29 giugno 2016

«Orme poetiche. Intervista a Cinzia Baldazzi» di Doriano Fasoli

Undici poeti contemporanei, di differente età, estrazione e provenienza geografica, ciascuno presente con dieci poesie, introdotti da un lungo saggio critico. Questa la formula di Orme poetiche, l’antologia da poco pubblicata da Intermedia e già presentata al Salone Internazionale del Libro a Torino, oltre che in varie parti d’Italia (tra cui Paliano, Samone, prossimamente il Salento). Ne parliamo con Cinzia Baldazzi, che ne ha scritto l'introduzione. Autrice di saggi e articoli di carattere letterario, per molti anni collaboratrice fissa di quotidiani e periodici per rubriche di critica teatrale e cinematografica, è vice-direttore della rivista online di teatro, cultura e politica Scenario. Collabora da oltre vent’anni con la Rai nei programmi di intrattenimento. Vive e lavora a Roma.

Doriano Fasoli: Un’antologia di centodieci poesie di autori contemporanei poco conosciuti al grande pubblico. Perché vengono definiti «leopardisti» e non «leopardiani»?

Cinzia Baldazzi: Nessuno alla morte del poeta romantico è stato mai ritenuto o ha inteso essere «leopardiano», né avrebbe potuto accadere, come si determina in tutti i poeti che non siano semplicemente – si fa per dire – elementi di una scuola poetica globale, come ad esempio gli «ermetici» Alfonso Gatto e Piero Bigongiari. Nessuno, ovviamente, ha più scritto come Gatto e Bigongiari, per motivi che riguardano l’irripetibilità dello spazio-tempo nei campi del pensiero e della comunicazione umana. Tuttavia, il filo rosso della poesia ermetica, che unisce, ad esempio, questi due grandi autori, può far sì che di costoro esistano più o meno diretti successori, prosecutori. Ma per poeti che sono il Romanticismo, come Leopardi, o il Decadentismo, come D’Annunzio (ambedue considerati slancio creativo nato in Italia), ispirarsi a loro coincide con un’affinità subliminale o espressa che necessariamente corre per altre strade. Così il dannunzianesimo è stato forte nel Novecento, ma né Ungaretti né Montale, nella loro alternativa condizionata, possono essere considerati dannunziani.

Cosa intendiamo allora per «leopardisti»?

Partiamo dal capofila della prima generazione, ovvero Giuseppe Ungaretti, che in Orme poetiche viene ‘riproposto’, sempre con le mediazione leopardiana, dalla poesia «Saro» di Salvatore Armando Santoro. Si è parlato di molte affinità tra l’infinito leopardiano e quello ungarettiano. Leopardi ha còlto, ha intuito l'infinito spaziale, visto nella negazione della realtà fisica a cui era da sempre abituato: spazi interminati, silenzi sovrumani, quiete profondissima. Una dimensione impossibile da paragonare con quella ‘solita’, ‘abituale’. Per Ungaretti, l’assoluto cui l'uomo tende è per definizione indicibile, inesprimibile, in quanto trascende la capacità umana di espressione. Però, l’essenzialità della parola risponde all’esigenza di dare voce al mistero dell'assoluto nascosto in ogni uomo.

Dunque nel Novecento facciamo un passo avanti.

Il fluire del tempo nello spazio romantico apre la strada a quello ungarettiano e ne esce configurato in forma non misurabile, ma propria dell’uomo. Le «orme poetiche» lasciate da Ungaretti evocano un infinito una volta leopardiano, oggi leopardista: suo alle origini, ieri ungarettiano, oggi nostro. Come nella già citata «Saro» di Santoro, storia davvero leopardiana, con la chiusa dedicata a coloro i quali «aspettano ancora il dì di festa», ma con l’emblema umano dell’assenza, delle passate stagioni che tornano nel ricordo vivo, ineffabile ma adesso misurabile, perché il giovanissimo Saro sedeva con lui, con gli amici, accanto alla chiesa, e le sue siepi le aveva già valicate.

Nella tua lunga introduzione, la parte dedicata a ciascun poeta è avviata da un brano di prosa leopardiana che poi, continuando nella lettura, fa da guida, da traccia all’analisi del singolo autore.

È indubbio come esista, e la critica lo ha rilevato da tempo, una sorta di affinità elettiva in atto tra il pensiero di Giacomo Leopardi e molti poeti del nostro Novecento: Ungaretti, Montale, Bigongiari, Zanzotto, Sergio Solmi. È la cosiddetta «prima generazione» di leopardisti. Nel mio saggio introduttivo ho preso le mosse da questo «lascito» del secolo appena concluso, per leggere sotto una simile luce i poeti degli anni Duemila e identificare gli undici autori di Orme poetiche in una «seconda generazione» di leopardisti.

