. All’uomo di cultura, e parimenti al lettore, non interessano se non marginalmente le questioni editoriali, che vogliono che una casa editrice, in questo caso Feltrinelli, pubblichi l’intera opera di un grande autore del passato, in questo caso quella shakespeariana, tradotta da un insigne letterato, Agostino Lombardo. Lo fece nei decenni scorsi la Rizzoli con le traduzioni di Gabriele Baldini, optando per una soluzione, quella prosastica, che, in un certo qual modo, può lasciare interdetto il lettore anglofono, abituato alle rapide staffette fra il blank verse e la prosa del drammaturgo inglese, fra il parlare in versi dei nobili e le prosastiche puntate gergali e dialettali dell’informalità e del volgo.

Ciò che innanzitutto il poeta, lo storico e il critico letterario sempre e subito si chiedono si fonda sull’assunto che un’opera e un’opera di traduzione debbano aggiungere qualcosa in direzione di un progresso espressivo e un grado più elevato di significazione. Su questi due principi di sensibilità e intelligenza si giocano le grandi partite che rendono un’opera immortale, ed è proprio in questo agone di sopravvivenza che le traduzioni perlopiù invecchiano mentre le opere originali soprassiedono ai tempi. E se di questo se ne avverte solo da poco l’importanza in relazione al genere più diffuso, il romanzo, è perché è il genere ad essere recente e i doppioni di traduzione ancora molto ridotti.

«'Lazio insolito' di Alberto Crielesi. La recensione» di Nicola D'Ugo


Alberto Crielesi,
Lazio insolito.
Appunti di viaggio tra sacro e profano
,
Photo Club Controluce,
Montecompatri 1998.
224 pp. EUR 12.00
Non mancano certo copiosi volumi che illustrino le risorse storiche del Lazio. Ve ne sono di interi dedicati a città, villaggi, quartieri, singoli palazzi. E più se ne sente raccontare, più appare evidente l'enormità delle lacune conoscitive, l'adagiarsi d'enormi ombre fra le brevi luminarie del dettaglio, dell'episodio, del particolare.

Se si pensa ai dodici libri che compose l'antropologo ottocentesco James G. Frazer per spiegarsi il mito di Diana a Nemi e lo strano re che vi dimirava, si comprende perché Lazio insolito abbia cercato di narrarci in modo diverso territori su cui si è andata sedimentando l'opera di migliaia di studiosi. Del mito di Diana, salvo un vago accenno onomastico, l'autore non ci dice nulla, preferendo raccontarci quel luogo in modo "insolito", dal I sec. d.C. agli anni quaranta del presente.

«Man and Being in Dylan Thomas» by Nicola D'Ugo


Dylan Thomas in his writing shed.
Laugharne, Wales
Human essence, the essence of an individual that is first of all a being, is the starting point for a criticism that wishes to turn its attention to Dylan Thomas’s work. "Man be my metaphor" ("If I were tickled by the rubs of love") is an expression that literally taken implies a split between man and being, an ideal differentiation that permits us to settle in the Welsh poet’s wide scenery, made of differentiated quick glances, of "dry worlds", "hills", "trees", "glow-worms", "oil", "seeds", "girls", "all" and "nothing".

To be an individual apart and separated from his flesh, a being ahead of his own birth and with his own course somehow already predestined, has meant to Dylan Thomas a way of planning his life, a way of conceiving the world and his own work as a great recall addressed to the entire mankind. Born in Swansea (South Wales) in 1914, he died at thirty-nine in New York in November 1953. He was not, and never wanted to be, an isolated poet, a solitary man, one of those writers that demonstrate a sort of modesty towards literature. This may appear in contrast with his exclusion from the minor or major literary movements of the twentieth century, but is not in contrast at all with the idea of a public literature, addressed to the audience and read aloud. Neither the idea of a retro and traditionalist poet can properly fit the bard of Wales and of the whole world, as he longed to be considered. Such an idea would be in contrast with his interest in cinema, radio and television. Under Milk Wood represents the high awareness of the radio play, with its characters not only set into the night and darkness, but also followed step by step into their own dreams, into the laconicism of their more intimate thoughts, so going beyond the social appearances, bringing light, sun and clarity into the shifting of the unity of time and place of the narrative. Facing the problem of writing a radio play, Thomas’s answer started from the means and the audience, from a means that couldn’t have anything broadcast but mere sound to an audience that couldn’t have seen anything but the images contained in the medium of words. It is not strange to note that in the two most important radio plays ever written in English, Under Milk Wood and Samuel Beckett’s Embers, blindness of night and sleep, or of illness, guarantees a reception of the play which meets the momentary sensorial condition of the listener. This is the beginning of Under Milk Wood:

«Articoli e saggi che leggono un paese. 'Vivere altrove' di Sciara a favore dell'associazione "Il Chicco"» di Nicola D'Ugo

Natale Sciara è un poeta ciampinese che si è reso attivo in questi anni con una serie di iniziative locali che hanno per oggetto la letteratura. Attraverso la Pro Loco ciampinese ha convogliato insegnanti, scrittori, editori, giornalisti e politici a raccontare gli autori degli ultimi duecento anni, italiani e stranieri, e alcune riflessioni sugli scritti filosofici di autori non strettamente letterari. Vivere altrove (frammenti di un discorso comunitario) è una raccolta di articoli pubblicati da Sciara a partire dalla fine degli anni Ottanta su varie testate, fra cui quella storica ciampinese Anni Nuovi.

