23 gennaio 2017

«Alcune considerazioni sul problema del realismo» di Luciano Albanese

Adesso dev'essere l'ora di pranzo di Francesca Woodman, 1979

Quando si parla di recupero del realismo bisogna stare attenti. Prendiamo ad es. una proposizione protocollare del tipo ‘alle ore x y Catone passeggia’. Questa sembrerebbe una descrizione adeguata alla realtà di quello che sta succedendo in un istante dato. Ma se riflettiamo meglio su ciò che sta realmente accadendo non tardiamo a capire che siamo di fronte ad un fenomeno più complesso, o addirittura a uno sciame di fenomeni concomitanti.

Catone, passeggiando, ha anche mosso l’aria circostante, aumentandone la temperatura, ha distrutto un formicaio sotto i suoi piedi, e soprattutto ha sparso germi letali intorno a sé – quelli che hanno sconfitto i marziani nella Guerra dei mondi di H. G. Wells. Ma può anche aver messo in moto una di quelle lunghe catene causali su cui si esercitava l’ironia di Voltaire. E questo, solo rimanendo al livello superficiale o fenomenico, senza scomodare la fisica atomica e le ‘due scrivanie’ di Eddington (quelle che hanno ispirato una scena di Scomodi omicidi, il dialogo tra Nick Nolte e John Malkovich).

Questa concomitanza di eventi, per cui non esiste mai un evento singolo e in totale isolamento dal contesto, è molto utile a chi indaga sugli omicidi. Le ‘tracce’ lasciate dall’assassino non sono altro, infatti, che eventi concomitanti e paralleli all’evento che ci interessa, il delitto. È quindi perfettamente giustificata la raccomandazione di non ‘intorbidare’ la scena del crimine (vedi le raccomandazioni di Denzel Washington ad Angelina Jolie nel Collezionista di ossa).

Conseguentemente, potremmo dire che qualsiasi descrizione di quello che sta facendo Catone in questo istante è totalmente inadeguata, e trova scarsa corrispondenza in quello che sta realmente accadendo. In effetti nessuna descrizione sarà mai adeguata alla miriade di eventi che accompagnano la passeggiata di Catone. In verità noi chiamiamo ‘descrizione realistica’ una proposizione che descrive – approssimativamente – solo un aspetto, trascelto fra mille altri, della realtà che si offre ai nostri sensi: esattamente quello che ci interessa, quello verso il quale siamo predisposti e orientati. Il punto di vista delle formiche vittime di Catone non viene preso in considerazione da noi, anche se sarebbe non meno legittimo.

Ma questo vuol dire anche che proposizioni del tipo ‘Catone distrugge un formicaio’ o ‘Catone distrugge i marziani’, oppure, allungando di qualche secolo la catena causale di Voltaire («Dialogo tra un bramano e un gesuita sul necessario concatenamento delle cose»), ‘Catone fa morire Enrico IV’, sarebbero descrizioni altrettanto realistiche di ciò che accade nell’istante dato.

La non univocità degli eventi non è l’unica difficoltà che incontra la riproposizione del realismo. Ad essa se ne accompagna un’altra – di cui già gli Stoici antichi, come vedremo, erano consapevoli. Essa è data dalla circostanza che, anche ammettendo l’esistenza di eventi isolati, i corpi non sono in grado, da soli, di esprimere chiaramente una ‘sintassi’ o un ordine propri. Tale difficoltà si manifesta in modo evidente nelle arti figurative.

Secondo il Laocoonte di Lessing le arti figurative descrivono azioni per mezzo di corpi, mentre le opere letterarie descrivono corpi per mezzo di azioni. In realtà né le une né le altre riescono a offrire di azioni e di corpi una descrizione incisiva e chiara. La descrizione delle azioni effettuate da un corpo ci parlerà al massimo del carattere del personaggio a cui il corpo appartiene, ma non potrà mai raggiungere l’evidenza della visione autoptica del corpo stesso. E tuttavia la letteratura ha un vantaggio sulle arti figurative. Essa ha già effettuato una selezione preventiva sullo sciame degli eventi, e ci costringe a guardare ciò che interessa allo scrittore. Ma nelle arti figurative la situazione è diversa.

Per citare solo il caso dell’arte mitriaca, che è quella di cui mi occupo da tempo, siamo letteralmente bombardati da immagini di corpi nei monumenti figurati, ma spaventosamente a secco di testi letterari che ci informino sul loro significato, a cominciare dall’evento centrale, la tauroctonia. La conseguenza è che ognuno vi legge quello che gli pare, e da Porfirio a oggi si può dire che ogni anno esce un nuovo libro sul ‘vero’ significato del culto di Mithra.

L’arte cristiana ha il vantaggio di poter essere spiegata con la Bibbia, Antico e Nuovo Testamento. Ma in loro assenza ci troveremmo in una situazione analoga. Ricordo che durante un’asta di quadri il banditore presentava il miracolo dell’acqua di Mosè (Esodo 17.1-6) col titolo ‘mercanti alla fonte’. Il banditore non aveva collegato il quadro al racconto biblico, ma in fondo nessuno l’obbligava a farlo, a parte la tradizione interpretativa, e quindi un argomento metafigurativo, una sorta di ipse dixit. Quello che si vedeva nel quadro, in effetti, poteva anche essere letto in quel modo.

