11 maggio 2016

«La Follia ritrovata. Conversazione con Giovanni Sias» di Doriano Fasoli

 

Giovanni Sias è psicoanalista. Vive e lavora a Milano, dove si occupa, in particolare, della formazione degli psicoanalisti. Studioso e teorico della psicoanalisi fa parte dell’Area Mediterranea di Psicanalisi, un collettivo di lavoro che raccoglie psicoanalisti italiani, francesi di area provenzale e occitana, e spagnoli. La sua ricerca teorica si rivolge in particolare alle strutture fondanti la pratica della psicoanalisi e alla rielaborazione costante dei principi primi della conoscenza psicoanalitica: Edipo, Mosè e il pensiero sapienziale (Presocratici e profeti), le forme di elaborazione e trasmissione della psicoanalisi (il teatro, la letteratura, l’arte) e dei suoi rapporti con il pensiero scientifico moderno. A Milano collabora con la Fondazione Humaniter istituita dalla Società Umanitaria, dove tiene un seminario sulla Cultura della psicoanalisi. Dalla Fondazione «Dino Terra» e dal Comune di Lucca è stato nominato direttore scientifico del convegno internazionale Letteratura e psicoanalisi del marzo 2012. I suoi lavori più importanti sono pubblicati in Italia e in Francia, oltre ad articoli pubblicati in inglese, spagnolo, portoghese, greco e turco. Tra i tanti si ricordano: «L’artista e la follia», in Cristaldi, Miriam (a cura di), Arte come evocazione, L’Uovo di Struzzo, Torino 1990; Inventario di psicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino 1997; «Clinica del ritratto», in Raimondi, Ezio (a cura di), Ritratto della poesia, Quaderni del Circolo degli Artisti di Faenza, Faenza 1998; «Nel nome del padre», Bibbia e Oriente, vol. 43, n. 210, 2001; Fuga a cinque voci. L’anima della psicanalisi e la formazione degli psicoanalisti, Antigone, Torino 2008; «logos. Il ritorno della sapienza antica nell’esperienza della psicanalisi», Kamen’, n. 34, gennaio 2009, pp. 91-131; «Il motto di spirito nei suoi rapporti con la verità», in AA.VV., Atti del Convegno internazionale di studi sull’umorismo, Lucca 6-8 aprile 2009, a cura di Daniela Marcheschi; Appunti per una nuova epistemologia. La psicanalisi, la scienza, la verità, Zona Franca, Lucca 2011; «ובד. Il ritorno della sapienza antica nell’esperienza della psicanalisi», Enthymema, n. 9, dicembre 2013, pp. 334-369; «La psicoanalisi dopo José Ortega y Gasset», Studi Ispanici, Anno 40, 2015, pp. 147-176.
La presente conversazione prende origine dall'uscita dell'ultimo libro di Sias: La Follia ritrovata. Senso e realtà dell’esperienza psicoanalitica, Alpes Italia, Roma 2016.

 

Doriano Fasoli: Come nasce il suo ultimo lavoro, dottor Sias?

Giovanni Sias: La Follia ritrovata nasce da un articolo di alcuni anni fa, scritto per il blog di un’amica cantante jazz e psicanalista, Laura Pigozzi, in cui affrontavo alcuni temi riguardanti la follia, in particolare in relazione alla musica, e a cui aggiunsi, come sintomo della moderna mentalità intorno alla follia, e in forma di elogio, un paio di pagine sull’autismo. I temi toccati erano la letteratura, in particolare in relazione al lavoro di Giuseppe Pontiggia, la filosofia, il teatro. Era comunque un articolo breve che non approfondiva in maniera sufficiente nessun aspetto. Insomma, un articolo che mi lasciava insoddisfatto, soprattutto per il suo sorvolare sui vari e tanti temi che apriva. Cosa, questa, per me un po’ particolare e fino allora estranea al mio modo di scrivere che si è sempre sviluppato in modo piuttosto omogeneo lungo un solo tema, mentre in questo libro i temi sono molti. Ma soprattutto la riflessione sulla follia, il tema dell’articolo, mi sembrava eccessivamente incompleta e inconclusa.