È stato un puro caso a rendere possibile il rintracciare, in una silloge di poeti raccolti intorno a un sito, ben undici esponenti della seconda generazione, mediati da altrettanti protagonisti del Novecento?

Rispondo leggendo Leopardi, sfogliando le sue pagine di prosa, stato d’animo che ha prodotto e concluso l’intera mia introduzione, anche se proiettata, con varie diramazioni, sino a oggi. Nel «Dialogo di Torquato Tasso e il suo Genio familiare», il Genio così si esprime: «il piacere è un subbietto speculativo, e non reale; un desiderio, non un fatto; un sentimento che l'uomo concepisce col pensiero, e non prova; o per dir meglio, un concetto, e non un sentimento.»

Suppongo si parli del «piacere» non solo di leggere, ma anche di interpretare…

Certamente. Ho voluto seguire queste indicazioni, dove il piacere, la libido, non si configuri come un concetto di vero-falso, bello-brutto, ma a se stante, precedente. Il sentimento legato a scoprire una cosa giusta o sbagliata, piacevole o non piacevole, non è considerato.

Come si sviluppa in pratica questa introduzione a Orme poetiche?

È come se io avessi assegnato ai poeti la parte di Torquato Tasso, e il Genio della poesia come fossero invece Leopardi, Montale, Luzi e così via. Su Mario Luzi, basti pensare al suo libro sul «ragazzo di Recanati», a quell’apertura alle «più diverse voci del mondo» che lo ha contraddistinto nella fase post-ermetica dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Come noto, essa è stata ulteriormente attualizzata nel tema dell’infelicità, della disperazione e di un suo possibile superamento tra le righe di «Il mare tranquillo» di Graziano Gismondi: la rimozione della paura, il rifiuto del mascheramento, l’apertura oltre l’ultimo orizzonte che impedisce di guardare oltre.

Ho agito lungo questo percorso, anche se inesperta di una simile pratica, perché Leopardi stesso non l’ha mai fatto, anzi, nessuno l’aveva fatto con questi poeti meno conosciuti: analizzare il piacere della loro poesia e delle fonti ispirative come un soggetto del pensiero, e non reale, un desiderio del divenire in poesia e non un fatto o un obiettivo materialmente, universalmente raggiunto.

Qualche esempio?

Gli esempi da fare sarebbero undici, equivalenti ai versi riportati nell’introduzione che ognuno degli autori ha rivelato in stretto contatto da una parte con Leopardi, dall’altra con l’attualità del Novecento. Ne scelgo alcuni. Ho letto nei versi di Annalena Cimino l’eco di un commento leopardiano su Ludovico Ariosto, e quindi una evocazione del tema «lontano-vicino»: lo ritrovo nei versi della Cimino e, indietro nel tempo, nel secolo scorso, in una raccolta di Mario Novaro, con l’idea di «piacere» come desiderio in essere e non come dato di fatto. Ora, invece di essere un limite, questo tipo di lettura ne spalanca le ripercussioni, la sonorità: il sentimento non risulta fatalmente legato al mi piace o non mi piace, i due opposti poli che conosciamo e di largo uso quotidiano.

Entriamo, in questo modo, anche nel possibile ‘ruolo’ rivestito dalla poesia ai giorni nostri…

Prendiamo il «Dialogo di Timandro e di Eleandro». Quest’ultimo invita il primo a cambiare animo: invece di attaccare l’uomo, scriva qualcosa che gli sia di giovamento. Attraverso la mediazione del novecentista Libero De Libero, con i suoi paesaggi naturali e un’immagine rarefatta della filosofia della vita, ritroviamo nei versi di Maria Luisa Bandiera un’evocazione della natura divenuta poesia, con «emozioni / frementi e belle / a lieto fine». Vale a dire, lo sradicamento dell’uomo da una natura non più umana per raggiungere il «cielo», essere investito dalla forza e dalle cose della Natura. Afferma infatti De Libero: «il mio è privilegio di cantare (o sia pure compiangere) la luce, la pietra, l’acqua e le piante in ogni loro avvenimento, nel loro diverso nascere.»

Dunque, sono liriche da leggere senza voler necessariamente «provare» il sentimento del piacere?