Problemi simili emergono anche nelle pieghe della dottrina stoica del lekton. La dottrina stoica del lekton – della proposizione – ha sempre suscitato ironia e perplessità, a cominciare da un esponente dello stoicismo come Seneca, che, pur senza capirla (la giudicava una ‘questione capziosa’), resta uno dei suoi migliori espositori. Riporto per maggiore chiarezza il testo di Epistole 117.13.

Vi sono le nature dei corpi: per esempio, questo è un uomo, questo è un cavallo. A queste seguono i movimenti delle menti (motus animorum) che sono capaci di fare enunciazioni (enuntiativi) sui corpi. Questi movimenti hanno un che di peculiare e di distinto dai corpi. Per esempio, vedo Catone che cammina. Questo il senso ha esibito, questo la mente ha creduto. Ciò che io vedo è un corpo, ed è verso un corpo che ho diretto gli occhi e la mente. Poi dico ‘Catone cammina’. Ciò di cui stiamo parlando ora non è un corpo, ma una certa enunciazione (enuntiativum) su un corpo, che alcuni chiamano effatum, altri enuntiatum, altri ancora edictum. [...] Vi è infatti una grande differenza tra il dire o nominare una cosa e il parlare di una cosa.

Come precisa Michele Alessandrelli (Il problema del lekton nello stoicismo antico, Olschki, Firenze 2013, pp. 98-99; cfr. anche Kneale e Kneale, Storia della logica, Einaudi, Torino 1972, p. 168), quando Seneca scrive «hic homo est» non sta indicando o menzionando un enunciato, ma ciò che è oggetto immediato dei sensi, senza nulla aggiungere ad essi: è come se dicesse ‘questo corpo qui’. I motus animorum, i movimenti che presiedono al parlare dei corpi, hanno invece qualcosa di peculiare che è irriducibile ai corpi. Questo qualcosa non può essere altro che il significato incorporeo di enunciazioni sui corpi.

La dottrina stoica dei lektá si lega strettamente alla dottrina stoica della causalità. L’incorporeità delle proposizioni o enunciazioni sui corpi fa tutt’uno con l’incorporeità dei predicati, e questa fa tutt’uno con l’incorporeità di ciò che un corpo fa o patisce. ‘Causa’ in senso stretto non è il tagliare del coltello, ma il coltello in quanto taglia. In una parola, le cause sono corporee, gli effetti – e quindi i predicati, gli enunciati sui corpi – sono incorporei. Le cause sono corpi in movimento, gli effetti sono quanto vi è di descrivibile e di riproducibile nei movimenti dei corpi (Alessandrelli pp. 21-22 e 32-33). In quanto tali, come scrive Ario Didimo fr. 18, gli effetti non hanno esistenza reale, corporea, ma solo mentale e predicativa.

Non mi dilungo oltre sulla dottrina stoica della causalità (essa è tutt’altro che una dottrina ‘capziosa’, e coinvolge un problema su cui la filosofia si è arrovellata dai tempi di Parmenide non meno della fisica, quello del movimento). Anzi, vorrei tentare di scorporare dalla dottrina della causalità la dottrina dei lektá. In apparenza, essa è uno dei tanti paradossi per cui gli stoici erano famosi, e, come osservano Kneale e Kneale, rappresenta un unicum anche all’interno dello stesso stoicismo («per la loro incorporeità, i lektá sono eccezionali nella metafisica stoica; in genere, infatti, gli stoici erano materialisti che credevano che anche l’anima fosse corporea», p. 168). E tuttavia, riletta col senno di poi, appare una geniale anticipazione della ‘svolta linguistica’ (linguistic turn, linguistische Wende) operata dall’empirismo logico e da Wittgenstein nella prima metà del ’900. 

Nel Tractatus Wittgenstein passa dalle cose ai fatti, cioè agli eventi, dagli eventi alle immagini degli stessi, e dalle immagini alle proposizioni. Siamo alla ‘svolta linguistica’ del positivismo logico, dove però esisteva ancora una corrispondenza precisa tra cose e parole (la famosa critica di Carnap a Hegel partiva dal presupposto che dietro le parole di Hegel non esistessero ‘cose’). Dopo verranno i ‘giochi linguistici’ (ripresi in parte da Foucault in Le parole e le cose), e il linguistic turn, eredità (non denunciata) degli stoici, verrà piegato nella direzione dello storicismo relativistico, dove riemergerà un altro pezzo da novanta della filosofia antica, il pros ti: già il Tractatus si chiudeva con una citazione (non dichiarata) da Sesto Empirico (6.54=AM VIII 481).

Tuttavia la svolta storicistica seguita alla svolta linguistica inverte il rapporto di causa/effetto. La nostra immagine della realtà non è relativa perché è storica, ma – parafrasando Heidegger – è storica perché è relativa. Essa dipende onticamente dal carattere insopprimibilmente antropomorfico e costruttivistico di qualsiasi discorso sulla realtà. Questo non vuol dire, ovviamente, che gli eventi siano irreali, ma che hanno significato solo per noi.








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