A riaprire la mia attenzione verso il tema del mio articolo, un paio di anni dopo, o forse anche tre, fu un articolo di un filosofo russo, Vitalij Machlin, pubblicato sulla rivista di letteratura Enthymema, dell’università Statale di Milano, dal titolo «Oltre l’interpretazione», dove l’autore, prendendo spunto dal lavoro scientifico di Bachtin, si fa portatore di una nuova proposta di dialogo fra autore e lettore. Si riaprirono così temi rilevanti del mio percorso di ricerca, come la traduzione, la lettura, il sogno e così via. Insomma i temi toccati nel libro la cui occasione di pubblicazione mi fu offerta da Doriano Fasoli per i tipi di Alpes Italia.

La scrittura restava però sul piano della domanda. Alla fine mi sono reso conto che intorno al tema centrale, la follia, e gli altri temi che in relazione si aprivano, potevo avvicinarli solo per domande; di ciò che mi ero proposto di sviluppare non riuscivo a dire nulla di conclusivo, non andavo oltre il domandarmi, oltre all’articolazione della domanda e l’accostamento dei temi trattati. Alla fine, questo piccolo libro, così diverso da tutti gli altri scritti, mi è risultato forse più soddisfacente, più libero, senza eccessive griglie interpretative che, alla fine, lasciano sempre un testo apparentemente concluso ma anche rinchiuso in un involucro di finitezza. L’apertura della domanda, invece, è resa infinita dall’assenza di risposta, di una risposta univoca. La risposta, in effetti, impedisce quel processo di conoscenza che l’interrogazione avvia. In una esperienza psicanalitica non ci sono risposte, ma una continua articolazione della domanda, spinta sempre a livelli superiori, e cioè l’articolazione della domanda è l’apertura a un’altra domanda più complessa e più impegnativa.

10 maggio 2016

«La madre», un racconto di Antonio Melillo

 

I.

La madre

la mia terra,
che fuor di sé mi serra,
vota d’amore

D. Alighieri

 

Quando accade, accogliere la morte e il dolore significherebbe non inspirare gli afrori della decomposizione? Le parole dette prima sono un autoinganno, come legate a brandelli di speranza.

***

Torcere il naso dalla pelle e dai gesti salati non era carino, ma il lenimento delle carezze era uno sforzo sul cuoio ruvido del capo scosso da un lato. Il letto, non d’una sposa, sconsacrato dalla malattia, dal corpo umiliato; il marito gli porgeva gli occhi che ricordano e s’immaginano la solitudine: i figli avevano comunque ancora una vita intera.

Qualcosa che non potesse essere orribile in quel momento non vi era; lei continuava a guardare – ad accusarmi – mentre quella maschera che l’aiutava a respirare s’impregnava di rosso come lagrime, un rantolo interminato.

Tre anni prima mi confessò il malore, le dissi di non preoccuparsi: era lo scirocco che secca la vita dal di dentro; senza sapere cosa significasse. La mattina, eccitata, mi aveva chiesto più volte di andare con lei in campagna, ricordava soltanto com’era camminare in mezzo al grano, aveva lo sguardo scintillante, una bimba; la madre le era morta in novembre e sembrava volersi ingannare con una passeggiata, interrotta, sempre un novembre, con i campi venduti e la vita possibile solo nella città del nord.

Le dissi di no, volevo correre gli amici, non contemplare, del resto non avevo ancora nulla da ricordare. Quando ritornai all’imbrunire, era in casa, sfiancata su una sedia; insistetti, come lei al mattino, ma con gli occhi sfioriti, di dirmi cosa avesse, invece mi evitava; la cena mancava sul tavolo, solo a quel punto, quasi volesse chiedere scusa, mi disse che aveva avuto un mancamento; non capii che lo stomaco la stava rigettando.

***

Forse rigettava non cibo. Se l’egoismo avesse permesso di intuire, avrei pregato, nonostante già sapessi da mia madre che la fede va a braccetto con la disperazione e che il dolore non permette di abbandonarsi al nulla.

***

La speranza, e il profumo dei cipressi.

***

Quel giorno, mia cugina piangeva come fosse la figlia ed io la sostenevo: «Giocheranno a carte in cielo con la nonna e il nonno,» sorridendo, tacendo il pianto che ara dal di dentro; mio fratello, che non si capacitò: «Che giornata di sole, non poteva essere diversamente.»

Trattenevo lezioni sull’architettura funeraria per gli zii della Francia: volevo soffrire quando gli altri avrebbero incominciato a soffrire meno.