La scrittura di Sciara rispetta il suo modo di incontrare gli eventi di una comunità tanto frammentata quanto lo sono i «frammenti» del sottotitolo, con i suoi cittadini venuti dalle più diverse regioni d’Italia prima e del mondo poi, che appena si sfiorano quotidianamente fra un treno e l’altro caratteristici del pendolarismo locale. Fa da sfondo il desiderio di comunicare la passione di un uomo che prova a dare una ragione degli scenari che gli si presentano davanti nell’arco degli anni, e quell’amore per l’arte e per la poesia che è difficile comunicare, a una comunità inesistente, che non comunica in altro modo che nei compartimenti stagno dei palazzi, dei muretti, delle strade, dei bar, dei campi di calcio e delle scuole.

«Harold Pinter e le stanze chiuse dell'oppressione» di Nicola D'Ugo


Harold Pinter
Un Premio Nobel per la letteratura è stato assegnato in questi giorni a Harold Pinter. È una buona notizia, vista la sua straordinaria opera drammaturgica, che ha pochi pari in un secolo. A questo si aggiunga l’attualità della sua tematica ricorrente: l’invasione dello spazio domestico, che è metafora di una lotta in cui l’altro non è un uguale, ma un “simile” minaccioso.

Formatosi come attore alla Royal Academy of Dramatic Art, per poi passare alla recitazione in una prestigiosa compagnia irlandese, l’inglese Harold Pinter ha esordito come drammaturgo con La stanza (The Room) nel 1957. Il suo teatro dell’assurdo (o comedy of menace), dai registri linguistici che riproducono il modo di parlare delle diverse classi sociali inglesi, inscena la continua lotta di personaggi mediocri, presi dalle proprie necessità quotidiane, che compiono gesti meschini, spesso incomprensibili. Nei suoi drammi sono esposte situazioni apparentemente banali, buffe e imbarazzanti, che rasentano il ridicolo, prima di illuminarsi in paradossi cuciti addosso a quel brandello dell’esistenza che si finge di essere un abito congeniale, prima che il passato emerga in situazioni che accendono lo spazio di una memoria smarrita o occultata, rimettendo in gioco convinzioni e propositi di una vita.

31 dicembre 2009

«'Benito Cereno' di Herman Melville» di Nicola D'Ugo





 Benito Cereno
 Herman Melville
 Einaudi
 Torino 1997
 A cura di Guido Carboni
 Traduzione di Cesare Pavese
 Testo originale a fronte
 EUR 9,30
 XXXII-220 pp.
 ISBN: 88-06-14022-1


Sull'onda dei grandi romanzi d'avventura e di mare, la visita del capitano della Gioia dello Scapolo, l'americano Amasa Delano, alla nave spagnola San Dominique diventa un'avventura tutta racchiusa dentro i legni che ospitano strani personaggi, i cui comportamenti mettono in guardia e rappacificano di volta in volta l'animo del protagonista. Alla grande avventura a mare aperto si sostituisce qui, sorprendentemente, l'avventura di una semplice visita di cortesia e di aiuto che Delano porge a don Benito Cereno, giovane comandante di un'imbarcazione sudamericana in difficoltà, carica di schiavi africani e priva di gran parte del proprio equipaggio, nell'«anno 1799», quantomai ricco di evocazioni simboliche.

La penna di Melville ci trascina, con fortunatissime similitudini tratte da altre letture e avventure, in un lungo viaggio d'interpretazione dei segni esteriori, di contraddizioni successive, di timori orrendi e di sollievi fanciulleschi, secondo le interpretazioni della logica abduttiva di capitan Delano. Melville ci introduce, in questo romanzo del 1855, nei pensieri e nelle congetture di un uomo, nelle etichette marinaresche deluse, nel giudizio morale dei personaggi che il protagonista ha la disavventura di incontrare e, in definitiva, negli scenari articolati della nave anomala che lo stato d'animo di Delano tende ad accentuare nei suoi aspetti inquietanti. La lucidità di Melville sta nel segnalarci le difficoltà dell'interpretazione dei segni della vita reale che accompagna la mutevolezza dei nostri sentimenti, le ubbie suscitate da un nonnulla, la somiglianza sottilmente imperfetta fra verità e falsificazione.

«'North' di Seamus Heaney in italiano» di Nicola D'Ugo





 North
 Seamus Heaney
 Mondadori
 Milano 1998
 A cura di Roberto Mussapi
 Testo originale a fronte
 EUR 14,00
 140 pp.
 ISBN: 88-04-42270-9



Che cosa hanno in comune gli irlandesi con i Vichinghi? Come può il filo spezzato della storia rivelarsi solo assottigliato a perdita d'occhio? Perché l'archeologia può farsi motivo antropologico di riconoscimento sentimentale? Ce lo spiega il Premio Nobel Seamus Heaney in North, una raccolta poetica del 1975 che esce solo ora per i tipi Mondadori.

Rifacendosi a The Bog People (Il popolo delle torbiere) dell'archeologo danese P. V. Glob, Heaney instaura un colloquio con una serie di personaggi dell'età del ferro, focalizzando l'attenzione su ciò che resta dei loro corpi straordinariamente preservati nelle torbiere. La pietà è rivolta a personaggi malridotti, di cui ci restano però alcuni stupefacenti tratti del volto. Sono anzitutto dei condannati a morte, per cui l'enunciazione di Heaney si fa pietà sentita e motivata per l'uomo, quale sentimento di fratellanza e d'amore. Ma si fa anche giudizio su se stesso e sulla cecità etnica, culturale, evidenziando l'aspetto di chiusura di un mondo entro i confini di una cultura e d'una costumanza. Probabilmente – ci dice Heaney – se avessi partecipato all'esecuzione capitale di uno di quei personaggi dell'età del ferro, avrei fatto come tutti, ossia mi sarei astenuto dal salvarlo!