Direi che le cosiddette «prove» di questo piacere rimangono indietro, non superate, per carità, ma certo in secondo piano rispetto al livello, alla dimensione, in cui il concetto è valido e attendibile, cioè il mondo categoriale della bellezza poetica. Quindi, piaceri reali ma iscritti in un concetto che, per essere allargato e divenire verso, diventare poesia, rima, strofa, chiede in prestito il sentimento, il piacere: ripeto, non quello sensoriale, bensì quello del pensiero.

Quali sono le tue preferenze nella poesia?

Mi incantano, ogni volta che li leggo, i Sonetti di Foscolo, ma i miei best sono i Canti di Leopardi, il Libro dei poemi di Federico García Lorca, Foglie d’erba di Whitman. Del Novecento italiano, oltre alla raccolta L’allegria di Ungaretti, magnetica e autoritaria, mi piace leggere di tanto in tanto i «vociani» Sbarbaro e Rebora, poi Montale, Quasimodo, Luzi e Penna. Da ragazza coltivavo anche la mitologia della «poesia pura» degli ermetici cosiddetti «moderni», come Solmi, De Libero, Sinisgalli.

Come è nato Orme poetiche?

Nel corso della collaborazione a Sfogliandopoesia.com, il suo gestore nonché poeta Pasquale Rea Martino – mirabilmente situato tra Leopardi e Montale, in un evocativo ripiegarsi su di sé, nel proprio passato, per riconfermare presente e futuro – mi ha comunicato il progetto di un’antologia che raccogliesse i versi degli autori vicini al sito, sulla cui raccolta avrei poi scritto una presentazione. Il risultato finale ha visto coinvolti undici poeti, lui compreso, ciascuno con dieci componimenti.

Visto che hai citato la rete, ti chiedo una precisazione. Facebook da una parte, i siti di poesia e letteratura dall’altra, offrono ormai da tempo un campo virtualmente infinito ed eternamente riproducibile a chi vuole far conoscere i propri versi. Cosa pensi del fenomeno?

In certa misura, le migliaia di poesie postate sui siti specializzati o pubblicate sui social network non possiedono di per sé un reale valore letterario, né suscitano interessi critici specifici. Molte di esse sembrano stare lì solo per soddisfare il desiderio dell’autore di essere letto da altri poeti come lui. Esprimono sentimenti, dolori, ambizioni, pensieri, rovesciando nella rete tutto ciò che non potrebbe esprimersi in situazioni differenti: in tal modo, l’autore attribuisce valore di «poesia» alla semplice esternazione di uno stato d’animo.

A un pubblico più ampio di quanto si possa pensare, corrisponde una mole imponente di poesie in rete, non sempre meritevole di essere posta in vetrina. È così?

Per fortuna è una dinamica che non si riassume in una regola. Da frequentatrice assidua, quale sono, ogni tanto rintraccio versi che mi stupiscono, mi spiazzano, rivelando il momento inatteso di una strofa mirabilmente evocativa, una scelta lessicale inconsueta che rende possibile apprezzare, a volte, anche il risultato convincente di uno sforzo metrico.

Torniamo a Leopardi. Uno dei concetti centrali del tuo saggio è la «noia».

Oggi, la noia è il «non saper cosa fare», è l’inedia. Ai tempi di Leopardi, il significato appariva caratterizzato in misura più negativa e lui la vedeva come un pericolo: si riferiva più che altro all’indifferenza, quasi al disgusto verso le cose del mondo. Anche oggi, tuttavia, è opportuno considerare la noia come l’immagine di un nemico: in agguato in un mondo differenziato – nei mezzi, colori, immagini, oggettualità – dispersivo o difficile da abitare, nella dimensione quotidiana, a causa della fitta rete di condizionamenti e densità simbolica suoi tipici.

Un esempio?

Esattamente per vincere questa noia, il leopardismo novecentesco ha fatto passi da gigante, e ha aperto la strada ai posteri. Quando interpreto le poesie di Elvio Angeletti in una consonanza ideale con Clemente Rebora, intendo esattamente questo: Rebora sconfiggeva l’oppressione delle tenebre, del buio, della pazzia con le proprie turbate visioni mentali, Angeletti vede in un canto di donna la sua medicina contro il pericolo di smarrire la ragione.

Qual è stata la spinta di maggiore attualità, dall’Ottocento leopardiano a oggi, che ti ha sorpresa di più in questi poeti?