***

La malattia, se non sapesse di morte esisterebbe?

***

La malattia è meglio del nulla?

Curata pietosamente, è morta dopo un più lungo travaglio; era questa la maledizione ad Eva per mia madre?

Quando tornava a casa, a stento, le dava fastidio l’odore del cibo, ma cucinava lo stesso, anche l’ultima volta che andò in ospedale lasciò in frigo preparato il sugo.

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Come un terremoto disabitato, malattia e morte colpirebbero senza i sentimenti?

6 maggio 2016

«Bambini ad oltranza. Conversazione con Cristina Chiarato» di Doriano Fasoli

Cristina Chiarato è laureata in Filosofia e in Psicologia e si è specializzata presso la Scuola di formazione de «Lo Spazio Psicoanalitico» di Roma. È psicoterapeuta e per oltre trenta anni è stata psicologo dirigente in un Servizio Materno Infantile di Roma. È autrice di diversi articoli pubblicati su riviste scientifiche. Bambini ad oltranza (pubblicato in questi giorni dalle Edizioni Polìmata) è il suo primo libro.

Doriano Fasoli: Perché ha deciso di scrivere questo libro, dottoressa Chiarato?

Cristina Chiarato: Nella mia esperienza clinica ho incontrato molti genitori incerti, incastrati in dinamiche che li facevano sentire in balìa dei figli; impotenti rispetto a bambini che giudicavano ingestibili; incapaci di dare regole e confini, quando non angosciati dal sentire che la presenza del figlio è per sempre. E, di conseguenza, mi sono occupata di bambini, anche molto piccoli, confusi, rabbiosi, ‘viziati’, sempre più richiedenti, bulimici di cose, insonni. Ho ascoltato tanti adolescenti o giovani incastrati in climi famigliari fusionali che, seppure vissuti con una sensazione di protezione, in realtà privano di autonomia e da cui è molto difficile, o almeno molto complicato, uscire. Ho visto coppie che si formano, quando si riescono a formare, con legami molto precari, spesso vivendo la propria autonomia come un ‘tradimento’ rispetto alle famiglie di origine, quasi colpevoli dei propri distacchi.

Dunque ciò che mi appare, sia a livello dei singoli individui che delle coppie, e anche della società – mi riferisco alla società attuale occidentale, – è una sorta di ‘mutazione’, di cui non è possibile precisare l’origine temporale, che si esprime in vari modi, sintomi, segnali. È l’epoca, ad esempio, nella quale si tende a rallentare la crescita dei grandi e ad accelerare quella dei bambini, limando così le differenze generazionali e proponendo rapporti alla pari che generano confusione; nella quale tende a prevalere l’imperativo del godere, di un forsennato carpe diem, piuttosto che l’impegnativa costruzione dell’amore; e nella quale, quindi, prevale il rimpiazzo, la rapida sostituzione del partner, quando una coppia non funziona, anziché la riparazione del legame.

Nella quale l’agire, sempre più spesso, prende il posto del pensare, del sostare a riflettere, ‘preferendo’ lo scarico immediato di una tensione: ne sono eloquenti esempi i terrificanti fatti di cronaca che quotidianamente si presentano come una terribile e agghiacciante impossibilità a elaborare un dolore, una perdita, una separazione. Nella quale, mentre si rincorre lo smantellamento di tanti tabù, sembra al contrario rafforzarsi il tabù della separazione, vissuto come il tradimento dell’illusione di un limbo eterno in cui non si cresce. Eccoci al punto. Sono state tutte queste riflessioni scaturite dalle delineate esperienze cliniche che mi hanno indotto a scrivere e riassumere l’anima del mio scritto in tre parole: Bambini ad oltranza.

È certo che, di per sé, l’infanzia non è una malattia. Rischia, però, di diventarlo se psichicamente viene protratta ad oltranza, se si proclama una sorta di sciopero, che la stessa parola evoca, dalle ‘fatiche’ del crescere. Perché crescere è un lavoro costante, è una continua modificazione degli assetti precedenti, è l’attraversamento delle varie fasi della vita, è, fondamentalmente, l’abbandono dell’illusione onnipotente di non dover fare i conti con al separazione, il dolore, lo sforzo, l’impegno, i limiti, che troppo spesso vengono identificati con il trauma.