Qui entro direttamente in campo, senza esprimere giudizi di gusto kantiani o giudizi sintetici apriori, quindi universali e necessari, ma anche accrescitivi di informazione: piuttosto mi lascio trascinare da un flusso del tempo personale e irripetibile, occasionale, ma di impronta storica. Direi allora che è stata la «social catena» della «Ginestra» leopardiana da me rintracciata ne «L’albero della vita», pur liberamente attualizzata da Maria Adelaide Cantafio, molto vicina all’ispirazione poetica di Salvatore Quasimodo. Il fiore dei luoghi solitari, inospitali, brulli, aridi, del «deserto», ovvero i terreni dopo il passaggio distruttore della lava del Vesuvio, lancia un monito alla «social catena», quella che «Contra l’empia natura / Strinse i mortali»: una catena di solidarietà umana.

Nella «Ginestra» leggiamo anche la tragica fragilità delle «magnifiche sorti e progressive».

La «social catena» – sono parole di Terenzio Mamiani, cugino di Leopardi – oggi è tanto più pericolosa nella scelta dei suoi componenti, perché fatalmente il bersaglio della «natura matrigna», madre dell’odierno terrorismo, è proprio lì, nelle «magnifiche sorti e progressive» del nostro Occidente, che il poeta vedeva nemiche della ragione e della giustizia umane.

A cosa ti riferisci?

Quale caratterizzazione migliore dell’attacco alle Torri Gemelle, all’alba degli anni Duemila? Per questo, ovviamente in chiave simbolica, da parte dei nostri antagonisti assassini veniamo colpiti drammaticamente. Non sbagliava, il poeta: è solo che adesso la lava del vulcano ha questa natura, e la nostra ginestra si deve adeguare. E la poesia è il primo strumento per farlo. È vero, ancora oggi inghiottiamo una sanzione, una «colpa» arcana. Qualcuno forse si chiede, come la Cantafio: «capriccio di natura / umano tradimento / o indifferenza cruda a sofferenza?». Non c’è risposta ma, per noi, non è tempo di resa. Dobbiamo varcare l’unica soglia di accesso al superamento di queste spaccature. Qualcosa di nuovo, diceva Leopardi, e che ancora oggi potrebbe essere tale.

Uno dei temi transitati da Leopardi lungo il Novecento per arrivare ai poeti degli anni Duemila è proprio quello della Natura.

Devo ricordare innanzitutto l’antagonismo leopardiano tra natura e non-natura, tra male e bene, manifestata nel concreto, nella vita reale: la poetica di Ferruccio Calogero, in Orme poetiche, mette in campo questa lontananza progressivamente maggiore, oggi economicamente calcolata, produttivamente gestita. E la sua risposta utopica richiama l’opera di Daria Menicanti, che misurava l’esorcizzazione dell’angoscia, della morte, di se stessi, della propria autenticità.

Oggi la natura ha una fisionomia differente da quella di duecento anni fa…

In un campo affine, Leopardi già parlava, a suo modo, di natura reificata. Attraverso Sergio Camellini e il suo viaggio delle emozioni, arriviamo alla tappa dell’attualità, dove la reificazione di quello che avvertiamo ed esistenzialmente siamo è affidata a strofe che registrano sequenze di oggetti conservati nel tempo. Argomento affrontato in epoca crepuscolare, a cavallo della Grande Guerra, dal milanese Carlo Vallini (amico di Guido Gozzano), con un’aderenza piena tra la nuda scansione dei versi e una sorta di specifica e personale psicologia.

Le parole di Leopardi, nell’arco di duecento anni, è come se avessero trasportato con loro i concetti che poi ritroviamo negli autori di oggi.

Innanzitutto il piacere trasmesso dall’ignoto e dall’indefinito. Lo ritrovo in Giorgio Dello, nella sua determinazione di rifuggire la ricerca di definizioni esatte sullo spirito o sull’anima: qualcosa che la vita non conosce, che va molto al di là della cronaca esistenziale e che, andando a ritroso nel Novecento, si riconosce nelle pagine di Arturo Onofri.

Poi, i termini di vicino e di lontano, che le liriche di Giulia Gabbia, con il loro grado di allontanamento spazio-temporale, ripropongono nell’immagine di ciò che riemerge dal fondo delle associazioni e si fissa tra i versi, ricollegandosi così a un complesso creativo articolato dagli anni ’50 alla metà dei ’70 dalla poetessa fiorentina Margherita Guidacci in un’ottica di presente-vicino e presente-lontano, di immagini attuali ed attualizzate dal ricordo.

Doriano Fasoli

 

 

 

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